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Vietato vivere: i principali diritti negati dai talebani

Le regole talebane entrano nella vita quotidiana, nel corpo e nella mente delle donne, condizionando ogni gesto, ogni azione. Rendendo la paura un normale e quotidiano stato d’animo. Disagi mentali e suicidi sono in aumento. Le trasgressioni sono punite con violenze fisiche e psicologiche, sia sulle donne che sui maschi della famiglia. Le carceri femminili sono piene di donne accusate di delitti morali.

Il seguente rapporto elenca alcuni dei decreti emessi dai talebani per limitare le donne afghane in diverse sfere della vita. Sono stati imposti dall’agosto 2021, una volta riportati al potere dagli Stati Uniti/NATO.

  • Annullato il diritto alla partecipazione alla vita pubblica e politica. Alle donne è vietato svolgere attività politiche e pubbliche.
  • Annullato il diritto di protesta. Sono state arrestate e torturate decine di donne coraggiose solo per aver organizzato manifestazioni per i loro diritti.
  • Annullato il diritto a ricoprire cariche governative.
  • Divieto di istruzione liceale per le ragazze al di sopra della sesta classe. Questo divieto ha aumentato la violenza contro le ragazze, compresi i matrimoni infantili e forzati. Nada Mohammad Nadim, ministro talebano dell’Istruzione superiore, ha dichiarato in un discorso: “Le ragazze nelle scuole sono oscene e immorali”.
  • Chiusura di scuole di musica e arti. Dalla fine di agosto 2021, sono stati chiusi tutti i centri che si occupavano di educazione musicale e artistica. È vietata la riproduzione di musica sui canali televisivi e radiofonici, così come nei matrimoni e in altre celebrazioni. Questo perché i Talebani considerano la musica “proibita” nell’Islam. Alcuni musicisti sono stati pubblicamente maltrattati, umiliati e arrestati, i loro strumenti musicali sono stati distrutti.
  • Divieto di praticare attività sportive. Divieto di praticare sport dall’8 settembre 2021: “Gli sport femminili sono attività inappropriate e non necessarie, perché i volti e i corpi dei giocatori non possono essere coperti, e questo non è permesso dalla Sharia”. Pertanto, le donne non hanno il diritto di fare attività fisica.
  • Segregazione sessuale negli spazi pubblici.
  • Creazione del ministero della “morale”. Il Ministero per gli Affari femminili diventa il “Ministero per la Propagazione della Virtù e la Prevenzione del Vizio”. Questo ministero è il principale organo del regime talebano che impone rigide regole islamiche, tra cui il codice di abbigliamento, l’obbligo di un mahram (padre, fratello, marito e figlio) che viaggi con le donne, il divieto di indossare scarpe bianche (perché il colore della bandiera talebana è il bianco!) e altre ancora. Le donne che non seguono queste regole possono anche essere arrestate.
  • Divieto di apparire in televisione. Secondo un ordine emesso dai Talebani nel novembre 2021, alle donne è vietato apparire e lavorare in televisione; e alle giornaliste e alle presentatrici è stato ordinato di coprirsi completamente il volto.
  • Restrizioni di viaggio. Il 26 dicembre 2021 i Talebani hanno imposto restrizioni agli spostamenti delle donne. Agli autisti è stato ordinato di non far salire le donne senza hijab. Le donne senza mahram non possono viaggiare da sole oltre una distanza di 72 chilometri. Alle donne non è consentito sedersi sul sedile anteriore delle auto e qualsiasi uomo e donna che viaggiano da soli vengono fermati e interrogati per determinare se l’uomo è il mahram della donna.
  • Imposizione dell’hijab. Alle donne è stato ordinato di indossare l’hijab nel gennaio 2022. I Talebani hanno anche creato un programma chiamato “osservanza dell’hijab”, installando cartelloni in città. Il 7 maggio 2022 è stato ordinato che tutte le donne devono coprirsi il volto nei luoghi pubblici e che in caso di violazione dell’ordine sarà punito il tutore maschile della donna. I membri della polizia religiosa possono fermare le donne per strada e costringerle a comprare un hijab nel mercato più vicino e solo allora potranno tornare a casa.
  • Divieto di guida. Nel maggio 2022, nella provincia di Herat è stato emesso un decreto che vieta alle donne di guidare e anche ai corsi di guida di insegnare alle donne.
  • Divieto di frequentare luoghi pubblici. Il 27 marzo 2022 è stato vietato alle donne di frequentare parchi ricreativi, bagni pubblici, parrucchieri e club sportivi.
  • Divieto di interazione tra studentesse e personale maschile. I Talebani hanno imposto restrizioni al personale delle università, impedendo loro di interagire con le studentesse. Alle studentesse non era inoltre consentito interagire con i compagni di classe maschi e partecipare alle loro cerimonie di laurea. Divieto di partecipazione delle ragazze ai corsi di formazione linguistica. Nel settembre 2022, i Talebani hanno ordinato ai centri di formazione linguistica di assumere insegnanti donne o sarebbero stati chiusi.
  • Divieto di scegliere diversi campi di studio. Alle ragazze è vietato scegliere l’indirizzo di studio nelle università. Nella prima settimana di ottobre 2022, quando le diplomate hanno sostenuto i test di ammissione all’università, è stato chiesto loro di non scegliere i campi dell’agricoltura, della medicina veterinaria, dell’ingegneria civile, dell’ingegneria mineraria, ecc. Due settimane dopo, è stato tolto alle ragazze anche il diritto di continuare a studiare a livello di master in campi come agricoltura, commercio, informatica e ingegneria.
  • Divieto di istruzione universitaria. Il 28 gennaio 2022 è stato ordinato a tutte le università private di non ammettere studentesse nel prossimo anno fino a nuovo avviso. Con l’emissione del decreto n. 2271 del 20 dicembre 2022, tutte le università pubbliche e private sono state chiuse alle ragazze a causa della “presenza di studentesse senza mahram nei dormitori”.
  • Messa al bando del diritto al lavoro. Alle donne è stato vietato di lavorare fuori casa e, in particolare, in organizzazioni non governative internazionali e nazionali. I Talebani non permettono alle donne nemmeno di lavorare da casa. Molti uffici sono stati costretti a licenziare le impiegate.
  • Controllo dei diritti riproduttivi. Imposizione di restrizioni alla pianificazione familiare a Kabul e in diverse altre province. A medici, operatori sanitari e farmacisti è stato ordinato di non prescrivere o vendere farmaci per il controllo delle nascite e per il potenziamento sessuale. In caso di violazione, il loro permesso di lavoro sarebbe stato confiscato.
  • Divieto di San Valentino. Il 14 febbraio 2023, i Talebani hanno dichiarato San Valentino una cultura blasfema e hanno picchiato alcuni venditori di fiori. Negozi e ristoranti sono stati costretti a chiudere in questo giorno.
  • Rimozione delle immagini femminili dai luoghi pubblici. Immagini di donne in spazi pubblici, tra cui saloni di bellezza, cartelloni pubblicitari, mercati, sale per matrimoni, corsi di istruzione e scuole private, cliniche private, ospedali pubblici e privati, sono state rimosse con la forza o deturpate con vernice nera. Anche la statua di una donna nel cortile dell’Università di Kabul è stata deturpata, rimossa e rotta.
  • Rimozione dei manichini femminili dai negozi. I negozi di abbigliamento non possono esporre manichini femminili. Nella provincia di Herat hanno costretto i negozianti a decapitare i manichini.
  • Divieto di pubblicare immagini di esseri viventi. I giornali governativi non hanno il diritto di pubblicare immagini di esseri viventi perché, dal punto di vista dei Talebani, nell’Islam è vietato stampare immagini di uomini e animali.
  • Restrizione nella fornitura di servizi governativi. Gli uffici governativi hanno il diritto di fornire servizi alle donne con hijab e mahram solo due volte alla settimana, mentre negli altri giorni alle donne è vietato entrare in qualsiasi ufficio governativo.

 

La resistenza democratica

Inizia a piovigginare. La gente arriva alla spicciolata e silenziosa, continua ad aumentare. La polizia in assetto antisommossa è schierata. Siamo al parco di Shahr-e-Naw, nel cuore di Kabul, nel novembre del 2019. Il governo ha vietato i cortei per le strade, troppi attentati. Si può protestare solo in questo recinto tra gli alberi, circondato da una rete di metallo, come un pollaio. La manifestazione è organizzata da Hambastagi, il Partito della solidarietà, l’unico laico, progressista e democratico del Paese. Si protesta contro la liberazione di tre Talebani, membri della potente rete Haqqani, in cambio di due professori americani, rapiti nel 2016. I tre tagliagole stanno per tornare in libertà e l’indignazione è forte tra la gente. Il recinto è ormai pieno e si decide, nonostante i divieti, di uscire dalla gabbia. Le persone si avvicinano, discretamente, stringono mani, sussurrano cauti la loro approvazione. In quel periodo gli iscritti al partito erano in crescita, circa 33mila: per lo più giovani, uomini e tante donne. Famiglie intere che lavoravano insieme per il loro Paese.

I militanti di Hambastagi c’erano sempre ad accoglierci all’uscita dell’aeroporto quando arrivavamo dall’Italia, con il loro entusiasmo e il loro incrollabile impegno. Stavano al nostro fianco per tutto il tempo in cui la delegazione CISDA restava in Afghanistan. La nostra sicurezza era nelle loro mani esperte: un pick-up con dieci uomini fidati e ben armati ci seguiva dappertutto. Guidavano i nostri passi, sorridenti e discreti. Loro sapevano, erano ben informati. I militanti del partito lavoravano un po’ dovunque: nel governo, nella polizia, perfino nei servizi segreti. Una rete informativa fondamentale per chi porta avanti un lavoro politico pericoloso, anche allora, prima del regime talebano. Ora possiamo incontrare Nassim, portavoce del Partito, soltanto per telefono.

 

Come vivono oggi i membri di Hambastagi?

Non possiamo più esporci. Manifestazioni e proteste pubbliche sono diventate molto pericolose, i Talebani fanno arresti di massa. I prigionieri, il più delle volte, spariscono. Anche qualcuno di noi è stato detenuto e torturato e siamo riusciti a salvarlo per miracolo. Il nostro partito era ufficialmente registrato: abbiamo bruciato tutti i documenti ma chi si era esposto di più, anche in tv, e ha scelto di rimanere nel Paese, deve cambiare casa in continuazione per sopravvivere. Ormai lavoriamo in clandestinità e portiamo aiuto alla popolazione devastata dalla povertà, che riguarda ormai anche la classe media, senza più risparmi; sosteniamo, accanto all’Associazione rivoluzionaria delle donne afghane (RAWA) e alle militanti del partito, le necessità e le speranze delle donne.

I Talebani avevano promesso che ci sarebbe stata più sicurezza, è così?

No, purtroppo. Quasi ogni giorno ci sono attacchi suicidi, combattimenti, esplosioni ma sui media non se ne parla. Sono notizie censurate.

Chi sono i responsabili? ISIS, Talebani?

Entrambi. La guerra tra ISIS Khorasan e Talebani è scatenata. Il primo ha basi forti in Afghanistan, soprattutto nel Nord-Est, raccoglie gruppi e miliziani scontenti dei Talebani. Cercano di destabilizzare il governo in tutti i modi, anche provocando rappresaglie. Coltivano l’odio della popolazione che porta nuovi adepti al loro gruppo. Anche le rivalità tra le diverse fazioni dei Talebani sfociano spesso in attacchi armati. Poi ci sono gli scontri interetnici.

Quali scenari aprirebbe un collasso del governo?

L’ennesima guerra civile. Potrebbe succedere, ce l’aspettiamo, magari non subito. Per ora nessuno Stato estero ha interesse a eliminare i Talebani e loro staranno insieme finché avranno soldi da dividersi.

Da dove arrivano questi soldi?

Hanno i proventi del traffico di droga e del contrabbando, ci sono le tasse che riscuotono regolarmente. Per aumentarle, in questa situazione di crisi economica, incoraggiano molto le imprese private. Se porti denaro puoi aggirare anche le loro regole. La corruzione è altissima. Dalle Nazioni Unite arrivano al governo 40 milioni di dollari a settimana, formalmente per l’aiuto umanitario.

Sappiamo da nostre fonti come li dividono: ogni capo militare prende la propria parte e la distribuisce alle sue milizie e per la gente affamata rimane molto poco. I Talebani non fanno nessun report di spesa all’ONU. È probabile che, nelle clausole segrete degli accordi di Doha, fosse anche previsto il sostegno economico, per vie traverse, al governo installato con la partenza degli americani.

Ci sono ingerenze esterne all’Afghanistan?

I Paesi esteri usano le fazioni talebane per contrastare le altre potenze e proteggere i propri interessi. Oltre agli Stati Uniti ci sono Cina, Iran, Pakistan, Russia, i sauditi e i Paesi del golfo. Ognuno arma i suoi Talebani o i suoi jihadisti.

Come si sta muovendo la Cina?

Pechino è molto presente in Afghanistan, un’avanzata non gradita dagli altri competitor sul terreno, soprattutto dagli Usa. Hanno iniziato parecchi progetti soprattutto nel Nord per estrarre gas e petrolio. Poi ci sono litio, rame, ferro: si accordano con i Talebani per lo sfruttamento delle miniere. A Kabul hanno la loro ambasciata, ristoranti e alberghi. Lo scorso dicembre uno di questi è stato fatto saltare in aria.

Qual è il gioco del Qatar?

È sempre stato un mediatore tra Talebani e Usa, è sempre coinvolto in ogni trattativa e fa da ponte nel sostegno ai Talebani da parte degli americani. Anche questo, presumibilmente, era negli accordi segreti di Doha. Qatar, Emirati e Turchia hanno poi fornito soldi e protezione a molti warlords, come Mohamed Atta, o Dostum e a membri del passato governo, come Ashraf Ghani. Hanno lasciato il campo libero in cambio di una vita ricca e protetta in questi Paesi.

 

Prima di salutarlo gli chiediamo se si è fatto crescere la barba. “Non c’è un ordine preciso e io ne approfitto -risponde Nassim-. Con gli uomini i Talebani non sono così accaniti come lo sono con le donne, dipende da chi ti trovi davanti. Con la barba ‘giusta’ sei più tranquillo ma io continuo a tagliarla con soddisfazione, ogni mattina, e mi vesto come mi avete sempre visto: con jeans e maglione. Una piccola forma di protesta privata”.

Afghanistan Ieri – Una storia che viene da lontano

L’analisi della storia recente dell’Afghanistan non può prescindere dalla, seppur sintetica, illustrazione di aspetti cardine della società afghana. Li riassumiamo raggruppandoli in tre principali ambiti: collocazione geografica, frammentazione etnica e tribale, interpretazione dell’Islam e della sharia.

  • Collocazione geografica. Senza risalire alle vicende più antiche, il ruolo geopolitico dell’area ne ha determinato la storia degli ultimi due secoli: “stato cuscinetto” tra impero russo e impero britannico nell’Ottocento; ultimo campo di battaglia, negli anni ‘80 del XX secolo, tra URSS, prossima al tracollo, e Stati Uniti, intenzionati a garantirsi il ruolo di fautori dell’ordine mondiale; rotta del progettato oleodotto che avrebbe consentito il transito degli idrocarburi centro asiatici verso il Mar Arabico, evitando l’Iran.
  • Frammentazione etnica e società tribale. Si stima che i gruppi etnici presenti in Afghanistan (vedi figura) siano oltre 50 e che vi si parlino 30 lingue, tra le quali le più diffuse sono il pashto e il dari. L’appartenenza etnica e quella religiosa si intrecciano (pashtun, tagiki, uzbeki e turkmeni sono sunniti, la minoranza hazara è sciita), caratterizzando rapporti di potere consolidati nel tempo: i pashtun, fin dal XVIII secolo, hanno fornito la classe dirigente del paese spartendosi il potere con i tagiki, secondo gruppo etnico, mentre gli hazara sono sempre stati vittima di discriminazione. I principali gruppi etnici hanno un proprio “codice morale” (pashtunwali per l’etnia pashtun) i cui elementi di base sono molto simili: ospitalità, vendetta, autonomia e onore. Le etnie si intersecano, per la maggior parte dei gruppi etnici, con una società basata su tribù. Come ben illustra Elisa Giunchi nel suo libro sull’Afghanistan, etnie e tribù sono però concetti “fluidi”: “La tribù, al pari dell’etnia, non è un gruppo chiuso e internamente omogeneo: è composto da cerchi concentrici di solidarietà di tipo clanico, familiare e geografico che continuamente, a seconda delle circostanze, creano e disfano alleanze. Il gruppo di solidarietà primario (qaum) è, quindi, situazionale e relativo. Ne risulta un quadro estremamente instabile…” e con il quale il potere centrale deve necessariamente misurarsi.
  • Interpretazione dell’Islam e della sharia. In una realtà così frammentata, l’Islam è il solo riferimento comune per tutti gli afghani. Fino agli anni ’90 del secolo scorso l’Islam afghano era fortemente influenzato dal sufismo, riconoscendosi in una dimensione mistica dell’Islam, tanto che l’Afghanistan era considerato la patria dei santi sufi. Il sufismo ha plasmato la società e la politica afgane per gran parte della storia del paese, ma il primo governo talebano (1996-2001) ne ha proibito ogni pratica e da allora quella dominante è un’interpretazione fondamentalista dell’Islam e soprattutto della sharia, il codice “imposto da Dio”.
Le etnie afghane

 

La donna nella società tradizionale afghana

Essenziale per inquadrare la condizione della donna in Afghanistan è comprendere bene il tema del “codice morale” che connette le varie etnie e tribù. Citiamo ancora Giunchi: “In tutto il paese, al di là dell’eterogeneità etnica e dei particolarismi regionali, l’onore definisce il prestigio del qaum e dei suoi componenti. L’onore risiede nella capacità di proteggere la proprietà su zan, zar e zamin (rispettivamente: donne, oro, terra) ed è legato in maniera particolare al comportamento femminile: l’onore del qaum dipende non solo dalla castità delle donne nubili e dalla fedeltà di quelle coniugate, ma dalla modestia dei loro comportamenti e dalla loro obbedienza a padri e mariti. Ogni forma di devianza può diventare una violazione dell’onore, che si riflette su tutto il gruppo di appartenenza”.

Un codice conforme con la sharia (per alcuni aspetti addirittura più restrittivo), la cui applicazione ha trovato quindi consenso e terreno fertile. Ben prima che i talebani lo imponessero, la tradizione, soprattutto nelle aree rurali, sottoponeva le donne afghane a pesanti restrizioni: “Le donne sono scambiate per risolvere dispute fra gruppi; raramente sono mandate a scuola, godono di scarsa libertà di movimento e hanno quindi un accesso limitato alle strutture sanitarie; sono sottoposte al volere del padre e, dopo il matrimonio, a quello del marito…”.

Il lento processo di modernizzazione

Per la descrizione puntuale dei fatti si rimanda alla lettura della Cronologia, qui si cercherà di evidenziare i tratti salienti di ogni periodo e l’impatto che questi hanno avuto nella vita delle donne afghane.

Dopo la parziale vittoria degli afghani nel terzo conflitto con l’impero Britannico e il riconoscimento della piena indipendenza nel 1921, il re Amanullah, forte dei consensi sia dell’élite urbana nazionalista sia delle aree più conservatrici, inizia un periodo di riforme. Nel 1923 viene promulgata una Costituzione che riconosce l’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge; si cerca di scoraggiare l’uso del velo e la segregazione imposta alle donne; viene incoraggiata l’istruzione femminile; viene promulgato un codice di famiglia che vieta i matrimoni precoci e pone un limite alle spese matrimoniali; si cerca di attuare una riforma amministrativa che assegna agli uffici governativi il compito di regolare alcune dispute relative alla sfera familiare, fino ad allora prerogativa dei capitribù.

Le riforme di Amanullah, che si affiancano alla riorganizzazione del sistema fiscale per finanziare il nuovo assetto del paese, provocano la reazione di una società ancorata alla tradizione. Il re viene deposto, ma la salita al potere, nel 1933, di Zahir Shah segna la ripresa del processo di graduale modernizzazione. Con la nomina di Mohammed Daud a primo ministro, le riforme si allargano allo status giuridico delle donne provocando però la reazione degli ambienti rurali. Nel 1964 viene promulgata una nuova Costituzione che legalizza i partiti politici, riconosce la libertà di stampa e sancisce la priorità delle leggi emanate dal Parlamento rispetto alla sharia, sebbene stabilisca che “la legislazione statale non avrebbe potuto violare i principi fondamentali dell’Islam”.

Sul versante internazionale, nonostante il sovrano abbia una politica filoinglese, negli anni ‘50 vi è un avvicinamento all’URSS, motivato sostanzialmente dal contenzioso riguardante i territori pashtun situati in Pakistan, a oriente della Linea Durand (il controverso confine stabilito nel 1893 tra Afghanistan e impero britannico, non riconosciuto dagli afghani dopo la creazione del Pakistan nel 1947).

Le aperture di Zahir Shah e Daud portano a un’effervescenza intellettuale nelle città con la nascita, da un lato, di movimenti comunisti che spingono per un’accelerazione del cambiamento e, dall’altro, di gruppi islamisti contrari al processo di modernizzazione e intenzionati a sostituire la monarchia con uno stato islamico basato sulla sharia. Nel 1965 viene fondato il Partito popolare democratico dell’Afghanistan (PDPA) mentre negli ambienti fondamentalisti universitari si formano alcuni dei principali protagonisti della scena politica e militare degli anni successivi. Nello stesso anno nasce l’Organizzazione della Gioventù Comunista (OGP) che si differenzia dal PDPA per la posizione filo-maoista (non dimentichiamo che, nella galassia comunista, sono gli anni della forte contrapposizione tra partiti filo-sovietici e movimenti filo-maoisti). Il movimento Shùlai, nome con il quale i maoisti sono conosciuti in Afghanistan, rimane clandestino e si fa promotore delle rivolte studentesche, contadine e operaie che contraddistinguono il ’68 afghano.

Una scommessa persa

Agli inizi degli anni ‘70 del secolo scorso, l’Afghanistan è costantemente in bilico tra spinte progressiste e rivolte, fomentate dai mullah, contro ogni riforma. Contestualmente le condizioni economiche del paese non migliorano e, anche a causa di un prolungato periodo di siccità, la povertà dilaga, alimentando ulteriormente le proteste. Il colpo di stato del 1973 sostituisce la monarchia costituzionale con la repubblica presidenziale guidata da Daud. A seguito di un’ondata di arresti, i capi dei gruppi islamisti (tra cui Hekmatyar, Rabbani e Massud) si rifugiano a Peshawar dove ottengono il sostegno del governo pakistano, dell’islamismo locale e dei servizi segreti.

Mentre in campo internazionale l’avvicinamento all’URSS accelera, all’interno del paese si restringono quelle libertà precedentemente acquisite e nel 1977 viene emanata una nuova Costituzione che definisce la nuova repubblica presidenziale basata su un parlamento unicamerale e un partito unico. Il 1977 è anche l’anno in cui l’attivista Meena Keshwar Kamal fonda RAWA (Revolutionary Association of the Women of Afghanistan) con la missione di lottare per l’uguaglianza e la giustizia sociale delle donne, per i diritti fondamentali all’istruzione, alla difesa legale, alle cure mediche e per la liberazione dalla povertà e dalla violenza.

Meena Keshwar Kamal
Meena Keshwar Kamal fonda RAWA (Revolutionary Association of the Women of Afghanistan) nel 1977

L’anno successivo, il colpo di stato per mano del PDPA (la cosiddetta Rivoluzione di Saur, ossia di aprile) rovescia Daud portando al potere Taraki e poi Amin. Il nuovo governo si contraddistingue per una durissima repressione degli oppositori politici (migliaia di appartenenti al movimento Shùlai vengono arrestati o uccisi) e per un’accelerazione di quelle riforme che andavano a incidere così profondamente nella tradizione afghana, imposte però in modo autoritario e senza considerare i delicati equilibri della società rurale. Il risultato è un’opposizione che assume svariate forme: contro le politiche autoritarie e repressive; contro lo smantellamento di una vita scandita da tradizione e Islam; contro un governo quasi totalmente pashtun da parte delle minoranze hazara e tagika; dei gruppi islamisti fomentati dal Pakistan.

Intanto gli USA, che con la rivoluzione khomeinista del febbraio 1979 in Iran erano rimasti orfani del loro alleato strategico nell’area, vedono nel caos afghano l’aprirsi di una nuova opportunità: “Dare all’URSS la sua guerra del Vietnam”, come dichiarerà vent’anni dopo l’ex consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti Zbigniew Brzezinski, svelando che la CIA era stata autorizzata dal presidente Carter a inviare aiuti agli oppositori al regime di Kabul già nel luglio 1979; Brzezinski ammette che l’Amministrazione aveva “consapevolmente aumentato la probabilità” che i sovietici intervenissero militarmente.

Tre quarti del paese sono coinvolti nelle rivolte. Amin chiede la protezione sovietica e nel dicembre 1979 le truppe dell’URSS entrano in Afghanistan.

L’invasione sovietica e il consolidarsi  dei fondamentalisti islamici

Mentre a Kabul si svolgono massicce manifestazioni studentesche antisovietiche, a Peshawar, in Pakistan, la resistenza armata contro i sovietici si organizza in gruppi islamisti (mujaheddin) caratterizzati da un’unica, comune visione della società basata su quel codice morale descritto prima e sulla sharia come ordinamento giuridico di riferimento. Ma non i soli a combattere, armi alla mano, gli invasori sovietici: varie formazioni progressiste, purtroppo frammentate e carenti di una direzione unitaria, si oppongono ai sovietici e ai gruppi fondamentalisti, consapevoli che un futuro governo dei mujaheddin islamisti sarebbe stato catastrofico per il paese. La guerra su due fronti che questi gruppi hanno dovuto combattere li ha decimati, registrando migliaia di morti. I sopravvissuti hanno saputo però tenere in vita le loro battaglie democratiche e laiche negli anni a venire.

Saranno però i gruppi islamisti ad avere il sostegno economico, militare e strategico di: USA, in chiave anti-sovietica; Arabia Saudita, per rafforzare le proprie credenziali islamiche (soprattutto in funzione anti Iran); Pakistan, per soffocare le rivendicazioni pashtun sul territorio pakistano. Secondo il giornalista Ahmed Rashid, sommando i contributi ricevuti dai loro tre principali sostenitori e da altre fonti, negli anni ‘80 i mujaheddin hanno ricevuto più di 10 miliardi di dollari: “Prima della guerra gli islamisti riscuotevano un debole consenso nella società afghana ma, con i soldi e le armi ricevuti dalla CIA e con l’appoggio del Pakistan, erano riusciti ad allargare la loro base e a esercitare una fortissima influenza”.

C’è poi un altro elemento che rafforza questi gruppi, e che avrà un impatto devastante nel futuro dell’Afghanistan: negli anni della guerra, migliaia di volontari provenienti da 40 diversi paesi confluiscono nei campi profughi in Pakistan per andare a combattere in Afghanistan. Con conseguenze che non sono limitate all’area: è lo stesso numero due di al-Qaeda, Ayman al-Zawahiri, a sostenere che in quegli anni l’Afghanistan ha rappresentato l’incubatrice del movimento jihadista.

Negli anni dell’occupazione, intanto, RAWA prosegue la propria opera di sensibilizzazione e sostegno alla popolazione, ma a partire dal marzo 1982 la fondatrice Meena, che verrà assassinata nel 1987, e la direzione dell’organizzazione si trasferiscono in Pakistan dove, nel campo profughi di Quetta, fondano le scuole Watan per i bambini e le donne dei campi, offrendo loro sia un rifugio sia percorsi di istruzione e formazione professionale.

I signori della guerra e la comparsa dei talebani

Dopo 9 anni di guerra, con stime di civili uccisi che vanno da 600mila a 2 milioni, oltre 7 milioni di profughi tra Pakistan, Iran e interni, nel febbraio 1989 le truppe sovietiche si ritirano dall’Afghanistan, lasciando al potere il regime fantoccio di Najibullah contro il quale i mujaheddin continuano a combattere fino alla completa conquista del paese nel 1992.

Alla deposizione di Najibullah, viene proclamata la Repubblica islamica dell’Afghanistan; il nuovo governo, guidato da Rabbani, con Massud ministro della Difesa e Sayyaf dell’Interno, emette subito una serie di decreti per imporre una visione oscurantista della società, obbligando, per esempio, le donne a indossare il burqa.

Il paese è devastato e tutt’altro che pacificato: tra il 1992 e il 1996 i diversi gruppi islamisti si contendono il potere nelle varie aree del paese e le già labili differenze ideologiche lasciano il posto agli interessi particolaristici dei diversi gruppi, con un alternarsi di alleanze, tradimenti, cambi di posizione che è difficile seguire. Dostum, Massud, Hekmatyar, Sayyaf, Rabbani, Ismail Khan sono i “signori della guerra” che, nell’indifferenza della comunità internazionale, si scontrano sulla testa del popolo afghano macchiandosi, tutti indistintamente, di crimini contro i civili. Oltre agli orrori degli scontri armati e dei bombardamenti, la popolazione afghana è sottoposta a soprusi di ogni genere, con posti di blocco che paralizzano ogni tipo di commercio e l’imposizione di “dazi” e gabelle che affamano un popolo già ridotto allo stremo.

Ed è proprio in questo contesto che fanno la loro comparsa i talebani. Gli “studenti” formatisi nelle madrase di Peshawar si ergono a paladini della “legalità” e proprio perché promettono di porre fine alle angherie dei “signori della guerra” trovano inizialmente il consenso della popolazione, in particolare nella zona di Kandahar dove la situazione è particolarmente degradata. Ma soprattutto la comparsa dei talebani è sostenuta da Pakistan e Arabia Saudita, preoccupati per l’ingovernabilità del paese e, una volta conquistata Kabul e fondato, nel 1996, l’Emirato Islamico dell’Afghanistan, è vista con favore anche dagli USA: da un lato i talebani vanno a contrastare l’influenza che l’Iran ha su alcuni gruppi islamisti (Hekmatyar), dall’altro una stabilizzazione può consentire di realizzare quell’oleodotto tanto importante per gli americani ai fini dello sfruttamento dei giacimenti del Mar Caspio (non dimentichiamo che sono gli anni del caos post-sovietico e che quindi il suo smantellamento ha solleticato vari appetiti).

1996-2001: gli anni del terrore talebano

Divieto di consumare carne di maiale e alcool, obbligo per gli uomini di farsi crescere la barba, istituzione di un corpo di polizia “per la diffusione della virtù e la prevenzione del vizio”, pena di morte per adulterio mediante fustigazione per gli uomini e lapidazione per le donne, taglio delle mani e in certi casi anche di un piede per i delinquenti comuni, divieto di tutte le attività creative (televisione, musica, cinema, teatri, videogiochi, scacchi, aquiloni), rigida applicazione della sharia e del pashtunwali in tutto il paese. È questa la vita imposta dai talebani agli afghani, ma chi paga il prezzo maggiore sono, ancora una volta, le donne: oltre all’obbligo del burqa si aggiungono il divieto di viaggiare senza essere accompagnate, la sospensione di ogni forma di istruzione e l’espulsione da scuole e università, il divieto di lavorare, nessun tipo di protezione contro le violenze domestiche che, al contrario, vengono giustificate, il divieto di farsi visitare da un medico maschio, cosa che significa divieto alle cure.

Negli anni del regime talebano, l’Afghanistan è anche diventato il principale produttore mondiale di oppio: si stima che nel 2000, il 75% della produzione mondiale di oppio avvenisse in Afghanistan. I talebani controllano il 96% dei campi di papaveri e fanno della tassazione dell’oppio la loro fonte tributaria principale. Intanto le fazioni di mujaheddin che avevano dilaniato il paese combattendo tra di loro, si riuniscono nel Fronte islamico unito per la salvezza dell’Afghanistan, conosciuto in Occidente come Alleanza del Nord, continuando a combattere i talebani. Con la caduta di Mazar-i Shariff nel 1998, tutte le maggiori città e strade sono sotto il controllo dei talebani, mentre l’Alleanza del Nord controlla solo una limitata porzione di territorio nel nordest del paese.

Infine, l’Afghanistan diventa il rifugio sicuro di gruppi terroristici islamisti, primo fra tutti al Qaeda.

Ira e “pax” americane

11 settembre 2001. Gli attentati suicidi negli USA organizzati da al Qaeda provocano 2.977 morti e oltre 6.000 feriti. Il presidente americano intima al governo dei talebani di collaborare alla persecuzione dei responsabili e, scaduto l’inascoltato ultimatum, il 7 ottobre lancia l’operazione militare Enduring Freedom con intensi bombardamenti sul paese a sostegno della resistenza anti-talebana dell’Alleanza del Nord. Nel giro di poco più di un mese i talebani sono costretti a lasciare le principali città e a rifugiarsi nelle montagne.

Fin dall’inizio delle operazioni USA, varie organizzazioni si oppongono all’invasione: alcune, ancora legate al movimento maoista, operano nella clandestinità, ma nel 2003 (in vista delle elezioni presidenziali del 2004) nasce il partito Hambastagi, di ispirazione laica e democratica che si batte contro ogni forma di fondamentalismo islamico, contro l’occupazione straniera e per una democrazia laica che garantisca diritti a tutti, specialmente alle donne.

Nel 2006 il controllo delle operazioni in Afghanistan passa alla NATO con la missione ISAF fino al 2014 e poi, fino al luglio 2021, con la missione Resolute Support.

Ricordando di fare riferimento al riquadro per la Cronologia dettagliata, qui andiamo a sintetizzare le caratteristiche dei 20 anni che precedono il “ritorno” dei talebani focalizzandoci sui 4 protagonisti: il governo di Kabul, la NATO, i talebani e il popolo afghano.

Il governo di Kabul

Alla guida del paese si succedono, in questi 20 anni, Hamid Karzai e Ashraf Ghani con elezioni parlamentari e presidenziali sempre oggetto di forti contestazioni. Ma indipendentemente da chi siede sulla poltrona del presidente, i governi afghani si caratterizzano per:

  • livelli altissimi di corruzione: a partire dal 2002 sull’Afghanistan piovono cascate di dollari destinate a equipaggiare l’esercito afghano, costruire le infrastrutture e sostenere lo sviluppo di un paese poverissimo, ma quello che arriva al popolo afghano non sono che poche gocce e la maggior parte di questi soldi finisce nelle mani di chi siede nei vari centri di potere;
  • presenza maggioritaria di fondamentalisti: fin dalle prime elezioni del 2005 siedono in parlamento i leader dei gruppi fondamentalisti e, negli anni successivi, a seguito del “piano nazionale per la riconciliazione e la reintegrazione dei talebani moderati” promosso da Karzai, esponenti del passato regime talebano entrano a vario titolo nella compagine governativa;
  • mancato controllo del paese: il governo centrale controlla di fatto solo Kabul e alcune grandi città mentre il resto del paese è nelle mani dei signori della guerra locali e dei talebani.

La Nato

Il sostanziale fallimento dell’intervento NATO è riconducibile a molteplici fattori: mancata pacificazione del paese ed elevato numero dei morti tra i civili; scarsa conoscenza delle dinamiche relazionali della società afghana con conseguente conferimento di potere a intermediari che hanno depredato la popolazione degli aiuti destinati a progetti di sviluppo; un addestramento inadeguato delle forze di sicurezza afghane, oltre alla sopravvalutazione del loro numero (i 350 mila soldati dell’esercito afghano erano probabilmente meno della metà: i numeri erano in parte gonfiati dal governo nazionale e in parte dai comandanti locali dell’esercito, che in questo modo potevano intascare i salari dei soldati che avevano abbandonato o disertato).

I talebani

I talebani non sono mai spariti dalla scena politica dell’Afghanistan e dal 2009/2010 sono riusciti progressivamente a controllare parti sempre più ampie del paese potendo godere del sostegno, sebbene non ufficiale, di Pakistan, Qatar e Arabia Saudita. Il traffico dell’oppio ha rappresentato, e continua a rappresentare, un’importante fonte di finanziamento.

Il popolo afghano

Se gli interventi umanitari giunti nel paese dopo la caduta dei talebani del 2001 hanno in parte alleviato la condizione di estrema povertà nella quale versava il popolo afghano, il risultato non è commisurato all’entità dello sforzo. Come abbiamo visto nei diversi approfondimenti, in 20 anni non si è riusciti a costruire un’economia alternativa a quella sostanzialmente basata sulla coltivazione del papavero e la lavorazione dell’oppio. Infine, le tanto decantate conquiste sul tema della libertà per le donne: se è vero che in questi 20 anni per alcune donne si sono aperti i mondi dell’istruzione e del lavoro è anche vero che questo è avvenuto quasi esclusivamente nelle città, lasciando le aree rurali alla mercé delle tradizionali relazioni prevaricatrici e oppressive.

Il “ritorno” dei talebani

Alla luce di quanto appena scritto, parlare di “ritorno” dei talebani per descrivere quanto avvenuto nel 2021 è decisamente inappropriato.

L’accelerazione del processo che porterà alla capitolazione del 15 agosto 2021 si ha a partire dal 29 febbraio 2020 quando, dopo due anni di accordi più o meno segreti tra emissari statunitensi e talebani, viene siglato l’Accordo di Doha che chiude formalmente il conflitto tra USA e talebani e prevede il totale ritiro delle forze armate USA dall’Afghanistan entro il 31 agosto 2021. Nel maggio 2021 ha inizio l’offensiva talebana che, nel giro di quattro mesi, porterà alla conquista dell’intero paese. E mentre le forze di sicurezza afghane si dissolvono come neve al sole, Ashraf Ghani fugge precipitosamente e gli ultimi soldati americani si imbarcano sugli aerei che li riporteranno in patria, nell’aeroporto di Kabul si consuma l’epilogo di 20 anni di occupazione NATO con le tragiche scene che tutti ricordiamo.

Appena insediati a Kabul i talebani proclamano la “seconda edizione” dell’Emirato Islamico dell’Afghanistan.

 

Le restrizioni alle donne peggiorano un sistema già fragile

Nel 2022, il 95% della popolazione non ha avuto abbastanza cibo per nutrirsi. Si prevede che nel 2023, oltre 3 milioni di bambini e bambine e 840.000 donne incinte e madri che allattano soffriranno di malnutrizione acuta. Basterebbero questi dati per immaginare quali possono essere le condizioni di salute degli afghani. Ma la malnutrizione si innesta in una situazione sanitaria estremamente fragile e i dati sono spaventosi:

  •  la tubercolosi provoca circa 13.000 morti ogni anno;
  •  nel 2022 si sono registrati 78.441 casi di morbillo, più del doppio rispetto al 2022, con 394 decessi;
  •  a metà del 2022 si è diffusa una grave epidemia di colera che nel 55,4% dei casi ha riguardato bambini con meno di 5 anni;
  • sono stati registrati 208.771 casi di Covid-19 con circa 8.000 decessi, cifre che l’OMS valuta in difetto a causa della limitata attività di tracciamento e diagnosi;
  •  negli ultimi anni i talebani hanno reso impraticabile la vaccinazione contro la poliomielite in ogni territorio che occupavano, mettendo a rischio di infezione fino a tre milioni di bambini;
  •  l’Afghanistan ha uno dei più alti tassi di mortalità infantile del mondo con 638 morti ogni 100.000 nati vivi (dati 2017, gli ultimi disponibili).

Alle malattie vanno aggiunte le migliaia di feriti per attentati, scontri armati e disastri naturali. Il sistema sanitario pubblico afgano è sottofinanziato, a corto di personale e disfunzionale, mentre quello privato, per via degli alti costi, risulta proibitivo per la maggior parte della popolazione.

Fino all’agosto 2021, il progetto Sehatmandi, finanziato dalla Banca Mondiale, ha sostenuto circa i due terzi di tutte le strutture pubbliche. Con la sospensione dei finanziamenti il sistema è collassato e gli operatori sanitari hanno smesso di ricevere gli stipendi: “Questo è avvenuto” si legge nel report 2023 di Medici Senza Frontiere “dopo che molti non erano stati pagati per mesi a causa di un mix di fondi insufficienti e cattiva gestione, compreso l’uso improprio dei fondi stessi”.

Nel giugno 2022, Unicef, Banca mondiale e OMS hanno concordato un finanziamento di 333 milioni di dollari per la fornitura di servizi sanitari emergenziali, ma permangono preoccupazioni sulla gestione di questi fondi.

Di fatto, le organizzazioni umanitarie, come Medici Senza Frontiere, Croce Rossa Internazionale, Emergency e le agenzie dell’ONU, sostituiscono da anni il sistema sanitario pubblico.

La cronica carenza di personale sanitario qualificato si è acutizzata dopo il ritorno dei talebani a causa delle restrizioni imposte alle donne, la cui presenza tra gli operatori sanitari era molto elevata. Per lo stesso motivo, la maggior parte delle entità che sostengono le persone con disabilità ha chiuso o ridotto i propri servizi.

Se è molto complesso e costoso per tutti gli afghani che vivono nelle zone rurali raggiungere i presidi sanitari, per le donne, a causa delle limitazioni imposte agli spostamenti, è diventata un’impresa quasi impossibile. Di conseguenza la salute di donne e bambini è ulteriormente compromessa.

Come segnalato nel rapporto dell’Human Rights Council dell’ONU del giugno 2023, le donne devono abitualmente partorire senza assistenza professionale o incorrere in debiti significativi per partorire presso strutture sanitarie private. Alle donne che cercano di entrare da sole nelle farmacie è stato negato l’accesso.

Altra piaga è il disagio mentale: contrariamente alle affermazioni dei talebani secondo cui i suicidi sono diminuiti e la salute mentale è migliorata dall’agosto 2021, le segnalazioni di depressione e suicidio sono diffuse, soprattutto tra le ragazze adolescenti a cui è stato impedito di proseguire gli studi.

Ma si sta verificando un altro grave sopruso nei confronti delle donne, come segnala il Rapporto annuale dell’Alto Commissario ONU per i Diritti Umani: i funzionari del Ministero per la virtù e la prevenzione del vizio effettuano controlli presso le strutture mediche per verificare che medici maschi non stiano curando donne. Un veto che corrisponde, di fatto, a una condanna a morte visti gli ostacoli posti all’attività dei medici donna, il cui numero verrà ulteriormente ridotto in futuro a causa del divieto di accesso all’università per le donne.

 

Stop a bambine e ragazze

A giugno 2021, due mesi prima della presa del potere da parte dei talebani e venti anni dopo l’occupazione USA-NATO, il sistema scolastico afghano presentava già notevoli criticità.

La popolazione scolastica, secondo l’UNICEF, ammontava a 6,6 milioni nella scuola primaria (di cui 2,6 milioni di bambine, circa 4 su 10) e 3,1 milioni nella scuola secondaria (di cui 1,1 milioni di ragazze), mentre 4,2 milioni di bambini, di cui il 60% femmine, non frequentavano alcuna scuola.

Ma alla fine del ciclo primario, il 93% degli studenti non aveva comunque raggiunto il livello minimo di competenze.

Questo insuccesso va correlato alla permanente situazione di guerra, alla miseria e alla fame, alla mancanza di trasporti, al rischio di aggressioni e rapimenti durante il tragitto scuola-casa, ai matrimoni precoci, ai ruoli tradizionali, alla carenza e inadeguatezza degli edifici, spesso occupati da milizie armate, alla pesante corruzione, che ha vanificato i finanziamenti esteri, ma anche alla scarsa formazione del personale: solo il 38% degli insegnanti maschi e solo il 34% donne, destinate alle classi femminili, sono in possesso del titolo di studio richiesto (14° grado).

Brevi i turni di lezione, eccessivo il numero degli studenti per classe: tra 40 e 60.

Tra il 2001 e il 2021 il tasso di alfabetizzazione è raddoppiato (dal 17% a quasi il 30%), ma è rimasto fortemente disomogeneo per genere (l’analfabetismo femminile è tra l’84% e l’87%) e per aree geografiche, con le aree rurali fortemente penalizzate.

Dopo la presa del potere da parte dei talebani, nell’agosto 2021, la riapertura graduale delle scuole ha escluso le ragazze a partire dal 7° grado (12 anni di età), causando forti proteste interne e condanne internazionali. Le pressioni dei donatori esteri, interessati a normalizzare le relazioni con il governo di fatto, si sono concretizzate in esenzioni da alcune sanzioni imposte precedentemente, come per esempio la risoluzione 2615 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU del 22 dicembre 2021, sostenuta da tre “General licences” USA, che si è concretizzata in donazioni per l’emergenza umanitaria e a favore dell’educazione delle ragazze: il 13 settembre 2021 ECW (il fondo ONU per emergenze educative), Italia e USA hanno versato 12 milioni di dollari; il 18 gennaio 2022 l’Unione Europea ha versato 50 milioni di euro per pagare gli insegnanti; il 25 gennaio 2022 l’Asian Development Bank ha versato 405 milioni di dollari per cibo, salute, educazione; il 1° marzo 2022 la Banca Mondiale un miliardo di dollari e così via.

Le pressioni per limitare l’oppressione di genere hanno inasprito il conflitto interno tra le fazioni al governo, da una parte coloro che vogliono trattare per ottenere fondi e dall’altra gli intransigenti. Malgrado determinate province abbiano riaperto alcune scuole alle ragazze, nel dicembre 2022 è stata vietata loro l’istruzione universitaria, e oltre 100.000 studentesse sono state espulse anche dallo studio di discipline (come medicina e pedagogia per la scuola primaria) in cui l’occupazione femminile viene parzialmente tollerata.

Intanto, la qualità dell’istruzione è totalmente compromessa: le discipline religiose in chiave fondamentalista sostituiscono in gran parte le altre materie, specie quelle scientifiche. Insegnanti e alunne sono sottoposte a misure vessatorie che scoraggiano la frequenza scolastica.

Infine, le istituzioni educative sono oggetto di attacchi terroristiche che colpiscono principalmente donne e ragazze: l’attacco contro il Kaaj Educational Center il 30 settembre 2022 a Kabul ha causato la morte di 54 persone e il ferimento di altre 114; la maggior parte delle vittime erano giovani donne e ragazze hazara che si stavano preparando per l’esame di ammissione all’università.

 

Informazione – Giornaliste e giornalisti bersaglio dei talebani

Dopo la presa del potere da parte dei talebani, la raccolta di notizie in Afghanistan da parte dei media locali è pressoché inesistente. Migliaia di giornalisti afgani, tra cui centinaia di donne i cui volti erano noti, sono stati bersaglio immediato della rappresaglia delle milizie talebane, costringendo molti di loro alla clandestinità o alla fuga.

Nella classifica mondiale sulla libertà di stampa di Reporters Sans Frontières del 2020, l’Afghanistan era al 122° posto tra 180 paesi e nella mappa globale di Freedom House era classificato come paese non libero.

Già nel precedente governo di Ashraf Ghani però, si era tentato di limitare il lavoro indipendente dei reporter con una proposta di legge che avrebbe voluto obbligare alla rilevazione delle fonti. Proteste da parte delle categorie coinvolte avevano bloccato il tentativo di ingerenze dell’autorità, giustificato dal timore di ritorsioni. La situazione oggi si è ulteriormente aggravata.

Il 20 luglio 2022 Unama ha pubblicato un rapporto sui diritti umani in Afghanistan  nel quale, a proposito di informazione, si legge: “Nei 10 mesi trascorsi da quando hanno preso il controllo dell’Afghanistan, le autorità de facto hanno chiarito la loro posizione sui diritti alla libertà di riunione pacifica, alla libertà di espressione e alla libertà di opinione. Hanno limitato il dissenso reprimendo le proteste e limitando la libertà dei media, anche arrestando arbitrariamente giornalisti, manifestanti e attivisti della società civile e imponendo restrizioni ai media”. Sempre secondo il rapporto Unama, sono stati colpiti 173 giornalisti e operatori dei media, 163 dei quali sono stati attribuiti alle autorità de facto. Tra questi vi sono stati 122 casi di arresto e detenzione arbitrari, 58 casi di maltrattamento, 33 casi di minacce e intimidazioni e 12 casi di detenzione. Durante il primo anno di regime sono stati uccisi anche sei giornalisti (cinque da parte dell’ISIS-K, uno da autori sconosciuti).

Il Comitato per la protezione dei giornalisti (CPJ) l’11 agosto 2022 ha pubblicato un report  in cui viene denunciata la situazione dell’informazione in Afghanistan a un anno dalla presa del potere da parte dei talebani. Censure, arresti, aggressioni, restrizioni alle donne giornaliste, fuga di giornalisti esperti hanno ridotto in modo allarmante la libertà di informazione.

Il Rapporto di Human Rights Watch del 2023 nella sezione Eventi 2022 – Libertà di stampa e parola, a proposito della libertà dei media e dell’informazione dichiara: “Le autorità talebane hanno attuato un’ampia censura e messo in atto restrizione e violenze contro i media afghani a Kabul e nelle province. Centinaia di media sono stati chiusi e si stima che l’80% delle giornaliste in tutto l’Afghanistan abbia perso il lavoro o lasciato la professione dalla presa del potere da parte dei talebani nell’agosto 2021”.

Attualmente la situazione è peggiorata. I giornalisti e le giornaliste afghani che vogliono restare nel loro paese e non andare via devono essere aiutati, perché l’evacuazione non può essere la soluzione. Le minacce che provengono dal regime talebano repressivo e rigido non possono impedire che esca la verità su ciò che sta accadendo nel paese.  A tale proposito abbiamo raccolto la testimonianza di chi dall’interno resta e continua a resistere.

 

Ci sono ancora emittenti radiofoniche o televisive che trasmettono a livello nazionale? Se sì, quanti e quali sono?

Sebbene molti canali radiofonici e televisivi siano stati chiusi dopo la presa del potere da parte dei talebani, molti sono ancora operativi. Naturalmente, c’è una severa censura imposta dai talebani e molti giornalisti, conduttori di notizie ed editori sono stati arrestati e minacciati. Pertanto, tutti i media sono molto attenti ai loro rapporti.

Che tipo di programmi vengono trasmessi, e in che lingua?

La maggior parte dei programmi di intrattenimento sono stati chiusi. Non viene messo in onda alcun film o serie, anche se a tema religioso. In passato venivano messe in onda molte soap opera dalla Turchia e dall’India tradotte in dari e pashto. La TV nazionale sta agendo secondo l’agenda dei talebani. Ma ora sono vietati.

I telegiornali possono trasmettere immagini?

Sì, i telegiornali trasmettono immagini, ma invece la maggior parte delle immagini dai cartelloni pubblicitari e dai negozi della città sono state rimosse.

È vero che non si possono più fare foto o video?

Ufficialmente, non è vietato. Diversi gruppi di talebani agiscono secondo i loro metodi. Mentre alcuni gruppi fermano le persone, controllano i loro telefoni cellulari e cancellano immagini e video, mentre altri gruppi non se ne preoccupano.

Ci sono giornaliste che possono lavorare? Dovrebbero coprirsi completamente?

Alla maggior parte delle giornaliste donne è vietato apparire sugli schermi televisivi, e poche appaiono, ma devono seguire rigorosamente gli le imposizioni dei talebani sull’hijab. Devono vestirsi di nero dalla testa ai piedi e persino indossare una maschera nera. Solo i loro occhi sono visibili.

Ci sono giornali o stampa clandestina?

Alcuni giornali e canali televisivi operano dall’estero, mentre hanno i giornalisti segreti all’interno dell’Afghanistan o acquistano la maggior parte del materiale dalle agenzie di stampa internazionali. Usano anche il materiale dei social media, condiviso dai netizens all’interno del paese.

Che tipo di media utilizza il regime talebano per la sua propaganda?

La TV e la radio nazionali.