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Metanfetamine e oppio arricchiscono i Talebani. Nonostante i divieti

Economica, facile e veloce, la produzione di sostanze sintetiche sta radicalmente trasformando il mercato della droga. In diverse aree del mondo metanfetamine e oppioidi di sintesi vengono prodotti in piccoli laboratori clandestini e mobili, con investimenti minimi e un know how che si acquisisce in poco tempo. Un’opportunità che ha rapidamente attratto l’attenzione di uno dei principali protagonisti del traffico internazionale di droga degli ultimi 25 anni: i Talebani.

Fin dagli anni Ottanta il contrabbando di oppio ha rappresentato un’importante fonte di finanziamento per tutti i signori della guerra afghani. Ma è solo con la presa del potere da parte dei Talebani, a metà degli anni Novanta, che la coltivazione del papavero è stata non solo incentivata pubblicamente, ma in molti casi addirittura imposta.

Nel 1997 si stimava che il 96% dell’eroina prodotta nel Paese provenisse dalle zone controllate dagli “studenti coranici” e da allora la crescita è stata costante (a parte un blocco nel 2001) fino al 2022, anno in cui la coltivazione del papavero da oppio è aumentata del 32% rispetto al 2021.

Sia negli anni della prima presa del potere (1996-2001) sia durante l’occupazione militare della Nato, i Talebani si sono sempre finanziati attraverso l’imposizione di tangenti sulla coltivazione del papavero, sull’estrazione e sul trasporto dell’oppio. In anni più recenti il pagamento di mazzette è stato esteso anche alla produzione di metanfetamine, con il coinvolgimento diretto anche in alcuni dei laboratori clandestini che avevano iniziato a proliferare nel Paese, in particolare nelle aree meridionali e Sud-occidentali tornate sotto controllo talebano tra il 2006 e il 2007.


Uno dei possibili metodi di produzione dello stimolante sintetico prevede l’utilizzo dell’efedrina, attraverso un processo molto semplice, che si sviluppa in una sola fase e può essere eseguito con conoscenze chimiche basilari. Questa sostanza si può estrarre sia da medicinali (importati in gran parte illegalmente) sia a partire dalla pianta dell’efedra, che cresce spontaneamente sulle montagne afghane.

Le immagini satellitari pubblicate dalla società britannica specializzata Alcis mostrano come la località di Abdul Wadood, nel Sud-Ovest del Paese, fosse lo snodo principale di questo commercio: vi confluiva la maggior parte del raccolto e qui si trovavano anche i laboratori di efedrina più attivi. I numeri sono impressionanti: a fine novembre 2021 il bazar era stato letteralmente inondato di efedra essiccata e macinata. Secondo le stime di Alcis ne erano stati immagazzinati oltre 11mila metri cubi: una quantità tale da permettere la produzione di circa 220 tonnellate di metanfetamina.

L’ultima nota, infine, riguarda una new entry: da qualche anno, infatti, circolano in Afghanistan anche delle pasticche con proprietà stimolanti (ribattezzate “compresse K”) che contengono diverse sostanze come metanfetamine e Mdma (ecstasy) disponibili in un’ampia gamma di colori e forme. Di solito non vi si trovano oppioidi (che sono “depressivi” e agiscono in direzione “opposta” rispetto ai farmaci con effetto stimolante) ma da qualche tempo le analisi di un gran numero di campioni di queste compresse hanno evidenziato la presenza contemporanea di oppioidi e metanfetamine. Come ha evidenziato l’Ufficio delle Nazioni Unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine (Unodc) nel rapporto pubblicato ad agosto 2023, “la produzione clandestina di metanfetamine in Afghanistan dovrebbe ricevere la stessa attenzione riservata a quella di eroina”.

Ma pochi mesi dopo la presa di Kabul, apparentemente, tutto cambia. Con il bando alla raccolta dell’efedra (dicembre 2021) e il divieto alla coltivazione dell’oppio (aprile 2022) i Talebani sembrano voler dare seguito al programma del loro leader Hibatullah Akhundzada per eradicare le coltivazioni di papavero.

Ci sono però alcuni elementi da tenere in considerazione. Questi divieti arrivano dopo raccolti estremamente abbondanti delle due piante che hanno permesso di immagazzinarne quantità ingenti. Secondo le stime del ricercatore indipendente David Mansfield -che dal 1997 indaga le economie illecite dell’Afghanistan- “è probabile che attualmente nel Paese rimangano scorte significative di oppio, dato che la sua produzione ha superato le seimila tonnellate all’anno per gran parte dell’ultimo decennio”, contro le tremila degli anni Novanta. Ed è probabile che le quantità stoccate siano addirittura superiori “a causa della sistematica sotto-dichiarazione dei rendimenti”, aggiunge Mansfield. Informazioni confermate anche dalle fonti di Cisda sul terreno. I due divieti hanno inoltre avuto un impatto diretto sull’impennata del prezzo di oppio e metanfetamine a livello globale, continuando a garantire ingenti guadagni.

In secondo luogo, quello talebano non è un governo coeso: le fazioni opposte si scontrano quotidianamente a Kabul e nelle province l’applicazione dei diktat del governo centrale non è omogenea. Non sempre la popolazione rurale -per la quale la coltivazione dell’oppio è spesso l’unica fonte di sussistenza- rispetta questi divieti e spesso sono gli stessi amministratori locali a ignorare le direttive dei leader. Come riporta sempre Mansfield “alcuni comandanti talebani incaricati di scoraggiare la coltivazione del papavero da oppio e di distruggere le coltivazioni, hanno fatto il possibile per evitare di mettere in pratica l’editto”.

L’emanazione di questi divieti ha avuto conseguenze interessanti. Partiamo dal mercato delle metanfetamine: all’aumento della raccolta dell’efedra ha fatto seguito un abbassamento sia del prezzo della materia prima (da 1,8 dollari al chilo del 2018 a 0,63 del novembre 2021) sia della metanfetamina che ha raggiunto i 200 dollari al chilo contro i 300 del 2020. Il bando imposto dai Talebani ha avuto l’effetto di far risalire in pochi giorni il prezzo della droga sintetica, che a gennaio 2022 ha toccato i 570 dollari al chilo.

Un guadagno per i commercianti (che nel giro di pochi mesi hanno visto quadruplicare il valore del prodotto stoccato) e soprattutto un aumento del “gettito fiscale” per il governo di Kabul: che incassa sia sul trasporto di efedra (circa 5.700 dollari a camion, contro i mille degli anni scorsi) sia sul contrabbando di metanfetamine oltre i confini del Paese la cui “tassa” è passata da 3,75 a 7,15 dollari al chilo nel 2022. Solo quest’ultima voce, secondo le stime contenute in un report di Alcis del gennaio 2023, ha permesso ai Talebani di incassare circa 26 milioni di dollari all’anno.

Anche i prezzi dell’oppio e dell’eroina sono aumentati vertiginosamente a seguito del divieto imposto ad aprile 2022, attestandosi ai livelli più alti degli ultimi vent’anni. Secondo le stime del “World drug report 2023” dell’Unodc nel 2022 le vendite di questa sostanza hanno fruttato circa 1,4 miliardi di dollari contro i 425 milioni del 2021. Dal momento che le scorte sono abbondanti è probabile che il traffico di oppiacei resterà a livelli estremamente elevati anche nel 2023 e nel corso degli anni a venire.

La decisione di vietare la coltivazione dell’oppio e la raccolta dell’efedra non ha dunque danneggiato economicamente i Talebani. Ma c’è un altro aspetto molto importante da tenere in considerazione: come avevano già fatto nel 2001, al di là delle dichiarazioni ufficiali, una delle principali motivazioni politiche che ha ispirato questi divieti è il tentativo del governo di Kabul di accreditarsi presso la comunità internazionale. Ottenendo così un riconoscimento formale e la conseguente apertura a investimenti di capitali esteri nel Paese. È questa la vera posta in gioco e per vincerla i Talebani potrebbero essere disposti a rinunciare (o più probabilmente a limitare) gli introiti derivanti dal narcotraffico. Ma qui usciamo dal campo dei fatti ed entriamo in quello delle ipotesi.

Pubblicato su Altreconomia n. 264

Patrizia Fabbri, giornalista, è un’attivista di CISDA.

Comunicato CISDA a seguito del violento terremoto che ha colpito la provincia di Herat

Sabato 7 ottobre la provincia di Herat è stata colpita da un terremoto di magnitudo 6,3, a cui sono seguite nuove violente scosse; l’ultima l’11 ottobre.
Nel resoconto fornito dal regime talebano, che non ha attivato alcuna forma di soccorso per le popolazioni colpite, nella tragedia sono morte 3000 persone e 10.000 sono rimaste ferite; 1300 case sono state totalmente o parzialmente distrutte. Il rappresentante dell’OMS ha dichiarato che la maggior parte delle vittime sono donne e bambini.
Si tratta di un bilancio molto parziale e destinato a salire; molti villaggi non sono raggiungibili a causa della mancanza di strade e per le frane che hanno chiuso le poche vie di accesso. Nell’area mancano quasi del tutto medici e strutture sanitarie.
La comunità internazionale, concentrata sulla crisi in Medio Oriente, non ha avuto occhi per questa nuova tragedia che colpisce una popolazione ridotta allo stremo da 40 anni di guerre e fondamentalismo.
Le nostre compagne di RAWA e di OPAWC, che da sempre sosteniamo, hanno attivato i loro team medici mobili, che abbiamo visto in azione anche dopo l’alluvione che aveva colpito l’est del paese, nell’agosto 2022. Di seguito la testimonianza di una di loro, che sta organizzando il lavoro:
“I nostri colleghi e le nostre colleghe sono davvero coraggiosi, e stanno lavorando senza sosta. Ci dicono che è come un fronte: non c’è cibo, non c’è acqua, non ci si ferma mai. Tantissimo lavoro e un forte stress mentale. La città di Herat è nel caos, e moltissime persone se ne sono andate; è difficile fare qualsiasi cosa, dal trovare beni necessari ai soccorsi, all’affittare automobili che raggiungano le aree colpite…
Abbiamo saputo che ci sono molte donne che non vogliono lasciare l’ospedale perché hanno perso le loro famiglie e non sanno dove andare. Siamo preoccupate per l’arrivo di nuove scosse…
Le notti sono molto fredde e servono coperte e vestiti pesanti; le vittime sono per la maggior parte i contadini più poveri e gli sfollati che non avevano null’altro che costruirsi un riparo di fortuna dove potevano. È una zona molto arida, perciò manca l’acqua… e ci sono molte donne incinte che devono partorire…
Questo è un disastro naturale, ma la situazione è così grave a causa delle disastrose politiche: i governi passati e il regime in carica non hanno fatto nulla per mettere in sicurezza le aree a rischio, non sono capaci di gestire eventi di questa portata. Ciò che è successo mostra la miseria in cui versa la nostra gente. Il regime talebano non sta facendo nulla e addirittura vuole impedire che le donne vadano a lavorare in aiuto delle popolazioni colpite. Con il governo precedente, i signori della guerra e i politici hanno intascato milioni di dollari di aiuti della comunità internazionale e costruito palazzi per se stessi, rubando i soldi destinati alla povera gente.
Il mondo ora guarda all’Ucraina e a Israele, e così l’Afghanistan è stato completamente dimenticato, anche in questa situazione. Gli ufficiali talebani arrivano nell’area con i loro velivoli e per le vittime del terremoto non ci sono ambulanze che le portino in un ospedale.
Il CISDA sta inviando fondi per finanziare i team medici di OPAWC e RAWA e chiediamo a tutti i nostri sostenitori e sostenitrici di contribuire. Non farli sentire soli, in uno dei periodi più bui della loro storia, è un nostro dovere.
Grazie per quanto ciascuno potrà fare.
Chi volesse contribuire anche con una piccola cifra può farlo con un bonifico sul conto del CISDA, specificando nell’oggetto “DONAZIONE LIBERALE – TERREMOTO AFGHANISTAN”.
BANCA POPOLARE ETICA agenzia via Scarlatti 31 – Milano
IBAN: IT74Y0501801600000011136660

Esperimenti di scuola democratica nell’Afghanistan dei Talebani

Circa 15 anni fa in una periferia di Milano avevamo lanciato una provocazione in un istituto particolarmente difficile, offrendo agli studenti un percorso sulla possibilità di riappropriarsi della scuola. Chiedemmo loro chi non vedesse l’ora di tornare a scuola, invitandoli a mettere in discussioni modello educativo e formativo. Il fulcro sarebbe stato l’incontro con dei coetanei afghani, ospiti di un’associazione locale del Coordinamento italiano a sostegno delle donne afghane (Cisda), che pur di studiare erano disposti a lottare e rischiare. Anche 15 anni fa in Afghanistan studiare era difficile, malgrado la propaganda dei governi occidentali che volevano giustificare l’occupazione e la guerra in corso camuffandola da intervento umanitario.

Un diritto all’istruzione tutto storto: sia per gli afghani resi orfani dalla guerra, costantemente a rischio, con il futuro ipotecato dall’occupazione straniera; sia per i giovani in Italia che spesso subivano la scuola come un peso imposto dagli adulti, impermeabile alla vita e al mondo. Quel progetto educativo d’avanguardia era stato sviluppato in oltre 40 anni di attività formativa da parte dell’Associazione rivoluzionaria delle donne afghane (Rawa) all’interno di campi profughi, case-famiglia, orfanotrofi, appartamenti autogestiti per sole ragazze, centri educativi aperti in quartieri strategici.

Luoghi in cui è maturata un’esperienza che ha permesso a molte persone di raggiungere un’alfabetizzazione di base ma anche, quando possibile, altissimi livelli di maturazione, comprensivi di una solida consapevolezza politica. Metodi consolidati, ancora oggi adattati, di volta in volta, alle nuove condizioni dei corsi “clandestini”, ma non solo. Perché fare scuola non significa soltanto trasmettere nozioni e solo una raffinata pedagogia della liberazione può contrastare la politica di annientamento del genere femminile attualmente in corso.

Una cattiva scuola è forse meglio di niente ma quella imposta dai Talebani ai bambini afghani oggi è davvero pessima, per maschi e femmine: il rigido controllo sugli insegnanti è mortificante e la dottrina religiosa integralista è il solo contenuto che viene impartito. L’unica nota positiva è poter uscire di casa e incontrare dei compagni.

In alternativa chi può permettersi di pagare una scuola privata, dove esiste, non esita a investire tutte le sue risorse per dare ai propri figli un’istruzione di livello adeguato. E il mercato del “privato” contribuisce a risollevare l’economia, in un contesto di stagnazione. Così, paradossalmente, i Talebani tollerano centri educativi a scopo di lucro inquadrati come business e registrati presso il ministero dell’Economia e del commercio, per far sì che il ministero dell’Educazione interferisca al minimo sulla loro gestione. I divieti imposti alle ragazze sono validi anche lì, ma fino al sesto grado, in classi separate per sesso, è possibile a volte studiare matematica, scienze, inglese, le lingue nazionali, informatica. C’è anche l’arte, ma non la musica, espressamente proibita anche in quei centri.

In queste maglie di privilegio, tra una popolazione che al 90% vive al di sotto della soglia di povertà e in preda alla fame, si insinuano esperimenti di scuola democratica: destinata prevalentemente ai più poveri, facendo risultare il pagamento di rette in realtà insostenibili per famiglie in gravi difficoltà, occultando ogni legame con donatori esteri, queste scuole selezionano personale insegnante di eccellenza. Posti di lavoro a supporto della crescita economica del territorio, gestiti secondo il modello educativo di Rawa. Accade anche in aree remote, ed è un peccato che a causa dei problemi di sicurezza non sia possibile pubblicare le foto di bambini e adulti coinvolti: i loro visi raccontano più delle parole.

Quelle che arrivano da un centro privato aperto a marzo 2023 in un’area rurale dell’interno (sperduta tra i monti, abitata da contadini e pastori) aiutano a comprendere il contesto. La priorità viene data alle bambine, con qualche classe separata per i maschi. Ogni mese i genitori vengono convocati in assemblea per discutere dei progressi dei loro figli ma anche della gestione della scuola, raccogliendo critiche e proposte: un esercizio di educazione popolare per adulti.

La popolazione locale apprezza l’iniziativa ed è pronta a sostenerla di fronte alle minacce che possono insorgere in qualsiasi momento. Questa è la garanzia di continuità di una anonima impresa commerciale femminile privata che potrebbe altrimenti venire spazzata via in qualsiasi momento. Nel mese di luglio un gruppo di studenti ha celebrato solennemente il passaggio a un successivo livello di lingua inglese, con tanto di premiazione. Nell’incontro pubblico, i ragazzi hanno raccontato l’importanza che ha per loro studiare: rielaborare a parole la propria esperienza e confrontarsi è il primo passo per prendere coscienza di sé e del mondo.

La maggior parte di loro appartiene a famiglie contadine. Mahdia, otto anni, ha raccontato che il papà era un poliziotto ed è stato ucciso durante il precedente governo, lasciando una famiglia di sei persone. La mamma ha dovuto sposare, secondo la tradizione, un fratello analfabeta del marito. Mahdia ricorda che il suo papà comprava cibo, vestiti, scarpe ed erano felici. Ora mangiare abbastanza è solo un sogno per loro.

Mujida appartiene invece a una famiglia di sette persone. Sua madre era la direttrice di una scuola e guadagnava abbastanza per mantenerli, ma quattro anni fa è morta di infarto. Hanno dovuto vendere tutto e trasferirsi alla ricerca di un’occupazione ma ora il padre lavora solo un paio di giorni alla settimana. “Certe sere papà torna a casa con le tasche vuote e vuole suicidarsi, ma poi pensa a noi figli, a cosa ci può succedere senza di lui, e si ferma. Da quando sono arrivati i Talebani la nostra vita è tragica”. Trovare le parole e lo spazio per dirlo, tra compagne solidali, celebrando un successo in un percorso di trasformazione, è fare scuola. Un modello da cui abbiamo tutto da imparare.

Pubblicato su Altreconomia n. 263

Gabriella Gagliardo è un’attivista di CISDA

Dossier Afghanistan – I diritti negati delle donne afghane

Ormai uscito dai radar dei media nazionali e internazionali, l’Afghanistan è un paese allo stremo, stretto nella morsa dei talebani e alla mercé degli interessi geopolitici  ed economici di diversi paesi.

Se per tutta la popolazione afghana vivere è una sfida quotidiana, per le donne è un’impresa impervia.

In questo Dossier, CISDA ha voluto ripercorre le tappe principali della storia afghana, cercando di capire chi sono i talebani di oggi e realizzando approfondimenti tematici per comprendere qual è la situazione attuale del paese. Ma soprattutto ha voluto dar voce alle donne afghane raccogliendo le loro storie.

Questo vuol essere un primo documento di un più ampio progetto che, sotto il cappello di Dossier Afghanistan, intende aggregare e amplificare le diverse voci che sostengono il popolo afghano.

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    Imparare a cucire e tornare a vivere. Le sarte che sfidano i Talebani

    Un ronzìo sommesso, ininterrotto, come un silenzio abitato. Le voci dei bambini seduti in braccio alle mamme. Le macchine da cucire non si fermano, le mani accompagnano la stoffa. Un breve momento di sollievo, di gioia perfino, per le donne dai 13 ai 60 anni che sono qui, sedute a terra, ognuna davanti al suo banchetto di legno. Le vediamo attraverso lo schermo del pc, la nostra finestra aperta sulle loro vite. Qualcuna alza la testa, qualche breve sorriso timido, altre si coprono con il chador colorato. I burqa e gli hijab neri sono appesi fuori come tanti impiccati, qui non servono. Siamo a Kabul, all’interno di una scuola di cucito e alfabetizzazione gestita da un’associazione di cui non possiamo fare il nome per motivi di sicurezza. Una scuola segreta, come tutto ciò che ancora vive in Afghanistan.

    Le ragazze e le donne imparano a confezionare abiti, studiano il dari, la matematica, il disegno e l’arte. Per loro essere qui è una sfida quotidiana, un salto nel buio e nella speranza. Vengono a cucire la trama della loro resistenza all’oblìo, la vita sotterranea che ha ancora il sapore forte della scelta. Realizzano vestiti vivaci, riportano i colori nel mondo. Arrivare al corso è “la battaglia del mattino -come la definisce Sukria-. Quando attraverso quella porta e mi tolgo il burqa so che oggi ho vinto io, non loro. Ho conquistato un giorno nuovo. Posso respirare, imparare, esistere, stare con le altre, lavorare, condividere”.

    Vestito nero fino ai piedi, hijab lungo dello stesso colore e mascherina, oggi è questo il protocollo. Solo gli occhi segnalano la vita. Ma non basta a proteggerle. Hanno paura, tutte, ma continuano a venire. La strada è una trappola: molte di loro non hanno nessuno che possa svolgere il ruolo del mahram (il parente di sesso maschile che deve accompagnare le donne negli spazi pubblici) e si mettono in cammino da sole, esponendosi al rischio di essere fermate dai Talebani, interrogate e persino picchiate perché non hanno con sé un uomo che le sorveglia. Qualsiasi sciocchezza può degenerare. Tornano in mente gli annunci della Corte suprema talebana sulle decine di donne lapidate per “comportamenti scorretti”, le frustate pubbliche, le torture. Sanno che potrebbero sparire e nessuno direbbe nulla. “Persecuzione di genere” l’hanno definita le Nazioni Unite in un rapporto ufficiale pubblicato lo scorso maggio in cui si parla apertamente di crimini contro l’umanità.

    Ogni giorno, nelle moschee di tutto il Paese, la voce fanatica dei Talebani mette in guardia gli uomini: non devono lasciare che le loro mogli vadano a scuola o frequentino corsi di qualunque genere, perché imparano cose sbagliate e possono diventare indipendenti. La donna istruita li terrorizza. Potenzialmente ribelle.

    Quando Sukria ha annunciato in famiglia il suo desiderio di seguire questo corso i cognati si sono opposti e hanno litigato violentemente col marito, che non è totalmente contrario, e lo hanno riempito di botte. Hassan, il marito, non può più lavorare e Sukria al corso può imparare un mestiere per portare a casa qualche soldo: la fame è la sua alleata. Tutti in famiglia avranno bisogno del suo denaro quando potrà vendere gli abiti. Così è riuscita a spuntarla. Adesso, ogni mattina, si prepara a fronteggiare l’esercito dei parenti maschi: minacce, ricatti, insulti. Il loro piccolo orgoglio ferito cerca sempre una scusa nuova per chiuderle quel breve tempo di libertà. “Non ci riusciranno. Quando chiudo la porta sulle loro parole cattive, sento la vita che scorre -racconta-. Penso alle mie amiche, alle mie insegnanti che mi stanno aspettando. Ce la farò, anche stamattina”.

    Fino a qualche tempo fa, proprio dietro il paravento dei corsi di cucito -attività confinata nelle mura domestiche e tollerata dai Talebani- le insegnanti potevano gestire corsi di alfabetizzazione, inglese e materie scientifiche. Ora anche i corsi di cucito sono caduti sotto la mannaia talebana e sono entrati in clandestinità.

    Nooria ha più di sessant’anni, fa un po’ da nonna ai figli delle donne più giovani quando si stancano di stare in braccio alle mamme. Lei non si è mai sposata e vive con la madre: “Se si chiudesse questo corso io soffocherei, sarei schiacciata dai miei problemi psichici. È la mia medicina: essere qui mi fa imparare un lavoro per vivere, certo, ma è molto di più, è tutta la mia vita”. L’isolamento, la totale esclusione dalla vita sociale, la sparizione del futuro consumano la mente. I disturbi psichici aumentano, specialmente nelle giovani, crescono il numero dei suicidi e l’uso di droga. Su quattro milioni di tossicodipendenti, un milione sono donne. “Organizziamo scuole segrete in quattro province: Kabul, Farah, Kunduz e Jalalabad -ci dice la direttrice Nazifa-. Ricostruiscono la vita sociale scomparsa, danno la possibilità di lavorare da casa senza dover affrontare traumi, tengono occupate le mani e la mente e ridanno a queste ragazze la fiducia in se stesse”.

    Quest’attività è molto più difficile nelle province. Nazifa è appena tornata da Farah, una delle zone più tormentate dell’Afghanistan: un viaggio di 19 ore in automobile, assieme al marito. Non sarebbe stato possibile senza un mahram. I checkpoint sono tanti e ogni volta tengono in ostaggio i viaggiatori per ore. “La sorveglianza è strettissima nelle province -continua- la popolazione viene controllata rigidamente e l’intelligence dei Talebani è ovunque. Hijab obbligatorio, sempre, anche con le tremende temperature estive. Bisogna trovare appartamenti privati adatti alla scuola e non è facile. C’è molta paura. Ho ascoltato tante storie terribili: le ragazze spariscono, sempre più spesso, senza lasciare traccia, i suicidi di donne sono in aumento. Ma l’entusiasmo per imparare è lo stesso di Kabul”.

    La sicurezza è il problema principale. Quando la pressione del controllo talebano è troppo forte i corsi devono essere sospesi. Nella scuola della capitale c’è una donna fuori dalla porta, una sorvegliante che controlla l’ingresso delle studentesse: “Entrano alla spicciolata ma i Talebani ronzano qui intorno come mosconi e se si insospettiscono entrano -racconta Nazifa-. Abbiamo una cantina difficile da individuare e le ragazze con le insegnanti si nascondono lì. I nostri colleghi maschi vanno a trattare e io mi presento come un’insegnante di bambine piccole, ancora autorizzate a studiare. Poi, quando se ne vanno, torniamo ai nostri libri”.

    Ai corsi si impara anche ad affermare i propri diritti, a battersi per questa piccola luce di dignità ritrovata. “Qui arrivano i guai di tutte, le loro sofferenze, la paura -dice Nazifa-. E insieme cerchiamo di risolvere i problemi”. Le mani delle altre, i loro volti che ascoltano, i consigli, gli abbracci. È questa la forza che cresce nella stanza grande con le pareti spoglie e la stuoia a quadri per terra. Shirin mischia le parole alle lacrime mentre racconta. Un brutto giorno, un uomo si è presentato a casa sua con una proposta di matrimonio per lei ed è disposto a pagare tanti soldi. Nessuno lo conosce in famiglia. Così il padre si informa: è un Talebano, un pezzo grosso. Ha già mogli e figli ma vuole anche Shirin.

    Deve dire di no, insorgono le compagne. Loro saranno il suo coraggio. La cognata lotta al suo fianco all’interno della famiglia, pagando l’appoggio alla ribellione di Shirin con la violenza del marito. La ragazza minaccia il suicidio se la faranno sposare a quel bruto. Tiene duro. Il tempo passa. Alla fine il Talebano si trova un’altra moglie e Shirin è libera. Si guarda intorno, cerca le sue amiche con gli occhi, le sue guerriere di libertà. “Da sola non ce l’avrei mai fatta. Tutte le mie giornate, da che sono nata, sono passate dentro casa. Uno spazio di altri, senza luce né sogni. Ora, qui, è cambiato tutto. Ho visto che c’è un’altra vita fuori di casa, anzi c’è la vita. Conosco tante donne come me, condividiamo le nostre paure e le trasformiamo in forza. Ridiamo, perfino, e tanto. È molto divertente. L’allegria è importante per restare vive”. Ci mostra il suo quaderno, fierissima di aver imparato a scrivere correttamente. Ora vuole studiare l’inglese. È bella la nuova Shirin, ora che sorride.

    Pubblicato su Altreconomia n. 262

    Cristiana Cella, giornalista, scrittrice, sceneggiatrice. Segue le vicende afghane dal 1980, quando entrò clandestinamente a Kabul, vietata ai giornalisti, per documentare la resistenza della città contro l’invasione russa.  Dal 2009 fa parte del Direttivo dell’Associazione Cisda (Coordinamento Italiano Sostegno donne afghane), ha partecipato a diverse delegazioni in Afghanistan. Ha pubblicato un libro: ‘Sotto un cielo di stoffa. Avvocate a Kabul’, edito da Città del Sole Edizioni.

    Afghanistan Oggi – La vita sotto i talebani

    Fame, violenza, diritti negati, buio sono le parole che rappresentano l’Afghanistan oggi. Un buio metaforico, nell’anima, perché la repressione si insinua in ogni momento della vita degli afghani, e un buio reale perché, come ci raccontano le attiviste di RAWA (Associazione rivoluzionaria delle donne afghane) “l’instabilità dell’elettricità ha sprofondato le città in un’oscurità cupa”.

    28,3 milioni di afghani, su una popolazione stimata di 43 milioni, nel 2023 avranno bisogno di assistenza umanitaria. Una cifra enorme, due terzi della popolazione, dove fame e indigenza assoluta colpiscono principalmente bambini, 54%, cioè più di 15 milioni, e donne, 23%, ossia più di 6,5 milioni. L’inflazione è alle stelle: nel novembre 2022, il prezzo medio del gasolio era superiore del 76% rispetto a due anni prima e quello di un chilo di farina è aumentato del 26% all’anno. Al rincaro dei prezzi corrisponde il calo del reddito familiare mensile: – 17% nel 2022 sul 2021 (dati Unocha 2023).

    Con il blocco del sostegno internazionale allo sviluppo, che copriva il 75% del bilancio del Paese, l’Afghanistan è piombato in una catastrofe economica. Una catastrofe che ha le sue radici nella corruzione degli esponenti dei governi passati, sostenuti da NATO e ONU, durante i quali della pioggia di miliardi di dollari in aiuti umanitari e di sostegno allo sviluppo, solo poche gocce sono arrivate alla popolazione (che oltretutto nelle aree controllate dai talebani, e non solo, doveva sottostare a varie forme di estorsione). E sul destino degli aiuti umanitari, che l’ONU oggi continua inviare in Afghanistan, vengono sollevati non pochi dubbi: “C’è un forte scontro interno ai talebani, con fazioni di vario tipo, ma per ora stanno insieme e continueranno a farlo finché ci saranno soldi da dividersi. Soldi che arrivano dalle tasse e dall’estero… formalmente arrivano come aiuto umanitario, ma giungono a destinazione in minima parte”, ci ha detto un rappresentante di Hambastagi, partito laico e progressista fondato nel 2004 e che oggi opera in clandestinità.

    Ad aggravare la situazione vi è il fatto che l’Afghanistan è altamente soggetto a pericoli naturali, le cui frequenza e intensità sono esacerbate dagli effetti del cambiamento climatico e dai limiti strutturali nella mitigazione dell’impatto dei disastri. Il Paese sta affrontando una prolungata siccità (si entra nel terzo anno consecutivo), alla quale si aggiungono inondazioni e terremoti, che nel 2022 sono stati più frequenti che negli anni precedenti e, ovviamente, la pandemia da Covid-19. Inoltre, con più di 40 anni di conflitti armati, l’Afghanistan ha oggi uno dei più alti livelli di contaminazione da ordigni esplosivi al mondo.

    I diritti umani calpestati

    La Costituzione del 2004 è stata sospesa e, con un definitivo colpo di spugna, tutte le norme e i regolamenti redatti dall’ex Repubblica sono stati automaticamente abbandonati perché contrari alla sharia. Repressi la libertà di espressione, associazione, il diritto a un processo equo e, più in generale, i più elementari diritti umani.

    Molti giornalisti sono stati arrestati, picchiati e torturati, solo per aver cercato di raccontare quello che stava succedendo nel paese, come evidenzia Amnesty International nel suo ultimo rapporto. Una repressione facilitata dal sistema Hiide di rilevamento dei dati biometrici dei cittadini afghani, implementato dagli USA e che si ritiene sia finito nelle mani dei talebani dopo il ritiro degli americani, e dall’Afghan Personnel and Pay System (Apps), database governativo che contiene circa mezzo milione di record relativi a membri dell’esercito e della polizia afghani.

    Sempre nel Report di Amnesty International, si legge: “I talebani hanno iniziato a mettere a morte e fustigare pubblicamente persone per reati come omicidio, furto, relazioni “illegittime” o violazioni delle norme sociali. Secondo gli esperti delle Nazioni Unite per i diritti umani, tra il 18 novembre e il 16 dicembre [2022], più di 100 persone sono state fustigate pubblicamente negli stadi di diverse province. A dicembre, le autorità talebane hanno effettuato la loro prima esecuzione pubblica nella provincia di Farah, alla presenza di alti funzionari talebani, tra cui il vice primo ministro, ministri e il capo della Corte suprema”.

    “Le città sono fortemente militarizzate. I talebani sono molto ben equipaggiati… hanno armi, tecnologia, e con questi equipaggiamenti più moderni e sofisticati cercano di spaventare la popolazione. Le perquisizioni sono frequenti: rovistano dappertutto, anche tra i vestiti delle donne, nelle loro cose. È il loro modo di terrorizzare la popolazione, di mostrare il loro controllo totale”, ci dicono le donne di RAWA.

    Sono ormai 7 milioni gli afghani che, con vari status (tra cui 2,1 milioni di rifugiati registrati), vivono al di fuori del Paese; tra di loro moltissimi professionisti, il che comporta un ulteriore impoverimento del Paese. Inoltre, in alcune aree si continua a combattere, ma soprattutto non diminuiscono gli attentati compiuti dall’ISIS-K: “I talebani avevano fatto passare il messaggio che non ci sarebbe più stata criminalità e ci sarebbe stata più sicurezza. Ma non è così, tutto continua come prima”, ci dice l’attivista di Hambastagi, la sola differenza è che i talebani hanno chiuso quasi tutti i media e quindi è più difficile sapere quello che succede.

    L’abisso delle donne afghane

    Segregate in casa, costrette al silenzio, vittime di una società già storicamente discriminante nei confronti delle ragazze e delle donne, le afghane sono ripiombate nell’incubo del primo periodo talebano (1996-2001). Già da settembre 2021, contravvenendo a qualsiasi promessa fatta nel corso degli accordi di Doha, è iniziata la discriminazione nei loro confronti e oggi la vita delle donne è contraddistinta da divieti e obblighi che le rinchiudono in una soffocante prigione.

    Come vedremo nelle pagine focalizzate sui singoli aspetti, alle imposizioni del governo si affianca un aumento della violenza domestica, compresi i matrimoni forzati, che trova le sue radici nella società tradizionale afghana e che rimane ormai totalmente impunita. Inoltre, permane un forte senso di insicurezza e instabilità perché l’applicazione dei decreti è incoerente e imprevedibile, vengono emessi e attuati da autorità diverse, rendendo così più difficile per le donne sapere cosa è permesso e cosa non lo è.

    Soprattutto tra le giovani aumentano ansia e depressione e gli specialisti, come si legge in un reportage della BBC di giugno 2023, parlano di una vera e propria “pandemia di pensieri suicidi”: “Voglio solo che qualcuno ascolti la mia voce. Soffro e non sono l’unica. La maggior parte delle ragazze della mia classe ha avuto pensieri suicidi. Soffriamo tutte di depressione e ansia. Non abbiamo speranza”, sono le parale di una giovane studentessa universitaria che ha tentato il suicidio dopo che i talebani hanno impedito alle ragazze di frequentare l’università.

    L’opposizione ai talebani

    Così come negli anni ‘80 la stampa occidentale era rimasta folgorata dal carisma di Ahmad Shah Massoud, oggi ha “eletto” a rappresentante dell’opposizione ai talebani il figlio Ahmad, del Fronte di Resistenza Nazionale. Ma il FRN rimane un gruppo basato su una visione fondamentalista e misogina della società ed è una riedizione di quel Fronte islamico unito per la salvezza dell’Afghanistan (in Occidente conosciuto come Alleanza del Nord) che, sebbene abbia combattuto contro i sovietici e i talebani del primo periodo, si è macchiato di crimini contro la popolazione afghana nei sanguinosi anni dei “signori della guerra” (1992-1996), come testimoniato da Human Rights Watch.. Infine, il giovane Massoud, che ha vissuto e studiato a Londra, è poco conosciuto in patria.

    Continua invece in clandestinità la resistenza di organizzazioni come RAWA e Hambastagi che, tra mille difficoltà, cercano di opporsi all’oppressione talebana (come vedremo nelle storie raccontate di seguito).

    Il governo talebano e la comunità internazionale

    Nonostante fino ai primi mesi del 2023 nessun paese abbia ufficialmente riconosciuto l’Emirato, non mancano i contatti bilaterali. Oltre alle strette relazioni con Pakistan e Qatar, i talebani mantengono legami economici con Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti.

    India, Russia, Iran e Cina sono invece mossi dalla comune preoccupazione che l’Afghanistan diventi rifugio e incubatore di movimenti jihadisti nell’area. E quale rimedio migliore del sostegno economico? Per ora sembra essere la Cina la meglio posizionata con la recente firma del contratto per l’esplorazione e l’estrazione di petrolio nel nord dell’Afghanistan (un investimento da 540 milioni di dollari in 3 anni). Contrapposto l’interesse degli USA ai quali sostenere un’attività jihadista in funzione anti Iran, Cina e Russia non spiace affatto.

    Non secondario il discorso economico. Secondo l’Istituto Geologico degli Stati Uniti (Usgs), nel sottosuolo afghano potrebbero essere presenti fino a 60 milioni di tonnellate di rame e 2,2 miliardi di tonnellate di ferro, oltre a cobalto, oro e altri metalli preziosi. Ma soprattutto 1,4 milioni di tonnellate del nuovo oro delle società digitali, le cosiddette terre rare, come litio, lantanio, cerio, neodimio. Quindi, avere contatti con i talebani interessa un po’ a tutti, i paesi occidentali devono però fare i conti con la propria opinione pubblica: UE e ONU hanno dichiarato di condizionare il riconoscimento dell’Emirato islamico dell’Afghanistan al rispetto dei diritti umani, di quelli di donne e ragazze e alla costruzione di un governo inclusivo per genere ed etnia. Ma, dicono le attiviste di RAWA, “un governo ‘inclusivo’ sarebbe una catastrofe. Significherebbe includere esponenti del passato regime, fondamentalisti e misogini quanto i talebani. E proprio in quanto tali disposti a condividere con loro il potere. E non sarebbe un vantaggio per le donne afghane nemmeno se tra loro sedessero anche esponenti femminili, legate a quelle famiglie e a quei partiti: la loro presenza servirebbe solo a legittimare il sistema vigente, senza portare alcuna differenza sostanziale”.