Ero ancora una bambina quando mi sono resa conto di essere una pedina nel gioco d’azzardo di mio padre. Quando ero ancora nel ventre di mia madre, mi aveva promessa in sposa al figlio di un uomo che gli aveva vinto al gioco molto denaro.
A dieci anni sono stata fidanzata e a 13 anni ero sposata.
Giocavo con le bambine della mia età, quando mi è stato detto che sarei diventata la sposa di un uomo. La nostra situazione finanziaria non era buona da quando mio padre aveva perso al gioco tutto quello che il nonno gli aveva lasciato in eredità.
Non avevo ancora raggiunto la pubertà quando mi sono sposata, è successo dopo tre anni che vivevo con lui. Io non sapevo niente del sesso e delle relazioni tra marito e moglie. Mio marito non ha avuto nessun rispetto per me e per la mia età.
Adesso ho capito che venivo regolarmente violentata, tutto era terribile per me, piangevo per giorni ma non potevo dirlo a nessuno. Credevo che tutte le ragazze avessero queste difficoltà nel matrimonio. Ogni tanto pensavo alla crudeltà dei miei genitori e alla fine arrivavo sempre alla conclusione che tutti i genitori erano così, come i miei e in questo modo riuscivo a calmarmi.
La mia vita era molto brutta ma crescendo è diventata anche peggiore. Per fortuna non sono diventata madre a quell’età! Pensavo, tra me, che se fossi rimasta incinta, non sarei sopravvissuta al parto o, anche se fossi sopravvissuta, avrei avuto molte difficoltà a prendermi cura del bambino e di tutti gli altri lavori. Ho dovuto sopportare ogni tipo di violenza durante il mio matrimonio. Per queste condizioni di vita disumane, ho perso tre figli.
Mio marito era un maniaco sessuale e se rifiutavo le sue avances mi legava mani e piedi e faceva quello che voleva. Ho passato 12 anni con lui senza che ci fosse il minimo cambiamento nel suo comportamento , anzi, diventava ogni giorno più selvaggio. Adesso ho 5 figli, l’ultimo è nato dopo il divorzio. Sono malata e non ho mai potuto vedere un dottore.
Ho avuto il mio divorzio dopo un lungo e difficile lavoro, sono stata capace di liberare me stessa dalla violenza e dall’umiliazione. I miei bambini sono tutto per me. Adesso il mio desiderio più grande è quello di vedere i miei figli istruiti e crescerli perché siano di mente aperta e rispettosi verso le donne. Mio marito ancora mi minaccia, vuole portarmi via i miei figli. Io so bene che se i miei ragazzi andassero a vivere con lui diventerebbero delle bestie come lui, sarebbero ignoranti e crudeli come il loro padre.
Ho lavorato per tre mesi nell’ufficio di Hawca e mi hanno incoraggiato a studiare. Ho chiesto aiuto a una mia vicina di casa e adesso lei insegna a leggere e scrivere a me e ai miei figli. Purtroppo l’ufficio di Hawca in Mazar-e- Sharif è stato chiuso e io ho perso il lavoro. Cucinavo e facevo le pulizie per loro e sto cercando di trovare un altro lavoro. Per ora non l’ho trovato e ho davvero bisogno urgente di sostegno per poter continuare la mia strada e superare questi ostacoli.
Aggiornamenti
Freshta, che è entrata nel progetto qualche mese fa, ha ora il sostegno di Antonella, Mimmo e Marco. Accanto a loro affronterà le sue grandi sfide con un po’ di pace nel cuore.
Aggiornamento gennaio 2023
Khatera è molto felice di avere accanto i suoi sponsor. Ci dice: “Sono grata dal profondo del cuore ai miei sponsor. Sono persone davvero gentili. Per favore, continuate a tenere stretta la mia mano e quella dei miei bambini in questa orribile situazione.” Freshta era molto brava a ricamare, i bellissimi ricami afghani, ma questo oggi non basta affatto a sopravvivere. Nessuno ha soldi per comprare stoffe e vestiti. Così ha cominciato a cuocere dolci. Ci racconta: “Ho imparato a fare dei dolci molto speciali tra i ‘Mazari sweets’. Quando le persone fanno delle feste, come un compleanno oppure un matrimonio, io vado a casa loro e gli cucino i miei dolci. Ovviamente vado nelle case degli amici e di persone che mi sono presentate da loro, è questa la mia clientela. Ma anche se lavoro una o due volte al mese, è per me una buona opportunità andare nelle case a cucinare dolci e ne sono felice, perché penso che, così, potrò farmi pubblicità e espandere il mio lavoro in futuro. Quello che per me è importante è che le persone apprezzino i miei dolci fatti a mano e che io possa continuare a fare questo lavoro anche nei prossimi anni. Anche se guadagno poco, posso contribuire alle spese per i miei figli. Spero, con l’aiuto dei miei sponsor, di potere un giorno far rendere bene il mio lavoro e creare un futuro pieno di luce per i miei bambini. Abbraccio forte i miei sponsor.”
Aggiornamento gennaio 2024
“Sono diventata infinitamente felice quando ho visto Freshta – ci racconta S. la direttrice di Hawca – Quando l’ho vista, sono rimasta insieme stupita e felicissima. Ho visto in Freshta una donna molto energica e allegra. Freshta era estremamente soddisfatta del suo lavoro e ha detto che la sua attività dolciaria era fiorente. Ora ha un contratto con una delle famose panetterie di Kabul e il suo datore di lavoro è una persona nobile e infinitamente cortese”.
“Dico sempre a me stessa- racconta Freshta- che sono stata benedetta due volte nella mia vita. Una è stata la presenza del mio caro sponsor, che ha trasformato la mia vita attraverso la sua assistenza e il suo sostegno. Sono sempre grata al mio caro sponsor e gli devo un mondo di gratitudine. E ora, anche il mio datore di lavoro si è mostrato una persona gentile e non smette di incoraggiarmi, permettendomi di stare in piedi da sola e di affrontare le spese della mia vita. Ancora una volta, esprimo la mia gratitudine per gli sforzi del mio amato sponsor e spero che invece di me, un’altra donna afgana riceva sostegno e porti un cambiamento nella sua vita come è successo per me. Io, finalmente, me la cavo da sola”.
La fotografia è di solo carattere grafico e non rappresenta la donna protagonista della storia. Data la attuale situazione in Afghanistan, per evitare l’identificazione delle donne i nomi sono stati modificati, così come i luoghi dove si svolgono i fatti.
Se ne devono andare: un milione e 700mila persone, immigrati senza documenti in regola, quasi tutti afghani. L’annuncio è stato fatto il 7 ottobre dal governo pakistano, “per salvaguardare il benessere e la sicurezza del Paese”. In una prima fase potranno allontanarsi in forma “volontaria”, poi saranno deportati. In molti, più di trecentomila, hanno lasciato tutto e sono già partiti per paura di essere arrestati.
La vera caccia agli afghani si è aperta però il primo novembre 2023 e le carceri hanno iniziato a riempirsi. La polizia blocca le strade strette e affollate delle città pakistane, per impedire la fuga. Entra nelle case e chi non ha i documenti in regola viene caricato su furgoni e camion. Ma, a quanto ci dicono, succede anche a chi è regolare. A volte gli agenti entrano nell’abitazione di notte oppure giungono sul posto di lavoro. Succede, anche, che la casa e il negozio vengano distrutti. C’è poco tempo, devi sbrigarti, lasciare quasi tutto: puoi portare con te solo 150 dollari. “Mentre camminavo per strada a Lahore ho visto coi miei occhi famiglie picchiate dalla polizia per farle salire sul camion -racconta Javed, giovane attivista rifugiato-. Inutili le loro urla: si rifiutavano e sventolavano i documenti ma gli agenti rispondevano col manganello. Qualcuno, che il visto non ce l’ha, offre denaro: si apparta col poliziotto e poi risale in casa con tutta la famiglia. Se paghi ti lasciano in pace e ti congedano con rispetto”.
I video inondano il web. Si vedono afghani spinti a forza sui mezzi, schiacciati come in una valigia troppo piena, qualcuno cade e viene spinto di nuovo su, come un oggetto ingombrante. Si dirigono verso le porte del ritorno in Afghanistan: il valico di Torkham, Nord-Ovest del Paese, e quello di Chaman, a Sud-Ovest. Si caricano pezzi di vita sulle spalle, nei fagotti: qui in Pakistan non c’è più posto per loro. Nemmeno per chi è arrivato quarant’anni fa fuggendo dalla guerra dei russi: i “fratelli afghani” che vivono una vita a tutti gli effetti pakistana, i cui figli parlano solo urdu.
Per i 600mila arrivati negli ultimi due anni in fuga dai Talebani che danno loro la caccia è il crollo della speranza. “Molte famiglie sono venute qui -dice Rahima, cooperante per i diritti delle donne, fuggita in Pakistan- per salvarsi dalla mannaia talebana o per far studiare i figli, soprattutto le femmine, e dar loro la speranza di una vita che è morta da tempo in Afghanistan. Oppure per avere cure e medicine, impossibili nel nostro Paese. Devono lasciare subito le case in affitto ma è difficile trovare una guest house che ti accetti se non hai i documenti, anche perché i pakistani che ci aiutano sono passibili di arresto. Il governo ci ha voltato le spalle e sta distruggendo i nostri sogni. Tutti dovremo tornare a matmesra (parola in lingua dari che possiamo tradurre con ‘luogo buio dove non c’è speranza’, ndr)”.
Intanto nella spianata brulla di fronte al valico di Torkham si ammassano i camion, enormi, colorati, dipinti come quadri naif e stracolmi degli oggetti che accompagnano la vita di migliaia di persone. File interminabili di afghani nella piana desertica, contenute dal filo spinato. Aspettano, spingendo i loro averi in una carriola o se li portano sulle spalle, insieme ai bambini. A volte la pressione della folla, incalzata dalla polizia, si fa insostenibile ed è difficile proteggere anziani e bambini perché non siano calpestati. Beena ci racconta di aver perso la sua bambina, trascinata dalla folla, ma per fortuna l’ha ritrovata il giorno dopo, spaventata ma viva.
Hussein prende in braccio suo figlio sollevandolo da un tappeto polveroso su cui è appoggiato insieme ai pochi averi, ben impacchettati, della famiglia. È accampato davanti all’ufficio della Society for human rights and prisoners aid (Sharp), una Ong che fa la “selezione” per rilasciare il documento dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) che dovrebbe permettere agli afghani di restare. Ma la polizia spesso non lo tiene in considerazione.
Hussein ha paura: scuote la testa, racconta che era un soldato dell’Ana, l’esercito afghano, e i Talebani vogliono ucciderlo. Ha viaggiato per giorni da Karachi, città sulla costa orientale, fino a Islamabad ma i soldi sono finiti e adesso vive per terra, in questo campo desolato di spazzatura e zanzare. Spera di avere quel documento, per continuare la strada verso una vita possibile. Si guarda intorno, come per cercarla.
“Facciamo pressione sul governo pakistano- dice Philippa Candler, dell’Unhcr a Islamabad- perché fermi le deportazioni delle persone per le quali è proibito il respingimento dalle leggi internazionali. Per chi rischia la vita in caso di rientro: soprattutto le donne, le persone che hanno documenti, che sono registrati con noi o con il governo, che aspettano di essere ricollocati verso altri Paesi. Serve formare un Comitato di valutazione dei casi e lavorare insieme con le autorità locali”.
Intanto il fiume umano attraversa il confine, migliaia al giorno, verso il nulla. Cosa li aspetta al di là? Un Paese allo stremo, devastato dalla siccità e dai terremoti, in cui due terzi della popolazione hanno bisogno “urgente” di assistenza per poter sopravvivere ma il governo non ha né volontà, né capacità, né mezzi per intervenire. Dove non ci sono istruzione e lavoro per le donne. Non c’è vita. Che cosa ne farà il governo di Kabul, alle porte dell’inverno, di migliaia di compatrioti rifugiati che non hanno niente, e non sanno dove andare?
“Passato il confine i Talebani accolgono tutti gentilmente -continua Rahima- un bentornato ufficiale pieno di promesse. Ma sappiamo che non sono in grado di gestire questa situazione. È stato allestito solo un campo profughi a pochi chilometri dal confine. Tende, ma senza servizi igienici. Un problema enorme soprattutto per donne e bambini. Le Ong prevedono un disastro umanitario di proporzioni enormi”. Queste montagne hanno sostenuto i passi di migliaia di afghani nel corso di quarant’anni di guerra e di violenza, portando non pochi vantaggi al governo pakistano.
Ero a Peshawar nel 1980 e un fiume di persone attraversava la frontiera, da mesi, in fuga dalla guerra dei russi. La città era il regno dei partiti fondamentalisti afghani che registravano, con improbabili tessere, ogni compatriota arrivato. Se li contendevano ferocemente per ingrossare le fila dei sostenitori e imporsi sui propri rivali. Era sufficiente per stare in Pakistan: in quegli anni i rifugiati erano un buon affare per il governo. Per sostenere i mujaheddin afghani in funzione anti-russa, arrivavano fiumi di denaro, armi e sostegno politico. Soprattutto dalla Cia ma anche da altre agenzie di intelligence. Tutto passava per le mani del governo pakistano e dell’Inter-services intelligence.
“Quando sono arrivati gli americani -dice Noor Ahmed, anche lui rifugiato e oggi avvocato per i diritti umani- il Pakistan si è trovato a giocare due ruoli distinti. Da un lato era l’alleato chiave degli Stati Uniti e riceveva dalla Nato fondi per il supporto logistico delle truppe, dall’altro intascava il sostegno per l’accoglienza dei profughi, infine controllava sul suo territorio i gruppi Talebani. Oggi i rifugiati afghani non portano più vantaggi. Non servono a niente”.
Sul perché di questa immane deportazione Aisha, insegnante anche lei rifugiata, individua tre ragioni. “Il Pakistan ha ormai una posizione sbiadita nel gioco politico internazionale -spiega-. Per quarant’anni gli immigrati sono stati una risorsa: oggi non è più così e questa potrebbe essere una mossa per fare pressione sulla comunità internazionale e riacquistare importanza politica e denaro attraverso i rifugiati, d’altronde non sono i soli a farlo”. Ma per Aisha non è l’unico motivo: “La situazione economica pakistana è disastrosa e ci sono disordini e proteste. Presentare gli afghani come capro espiatorio e cacciarli dal Paese diventa una mossa diversiva per il consenso interno. Infine, i rapporti con Kabul stanno peggiorando: Islamabad fa pressione sui governanti afghani perché agiscano sui Talebani pakistani del Ttp (Tehreek-e-Taliban Pakistan), che operano al confine tra i due Paesi, e li spingano a negoziare con il governo. Accusano Kabul di essere dietro ai numerosi recenti attentati”. Intanto Hussein ha trovato degli amici. Ha una vera stanza, adesso. Il piccolo dorme finalmente su un materasso senza il tormento delle zanzare. Sorride, almeno per stanotte.
Cristiana Cella, giornalista, scrittrice, sceneggiatrice. Segue le vicende afghane dal 1980, quando entrò clandestinamente a Kabul, vietata ai giornalisti, per documentare la resistenza della città contro l’invasione russa. Dal 2009 fa parte del Direttivo dell’Associazione Cisda (Coordinamento Italiano Sostegno donne afghane), ha partecipato a diverse delegazioni in Afghanistan. Ha pubblicato un libro: ‘Sotto un cielo di stoffa. Avvocate a Kabul’, edito da Città del Sole Edizioni.
Talebano. Una parola ormai entrata nel nostro vocabolario quotidiano per indicare un’intransigenza cieca e feroce. Eppure, è una parola della quale, fino alla seconda metà degli anni ‘90, la maggioranza degli italiani ignorava l’esistenza e che, in ogni caso, non aveva nulla di sinistro significando “studente”.
Il 27 settembre 1996 il termine “talebano” è esploso nei media occidentali nel significato minaccioso e truce che oggi utilizziamo: quel giorno, l’ultimo presidente della Repubblica Democratica dell’Afghanistan, Mohammad Najibullah, viene prelevato dall’edificio dell’ONU di Kabul (nel quale era rifugiato dal 1992), mutilato, torturato, trascinato con una jeep attorno al palazzo presidenziale, infine ucciso e il suo cadavere esposto per giorni. A compiere l’efferata messa in atto della condanna a morte dell’ex presidente è un “nuovo” gruppo, i talebani appunto, comparso un paio di anni prima in un paese devastato dalla guerra civile, dai crimini compiuti dai “signori della guerra” e da 10 anni di occupazione sovietica.
Descritti come “studenti formatisi nelle scuole coraniche pakistane”, i talebani sono entrati nella scena politica afghana nel 1994 e non ne sono più usciti. Ma chi sono i talebani? Da dove vengono? Come sono riusciti a prendere il potere in Afghanistan nel 1996 e a riconquistarlo nel 2021, dopo 20 anni di occupazione NATO?
Le radici dottrinali
Delle quattro scuole giuridico-religiose dell’Islam sunnita, quella hanafita, costituita verso la fine dell’VIII secolo in Iraq e considerata la più “liberale” tra le scuole ortodosse dell’Islam, è oggi l’elaborazione dottrinale più diffusa nell’Asia centrale, in Egitto, Turchia, Siria, Giordania, Palestina e Iraq. All’interno di questa scuola, nella seconda metà del 1800 a Deoband in India, nasce la corrente detta appunto deobandi principalmente come reazione alla colonizzazione inglese dell’India che, ritenevano i suoi promotori, rischiava di corrompere l’Islam. Senza entrare nel dettaglio possiamo dire che più che una dottrina religioso-giuridica, quella deobandi è un’ideologia che si caratterizza, fin da subito, per il suo carattere anti-imperialista e si diffonde rapidamente in tutto il subcontinente indiano e in Afghanistan.
Dal punto di vista dottrinale si rifà a un’interpretazione molto rigida dell’Islam. L’ideologia deobandi è influenzata anche dal wahabismo (che appartiene, seppur in modo contestato, a un’altra scuola giuridica, la hanbalita). Facciamo questa precisazione non per puro gusto accademico, ma perché dal wahabismo deriva, a sua volta, la scuola di pensiero salafita profondamente legata alla casa regnante dell’Arabia Saudita (e fondamento del movimento della Fratellanza musulmana) e il cui personaggio più famoso, a partire dagli anni ‘90, è un certo Osama bin-Laden.
Nonostante i sunniti pakistani che seguono l’ideologia deobandi siano circa il 20%, essi gestiscono circa il 65% delle madrase (scuole religiose): è in queste scuole che si sono formati i talebani e dove emerge rapidamente una figura ammantata di mistero, il mullah Omar.
Piccoli integralisti crescono
Il contesto è quello che possiamo leggere nel capitolo finale di questo dossier: dopo l’evacuazione delle truppe sovietiche, in Afghanistan si è scatenato un nuovo inferno e gli “eroici” mujahiddin si sono trasformati nei nuovi aguzzini della popolazione, responsabili di crimini e soprusi quotidiani. Nelle scuole coraniche pakistane, i figli (spesso orfani) di afghani rifugiatisi in Pakistan dai tempi dell’invasione sono “profondamente delusi per lo sbriciolamento della leadership dei mujaheddin, un tempo idealizzata, e per le attività criminali dei loro esponenti”, scrive Ahmed Rashid nel suo libro Talebani. E il giornalista prosegue: “I talebani più giovani conoscono a malapena il proprio paese e la sua storia, ma nelle loro madrase vagheggiano la società islamica ideale creata dal profeta Maometto millequattrocento anni prima, la società che vogliono emulare… La loro semplice fede in un Islam messianico, puritano, l’Islam che è stato impresso nelle loro menti da semplici mullah di paese, è l’unico puntello cui aggrapparsi e che conferisce un po’ di senso alle loro vite”.
Ma non solo: “Si sono radunati volontariamente nella confraternita esclusivamente maschile che i leader talebani hanno creato… sono orfani cresciuti senza donne – madri, sorelle, cugine. … Vivono una vita aspra, durissima… Si sentono minacciati da quella metà del genere umano che non hanno mai conosciuto, ed è quindi molto più facile rinchiuderla, questa metà, soprattutto se a ordinarlo sono i mullah che ricorrono a primitive ingiunzioni islamiche prive di fondamento nella legge coranica”, scrive sempre Rashid.
L’entrata in scena
Tutto il paese è risucchiato dalla guerra civile, ma l’Afghanistan meridionale e la provincia di Kandahar sono il centro dell’inferno con bande di ex mujaheddin che razziano la popolazione, commettendo ogni sorta di sopruso. È il 1994 e i talebani stanno per entrare in scena con un episodio ormai diventato leggenda: Omar è il mullah di una piccola madrasa a Singesar, vicino a Kandahar, e viene informato che un comandante locale ha fatto rapire due ragazzine poi violentate. Omar raduna una trentina di studenti di teologia e attacca la base, uccidendo il comandante e liberando le ragazzine. Fatti simili si ripetono e le fila dei talebani, che si presentano come “un movimento che si prefigge lo scopo di purificare la società” (Rashid), si ingrossano.
Ma i talebani giocano un’altra carta che si rivelerà vincente: proteggono la mafia pakistana dei trasporti e del contrabbando che garantisce denaro e appoggi per poter liberamente transitare nei territori controllati dagli stessi talebani.
Militari, governo e servizi segreti pakistani avevano fino a quel momento sostenuto Gulbuddin Hekmatyar ritenendolo il più probabile vincitore della guerra civile in un paese indispensabile per aprire le vie commerciali, e del petrolio, con le repubbliche centro-asiatiche. Rendendosi invece conto di star favorendo un perdente, i pakistani iniziano a sostenere il movimento dei talebani al quale, nel frattempo, si sono uniti anche diversi gruppi salafiti, appoggiati ed equipaggiati dall’Arabia Saudita.
Il salto di qualità
Inizialmente sostenuti da una parte della popolazione alla quale, dopo anni di guerre e angherie, promettono la pace, patrocinati da Pakistan e Arabia Saudita i talebani nel giro di due anni controllano il 90% del paese fino a conquistare Kabul e proclamare l’Emirato Islamico dell’Afghanistan.
Se l’uccisione di Najibullah è l’atto che li fa conoscere al mondo, è la messa in atto della più oscurantista interpretazione dell’Islam che mostrerà al popolo afghano il vero volto dei talebani: le scuole femminili vengono chiuse, le donne non possono uscire di casa da sole e quando lo fanno devono essere integralmente coperte, vengono distrutti gli apparecchi televisivi e messi al bando sport e attività creative, vietata la musica e gli aquiloni, imposta la barba agli uomini e la frequentazione delle moschee, ogni violazione della sharia viene punita severamente fino ad arrivare a pubbliche esecuzioni e lapidazioni.
L’Emirato viene riconosciuto solo da Emirati Arabi Uniti, Pakistan e Arabia Saudita, ma l’appoggio dell’Arabia Saudita e le repressioni della minoranza hazara, sciita, fanno dell’Iran un nemico dell’Emirato, solleticando così l’interesse degli USA (vedi l’articolo dedicato alla storia dell’Afghanistan): l’amministrazione Clinton vede favorevolmente l’affermarsi del movimento talebano non solo in visione anti-Iran, ma anche perché auspica di trovare un appoggio per la realizzazione dell’oleodotto sponsorizzato dalla multinazionale texana Unocal.
Intanto, mentre la popolazione afghana, annichilita dal regime di terrore instaurato dai talebani, cerca di sopravvivere in un paese distrutto, gli “studenti” consolidano il proprio potere anche grazie ai proventi della coltivazione del papavero da oppio.
Il vero salto di qualità, però, i talebani lo compiono nel 1996, quando Osama bin Laden si trasferisce definitivamente in Afghanistan insediando la base più importante di al-Qaeda, dove vengono addestrati 2500 guerriglieri. L’instaurazione dell’Emirato con l’implacabile applicazione della sharia e la presenza nel paese di uno dei 10 uomini più ricercati dagli Stati Uniti trasformano l’Afghanistan in un formidabile aggregatore di jihadisti: “L’Afghanistan era un’incubatrice, dove i semi [del movimento jihadista] sarebbero cresciuti”, sono le parole del numero due di al-Qaeda Ayman al-Zawahiri riportate da Elisa Giunchi nel suo libro sull’Afghanistan.
Fuga e riorganizzazione
Ed è proprio in quanto sede del centro operativo di Bin Laden che il regime dei talebani verrà ritenuto corresponsabile degli attentati dell’11 settembre 2001 e l’Afghanistan attaccato nell’ottobre dello stesso anno. Grande rilievo viene dato in Occidente alle operazioni USA prima e alle missioni NATO poi, ma la caduta dell’Emirato non corrisponde alla scomparsa dei talebani, che si rifugiano prima nei villaggi del sud dell’Afghanistan, loro storica roccaforte, e poi in Pakistan, nel Beluchistan e nelle FATA (Federally Administered Tribal Areas), un’area nella quale le tribù pashtun godono di una certa indipendenza rispetto al governo centrale di Islamabad.
Nonostante le perdite, quasi l’intera struttura di comando dei talebani è rimasta intatta e in Pakistan, grazie al supporto dei servizi segreti pakistani, si riorganizzano rapidamente. I pashtun delle FATA aprono il loro territorio a integralisti di tutto il mondo (ceceni, centroasiatici, africani, indonesiani, uiguri) che vanno a ingrossare le file di al-Qaeda, le cui sorti si intrecciano sempre più con quelle dei talebani. Questi stanno anche imparando dall’organizzazione di Bin Laden e dai servizi segreti pakistani le tecniche di guerriglia e a utilizzare sofisticati mezzi di comunicazione. Nel 2004 i talebani possono già contare su solide basi in territorio afghano e compiono continue azioni contro le forze di polizia afghane e le truppe NATO.
Il governo centrale afghano controlla di fatto solo la capitale, tanto che Hamid Karzai più che presidente viene chiamato “sindaco di Kabul”, mentre il resto del paese è nuovamente in balia dei signori della guerra e degli attacchi suicidi dei talebani che, a partire dal 2006, hanno intensificato l’utilizzo di questa tattica per colpire gli avversari.
Rimandiamo alla Cronologia per il dettaglio degli eventi, quello che qui dobbiamo sottolineare è che in questi anni Karzai mantiene contatti con i talebani per cercare di coinvolgerli in “trattative di pace”. È qui che nasce il “mito” dei talebani “moderati”, con i quali, si dice, è possibile instaurare un dialogo. No, in questo caso il termine ha un significato ben diverso: i talebani non hanno modificato di una virgola la loro ideologia e nei territori che controllano l’oscurantismo integralista viene applicato con lo stesso zelo di quando governavano l’intero paese. Semplicemente, i talebani “moderati” sono quelle frange disposte a trattare con Karzai per spartirsi il controllo del paese e con l’Occidente perché la NATO esca dall’Afghanistan.
1994 e 2021: i talebani sono diversi?
Negli anni successivi i talebani continuano la loro guerra di logoramento e, nel contempo, terrorizzano la popolazione. Nel frattempo, gli USA sono impegnati nella guerra con l’Iraq e di lì a poco il mondo sarà sconvolto dalle guerre in Libia e in Siria che fanno emergere un nuovo attore nel panorama dell’integralismo islamico, l’ISIS. Un attore che farà il suo ingresso anche nella scena afghana.
Mentre gli occhi del mondo sono catalizzati dagli orrori dell’ISIS in Siria, in Afghanistan i talebani controllano i tre quarti del paese. E quando nel febbraio 2020 si siedono al tavolo con i negoziatori USA in Qatar, quella che firmano non è un’intesa di pace, come viene pomposamente chiamata dall’amministrazione Trump, ma una via d’uscita per gli USA per l’evacuazione delle loro truppe dal paese entro l’agosto 2021 (termine precedentemente dato dall’amministrazione Obama).
A questo punto torniamo alla domanda iniziale: sono diversi i talebani tornati al governo di Kabul nel 2021 rispetto a quelli che avevano preso il potere nel 1994? Sicuramente sono più preparati alla gestione del potere e nell’utilizzo dei mezzi informatici, cosa che ha permesso loro, per esempio, di accedere facilmente ai database con le informazioni relative ai cittadini afghani (vedi pagina 7). Poi sono meglio equipaggiati militarmente: oltre ai finanziamenti diretti ricevuti da Pakistan e Arabia Saudita, i talebani sono entrati in possesso dell’arsenale americano lasciato sul territorio dopo la fuga da Kabul nell’agosto 2021. Il consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca, Jake Sullivan, ha confermato che i miliziani hanno preso possesso di un enorme arsenale del valore di miliardi di dollari: [5] dai veicoli militari Humvee ai fucili M4 e M16, fino a elicotteri Black Hawk e aerei A-29; anche se è probabile che abbiano difficoltà a utilizzare le armi più avanzate, rimane comunque una dotazione importante di armi “leggere” in loro possesso.
Ideologicamente invece sono sempre gli stessi e lo hanno dimostrato subito, ma sono meno coesi. Nella lotta per il potere emergono due fazioni principali, quella legata al mullah Abdul Ghani Baradar e quella che fa capo a Sirajuddin Haqqani. Il primo era il vice del mullah Omar, arrestato a Karachi nel 2010 e successivamente liberato su richiesta degli USA perché partecipasse ai colloqui di Doha fino alla firma dell’accordo del 2020. Il secondo è a capo della Rete Haqqani, un gruppo alleato dei talebani ma autonomo e molto vicino ad al-Qaeda; Sirajuddin è il figlio di Jalaluddin che fondò il proprio movimento durante l’occupazione sovietica grazie a un grosso trasferimento di armi e denaro da parte della CIA [6].
Infine, c’è l’incognita ISIS. Nel 2014 l’ISIS aveva avviato contatti con il gruppo Tehrik i Taliban Pakistan (TTP), i cosiddetti talebani pakistani aderenti alla corrente salafita e quindi molto vicini ad al-Qaeda. Questa relazione aveva dato vita all’ISIS-K (Stato islamico dell’Iraq e del Levante – Provincia di Khorasan) che si era radicata nelle aree orientali dell’Afghanistan, attaccando tanto il governo afghano quanto i talebani. Oggi l’ISIS-K, responsabile di continui attentati ed azioni di guerriglia, in particolare nella zona di Narganhar, sta reclutando tra le proprie fila ex combattenti che non si sentono adeguatamente remunerati dal nuovo governo per il loro passato impegno ed ex membri delle forze di sicurezza afghane desiderosi di sfuggire ai talebani. La polveriera Afghanistan è pronta a esplodere nuovamente.
Come è noto, nel 2021 l’Italia ha ospitato il G20. Nel luglio dello stesso anno si è tenuto a Reggio Calabria, il primo incontro degli L20, ovvero degli Ultimi 20 Paesi in base agli indicatori socio-economici. A questo primo incontro ne son seguiti altri e nell’ottobre del 2022 si è costituita l’Associazione L20 a cui hanno aderito e continuano ad aderire singole persone, associazioni, Ong, ecc. È stato quindi un Comitato scientifico e un gruppo di lavoro per redigere il secondo Report L20 con l’obiettivo di guardare il mondo dai “margini”, per leggere il mutamento – economico, sociale, ambientale e politico – da quest’altra faccia del nostro pianeta. Dare voce agli Ultimi, conoscere questi Paesi, la loro storia, cultura, e i loro bisogni emergenti.
Riportiamo qui il testo, scritto da Antonella Garofalo di CISDA, relativo all’Afghanistan. Chi desidera ottenere il Report completo, lo può ricevere via mail compilando il modulo pubblicato in calce all’articolo.
La situazione dell’Afghanistan, dopo due anni di regime talebano, è quella di un Paese allo stremo delle sue forze, impoverito e affamato.
Nessuno aveva creduto alle promesse dei talebani. Appena avevano riconquistato il potere con la presa definitiva di Kabul il 15 agosto 2021 dichiaravano di essere cambiati: avrebbero consentito alle ragazze di andare a scuola e lavorare. Promettevano addirittura di concedere libertà di espressione. Ma non era possibile fidarsi. In questi due anni sono spariti o sono stati uccisi giornaliste, giudici donne, soldati, medici e infermiere. Continuano a eliminare i loro oppositori e oppositrici politiche, seminando violenza e terrore in tutta la popolazione.
Il 90% della popolazione afghana è sotto la soglia di povertà, i 2/3 della popola- zione (quasi 20 milioni su 34 milioni di abitanti) hanno difficoltà enormi ad accedere a provviste alimentari di prima necessità.
È diminuito il tasso di occupazione anche per gli uomini, ma per le donne, spesso vedove, subire il divieto di lavorare significa non poter dare da mangiare ai propri figli.
Da settembre del 2021 sono stati emessi dai talebani oltre 50 editti che cancellano ogni diritto per le donne, a cui è preclusa la partecipazione sociale e politica e soprattutto l’accesso ai servizi di base indispensabili, sanitari, educativi e di lavoro. Nostre fonti nel Paese ci confermano che l’applicazione degli editti è del tutto arbitraria e le sanzioni sono comminate a discrezione dei talebani presenti al momento dei con- trolli e diversi a seconda dei luoghi in cui si trovano. Ciò quindi rafforza un clima di insicurezza costante, terrore e impunità.
I fondi arrivano al governo di fatto soprattutto da USA e ONU, giustificati dalla crisi umanitaria a causa della quale sono state sospese le sanzioni economiche con- tenute nella risoluzione 2615 del Consiglio di Sicurezza. E arrivano dalle TASSE imposte dai Talebani sui passaggi alla frontiera di merci e persone (compresa la vendita dei passaporti); sulle concessioni minerarie (contratti con Paesi come la Cina e la Russia); dalla vendita dell’oppio.
Su quest’ultimo tema, l’oppio, uno studio di David Mansfield (2021-2023) docu- menta una significativa riduzione della produzione di papavero, rilevata attraverso immagini satellitari di precisione. Nella provincia di Helmand, da cui veniva il 50% del prodotto, la coltivazione risulta diminuita del 99%. Questo dimostrerebbe che il bando promulgato dai talebani nell’aprile 2022 viene ora applicato, mentre in una prima fase i talebani avevano lasciato concludere il ciclo già avviato, tanto che nel novembre del 2022 gli esperti ONU (rapporto UNODOC) avevano rilevato un aumento della produzione di oppio del 32%.
Ci sono varie ipotesi di spiegazione di questo nuovo corso: zelo religioso? Conflitti interni di potere? Attirare assistenza allo sviluppo dalla comunità internazionale? Monopolizzare il commercio e manipolare i mercati? Abbiamo chiesto ai nostri contatti di riferimento in Afghanistan e sono molto scettici sulla possibilità che i talebani intendano ridimensionare la loro principale fonte di reddito, cioè produzione, raffinazione e commercializzazione dell’oppio: non possono farne a meno.
Nell’immediato, si paventa la perdita di 450.000 posti di lavoro a tempo pieno nel settore con conseguente nuova spinta migratoria.
Rilevante anche il nuovo aumento dei rifugiati interni, documentato dall’ONU: nel novembre 2022 sono stimati 5.9 milioni, di cui 68% per conflitti e violenze, 32% per disastri “naturali”, cioè dovuti ai cambiamenti climatici (siccità e alluvioni) e terremoti.
Negli ultimi rapporti ONU (Human Right ONU resolution 51/20; il report del UN High Commissioner for Human Rights presentato alla 52° sessione dell’Hu- man Right Council; il report specifico sulla “Situazione delle donne e delle ragaz- ze” pubblicato il 15/06/23 a firma dello stesso Special Rapporteur, Richard Bennet, A/HRC/53/21) rileviamo dati che confermano ampiamente quanto arriva dai no- stri contatti all’interno dell’Afghanistan. Viene chiaramente indicato come l’insie- me delle violazioni vada considerato pienamente “persecuzione di genere”, crimine contro l’umanità. E che come tale andrebbe perseguito. Le autorità di fatto talebane stanno infatti “normalizzando” le discriminazioni e la privazione sistemica dei diritti fondamentali delle donne e la violenza contro di loro in quanto donne.
È la conclusione a cui giunge anche il rapporto di Amnesty International, scritto con la Commissione Internazionale dei Giuristi, che chiede quindi al Tribunale Penale Internazionale di indagare, e ai singoli Paesi di utilizzare i propri strumenti legali per consegnare alla giustizia i criminali che dovessero transitare nel proprio territorio.
Interessante anche il giudizio molto esplicito espresso dal doc ONU del 15/06/23 di cui sopra: gli accordi di Doha deL2020 “exemplified the willingness of all actors to disregard women’s rights for the sake of political expedience” (“dimostrano la volontà di tutti gli attori di ignorare i diritti delle donne a beneficio della convenienza politica”) e sono stati assunti in modo non trasparente e non inclusivo.
Il CISDA continua a sostenere la resistenza delle attiviste di Rawa, l’Associazione Rivoluzionaria delle Donne Afghane e delle attiviste e degli attivisti di Hambastagi, il Partito della Solidarietà. Sono organizzazioni progressiste, democratiche, laiche e antifondamentaliste. RAWA è anche, e in primo luogo, un’organizzazione femminista attiva in Afghanistan da 46 anni, rimasta fedele all’impegno per la giustizia sociale inaugurato da Meena, la sua fondatrice, come azione centrale nella rivoluzione portata avanti fin dalle origini. RAWA è da sempre costretta a operare nella clandestinità.
Insieme a RAWA e HAMBASTAGI, CISDA sostiene dalla fine degli anni ’90 tutta una rete di associazioni e ong che si occupano di portare aiuto alle donne e alla popolazione e di difendere i diritti umani. Si tratta di organizzazioni che hanno una caratteristica fondamentale: sono composte per lo più da donne e sono guidate dalle donne.
Quello che le organizzazioni non governative afghane stanno facendo oggi è un vero slalom tra emergenza umanitaria, e divieti e arbitri imposti dalle autorità. CISDA denuncia il pericolo in cui, a causa dell’inasprimento della repressione in corso, incorrono in modo particolare proprio le operatrici e gli operatori di questa rete di associazione e ong locali costretti alla semi-clandestinità perché le loro attività sono considerate sospette. I talebani rastrellano le case, quartiere per quartiere, in particolare quelle di attiviste e attivisti e delle responsabili. Spesso hanno elenchi con i nomi, per andare a colpo sicuro. Anche le case delle lavoratrici e dei lavoratori delle ong della nostra rete sono state perquisite e loro sono state obbligate/i a cambiare spesso abitazione per non rischiare la vita, a distruggere documenti e a nascondere computer e telefoni.
Una delle attività maggiormente a rischio in ambito umanitario è quella dell’istruzione: i talebani, oltre a vietare l’accesso alle scuole per le bambine dai 12 anni, vogliono impedire l’istituzione di classi clandestine, una delle poche modalità per garantire oggi il diritto all’istruzione di bambine e ragazze e di poter accedere allo studio di materie scientifiche e alla lingua inglese, sfuggendo all’indottrinamento religioso che pervade quello che rimane dell’istruzione statale.
Ma anche tante altre attività realizzate da RAWA e HAMBASTAGI e dalle ong afghane che sosteniamo vengono ostacolate in tutti i modi: impossibile tenere aperta una casa protetta per le vittime di violenza, se non rendendola ancora più segreta e assolutamente non identificabile come quella che stiamo sostenendo dopo l’evacua- zione dello shelter di Kabul.
Sempre più difficile anche la distribuzione di cibo alle persone più bisognose: per poterla realizzare è necessario passare controlli e interrogatori inventandosi ogni genere di trucco per far proseguire i rifornimenti oltre i check-point, senza mettere a rischio operatrici/attivisti e derrate alimentari.
Ci sembra più che mai necessario dare voce a Belquis Roshan, senatrice nella Ca- mera alta del Parlamento afghano durante il precedente governo, costretta a lasciare il suo Paese e ora rifugiata in Europa, che il 26 agosto 2023, durante un incontro con Richard Bennett, il relatore speciale dell’ONU sulla situazione dei diritti umani in Afghanistan e i delegati alla prima sessione delle NU per discutere dell’”apartheid di genere” in Afghanistan, dichiara:
«Chiedere semplicemente ai talebani di riaprire scuole e centri educativi per donne è un obiettivo molto limitato. I talebani hanno trasformato il sistema educativo in una piattaforma fondamentalista e terroristica al fine di crescere i nostri bambini e ragazzi con una mentalità violenta e prepararli ad attentati suicidi, esplosioni e criminalità, e questo è un grave pericolo non solo per l’Afghanistan ma per tutto il mondo. Anche se le ragazze vi potessero andare, è preferibile non avere scuole del genere dove non vi sono elementi di progresso o conoscenza.
Le donne che protestano vengono attaccate, quindi le istituzioni internazionali dovrebbero essere la loro voce. Invece di sponsorizzare alcune lobbiste talebane che sono la causa di questa misera situazione, alle donne che combattono coraggiosamente in Afghanistan contro i talebani dovrebbe essere data l’opportunità di far sentire le loro urla pro-democrazia e di essere ascoltate.
L’”amnistia generale” dei talebani è una menzogna: stanno uccidendo ex dipendenti governativi, soprattutto nel settore militare e gli attivisti per i diritti umani. Si dovrebbe alzare la voce su questo.
Il mondo ha dimenticato l’Afghanistan. Il caso dell’Afghanistan, i diritti umani e la sua catastrofe umanitaria non dovrebbero essere lasciati incustoditi, gli atti terroristici e misogini dei talebani dovrebbero essere smascherati e il mondo ne dovrebbe parlare seriamente.
Bisogna trattare i talebani non come un governo legittimo ma come criminali le cui mani sono macchiate del sangue di innocenti afghani e come forza che cerca di fare dell’Afghanistan il centro del terrorismo e del fondamentalismo. Questo è il minimo che possiamo aspettarci dal mondo e dalle istituzioni per i diritti umani».
Si propone di tutelare i diritti umani in Afghanistan e di promuovere un’azione incisi- va per il sostegno alle realtà democratiche e antifondamentaliste che operano nel Paese.
La campagna si incentra su quattro temi principali:
Non riconoscimento del Governo dei talebani
Autodeterminazione del popolo afghano
Riconoscimento politico delle forze afghane progressiste e messa al bando di personaggi politici legati ai partiti fondamentalisti
Monitoraggio sul rispetto dei diritti umani
Stand Up With Afghan Women! nasce dalla collaborazione tra Cisda e Large Movements, con il sostegno della rivista Altreconomia nell’ambito della rete eu- ro-afghana di coalizione per la democrazia e la laicità, network di organizzazioni già impegnate a vario titolo nella loro azione quotidiana, per la difesa dei diritti umani.
L’unica via per le donne resta quella dell’autodeterminazione. Solo un governo democratico e laico può garantire al popolo afghano la sicurezza, l’indipendenza, l’uguaglianza di genere e la fine delle discriminazioni razziali. Come chiedono le attiviste afghane: “Aiutiamo a creare una coscienza politica afghana, aiutiamo le donne a sentirsi libere di pensare e dire quello in cui credono”.
Antonella Garofalo è un’attivista di CISDA
Il Report Last Twenty 2023 è il frutto di un lavoro collettivo, coordinato da Tonino Perna e Ugo Melchionda, rispettivamente Presidente e segretario dell’associazione L20 Aps. Hanno collaborato alla stesura di questo Report: Marco Ricceri, segretario generale EURISPES; Francesco Vigliarolo, Università Catòlica de la Plata, Cattedra UNESCO; Nadia Marrazzo, geografa, Università di Napoli Federico II; Valentino Bobbio, segretario generale NeXt; Antonella Garofalo, Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane, Simon Gomnan e Rondouba Brillant giornalista; Federica Faroldi, cooperante internazionale; Siid Negash, Coordinamento Eritrea Democratica; Paolo Massaro, delegato di Terre des Hommes per il Mozambico.
Per ricevere via mail il Report The Last 20 – 2023, compila il modulo sottostante:
In occasione delle celebrazioni per la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, il 25 novembre 2023, il Coordinamento Italiano a Sostegno delle Donne Afghane (CISDA), Large Movements Aps e AltrEconomia, insieme alle associazioni afghane Revolutionary Association of the Women of Afghanistan (RAWA) e Hambastagi (Partito della Solidarietà) inviano all’attenzione delle istituzioni italiane, europee e internazionali la petizione “Stand Up With Afghan Women”.
La petizione è stata lanciata un anno dopo il drammatico ritiro del 15 agosto 2021 delle truppe occidentali dall’Afghanistan seguito all’accordo di Doha tra Stati Uniti e Talebani, ed è una prima tappa della campagna di mobilitazione che vede coinvolte sugli stessi obiettivi 92 associazioni italiane ed europee insieme alle due organizzazioni afghane. I quattro obiettivi individuati nella petizione risultano oggi alla luce degli ultimi sviluppi ancora più pregnanti:
1) NON RICONOSCIMENTO DEL GOVERNO DEI TALEBANI
Malgrado le rassicurazioni formali da parte dei governi e delle istituzioni internazionali, assistiamo a un riconoscimento strisciante del governo di fatto che si traduce in supporto finanziario, attraverso rapporti bilaterali e contratti economici. Attualmente sono aperte a Kabul ambasciate di ben 15 paesi, tra cui Cina, India, Indonesia, Russia, Pakistan, Qatar, Arabia Saudita, Turchia, eccetera. Gli USA, attraverso la propria agenzia governativa per lo sviluppo USAID, hanno investito
825.9 milioni di dollari in Afghanistan solo nel 2023. Sotto forma di aiuti umanitari di emergenza, la UE ha stanziato, nel novembre 2023, 60 milioni di euro per assistenza all’interno del paese, che si aggiungono ai 94 milioni già stanziati quest’anno. L’ONU ha lanciato un piano che riguarda tutte le Nazioni Unite: richiede 4,62 miliardi di dollari per assistere circa 23,7 milioni di afghani all’interno del paese nel 2023. Un simile appello per il 2022 è stato poi finanziato solo per il 52%, con 321 milioni di dollari ricevuti a fronte dei 623 milioni richiesti. Si tratta di cifre ingenti benchè insufficienti di fronte alla gravità della catastrofe umanitaria. Ma la corruzione a tutti i livelli, carattere distintivo dell’epoca di occupazione Nato, si è perpetuata anche nell’era talebana. Alla popolazione arrivano ancora una volta le briciole, mentre la mancata costruzione di infrastrutture essenziali durante i 20 anni di occupazione occidentale vanifica ogni soccorso. Oltre a intascare la gran parte degli aiuti, il governo talebano investe le risorse nel potenziamento del proprio apparato repressivo, ai danni della popolazione che dovrebbe assistere.
2) AUTODETERMINAZIONE DEL POPOLO AFGHANO
La cancellazione dello stato di diritto, la negazione di ogni forma di partecipazione democratica, la violazione sistematica dei diritti umani, l’apartheid di genere, documentate anche da fonti autorevoli come l’ONU (Special Rapporteur R. Bennet, 9/02/23 e 15/06/23) rendono estremamente rischiosa ogni attività sociale e politica da parte dell’opposizione civile all’interno del paese. L’ingerenza negli affari interni delle potenze regionali e globali, che sostengono ognuna una qualche fazione fondamentalista all’interno o all’esterno della galassia talebana, allontana la possibilità per le organizzazioni democratiche di giocare un ruolo attraverso la politica dando rilievo invece agli attentati e alle azioni armate perpetrate dai fondamentalisti sedicenti “resistenza”. Chiediamo che gli Stati che sostengono milizie talebane o altri gruppi terroristici vengano sottoposti a sanzioni.
3) RICONOSCIMENTO POLITICO DELLE FORZE AFGHANE PROGRESSISTE
Le forze progressiste, quali Revolutionary Association of the Women of Afghanistan (RAWA) e Solidarity Party of Afghanistan – HAMBASTAGI, che sostengono i diritti e le donne quali parte attiva della società, devono essere riconosciute interlocutori politici dall’Unione Europea e dai governi nazionali in Europa. Le organizzazioni non armate continuano ad operare in clandestinità, e il fatto che vengano sistematicamente ignorate dalle istituzioni internazionali le rende più vulnerabili. Eppure attorno ad esse gravita una rete di attivisti per i diritti umani, composta da organizzazioni prevalentemente femminili, che ancora resistono e operano in tutte le province sviluppando progetti di resistenza civile (scuole segrete, sostegno umanitario, sostegno sanitario ecc.). Chiediamo che vengano sostenute.
Al contrario, i rappresentanti dei governi precedenti corrotti e fondamentalisti, che hanno goduto dei vantaggi dell’occupazione e sono stati evacuati in sicurezza, non devono avere ruoli di rappresentanza della popolazione afghana.
4) MONITORAGGIO SUL RISPETTO DEI DIRITTI UMANI
Dando seguito ai rapporti dell’Human Rights Council dell’ONU del 2023 sopra citati e alle indagini documentate di diverse agenzie internazionali, come Amnesty International e HRW, vanno accertate le responsabilità in materia di violazione dei diritti umani e crimini contro l’umanità perché ogni violazione venga portata all’attenzione della Corte Penale Internazionale. Le Autorità europee, in cooperazione con le agenzie dell’ONU, devono istituire un organismo di investigazione indipendente a cui partecipino attiviste e attivisti per i diritti umani afghani e internazionali. In particolare, va perseguito con determinazione il reato di apartheid di genere come da più parti invocato. L’espulsione forzosa dei rifugiati afghani dal Pakistan a cui assistiamo in queste settimane e le inammissibili procedure da parte degli Stati occidentali che impediscono con metodi burocratici l’accesso al diritto d’asilo a milioni di profughi, sono solo l’ultima violazione massiccia ai danni della popolazione afghana, ed espongono in modo particolare le donne a ulteriori gravissime violenze.
Hanno firmato la petizione, oltre alle 92 organizzazioni della società civile italiana ed europea, 2 organizzazioni afghane e più di 4.300 cittadini italiani, europei ed extra-europei.
Alcune istituzioni hanno deciso di manifestare direttamente il proprio sostegno alla Campagna e alla Petizione attraverso l’approvazione di mozioni: la Commissione Pari Opportunità del Comune di Imola, i Comuni di L’Aquila, Modena, Fano. Altri istituzioni locali, come ad esempio la Regione Toscana, la provincia di Siena, la città di Cesena, hanno espresso la loro solidarietà in diverse forme.
Dopo la consegna delle firme ai destinatari della petizione, la campagna rimane attiva: un’inversione di tendenza in direzione dell’affermazione dei diritti universali, e delle donne in special modo, esige un impegno congiunto, solidale e duraturo. Per questo continueremo a coinvolgere la società civile, le forze sociali e politiche, e ad esercitare ogni pressione, richiamando con forza le istituzioni al loro ruolo di garanti dei diritti.
FIRMATO
C.I.S.D.A. ETS, LARGE MOVEMENTS APS, ALTRECONOMIA, RAWA, HAMBASTAGI
On the occasion of the International Day for the Elimination of Violence against Women, on 25
November 2023, the Italian Coordination in Support of Afghan Women (CISDA), Large Movements Aps and Altreconomia, together with the Afghan associations Revolutionary Association of the Women of Afghanistan (RAWA) and Hambastagi (Solidarity Party) are addressing a petition to the attention of Italian, European and international institutions.
The petition has been launched a year after the dramatic withdrawal of Western troops from Afghanistan on 15 August 2021 which was the result of the Doha Agreement between the United States and the Taliban. The petition is the first stage of a mobilization campaign that involves 92
Italian and European associations and focusses on objectives shared with the two Afghan organizations. The four objectives identified in the petition are more significant than ever in the light of the latest developments:
1) Non-recognition of the de facto Taliban government
Despite formal assurances from governments and international institutions, we are witnessing a creeping recognition of the de facto government that translates into financial support through bilateral relations and economic contracts. Embassies of 15 countries are currently open in Kabul, including China, India, Indonesia, Russia, Pakistan, Qatar, Saudi Arabia, Turkey, etc.
The US, through its government development agency USAID, invested $825.9 million in Afghanistan in 2023 alone. In the form of emergency humanitarian aid, the EU allocated € 60 million in November 2023 for assistance within the country, in addition to other € 94 million already allocated for the same year. The UN has launched a plan that affects all the members of the United Nations: it requires $4.62 billion to assist about 23.7 million Afghans inside the country in 2023. A similar call for 2022 had been financed only by 52%, with $321 million received against the $623 million requested. These figures, although large, are insufficient in view of the gravity of the humanitarian disaster. But corruption at all levels, a distinctive feature of the era of the NATO occupation, has also continued in the Taliban era. Once again, only crumbs are coming to the population, while the failure to build essential infrastructure during the 20 years of Western occupation defeats all the help. In addition to pocketing most of the aid, the Taliban government is investing resources in strengthening its repressive apparatus, to the detriment of the population they are supposed to assist.
2) Self-Determination Of The Afghan People
The cancellation of the rule of law, the denial of any form of democratic participation, the systematic violation of human rights, and gender apartheid, documented also by authoritative sources such as the UN (Special Rapporteur R. Bennet, 9/02/23 and 15/06/23) make extremely risky every social and political activity carried out by the civil opposition in the country. The interference in internal affairs by regional and global powers, each supporting one or another fundamentalist faction within or outside the Taliban galaxy, prevents democratic organizations from playing a role through politics. It emphasizes instead the attacks and armed actions perpetrated by the so-called “resistance” fundamentalists. The petition demands that sanctions are imposed on states supporting Taliban militias or other terrorist groups.
3) Political Recognition Of Progressive Afghan Forces
Progressive forces, such as the Revolutionary Association of the Women of Afghanistan (RAWA) and The Solidarity Party of Afghanistan – HAMBASTAGI, who support human rights and stand up for women, must be recognized as political interlocutors by the European Union and national governments in Europe. The fact that they are systematically ignored by international institutions makes them more vulnerable. Yet they are surrounded by a network of human rights activists, composed mainly of women’s organizations, who are still resisting and working in all the provinces, developing projects of civil resistance (secret schools, humanitarian support, health support, etc.). We demand that they are supported. On the contrary, representatives of previous corrupt and fundamentalist governments, who have enjoyed the benefits of the occupation and have been safely evacuated, must not be acknowledged as representative of the Afghan population.
4) Supervising Respect For Human Rights
Following the reports of the UN Human Rights Council of 2023 cited above and the documented investigations of several international agencies, such as Amnesty International and HRW, the responsibility for human rights violations and crimes against humanity must be ascertained so that any violation is brought to the attention of the International Criminal Court. The European authorities, in cooperation with UN agencies, must establish an independent investigative body involving Afghan and international human rights activists. In particular, the crime of gender apartheid, as advocated by many quarters, must be pursued with determination. In recent weeks, we have witnessed forced expulsions of Afghan refugees from Pakistan, and the unacceptable procedures by Western states, which use bureaucratic stratagems to prevent millions of refugees from gaining access to the right of asylum: these are only the latest massive violations of human rights that affect the Afghan population, and they expose especially women to further serious risks of violence.
The petition has been signed by 92 Italian and European civil society organizations and 2 Afghan organizations, and by more than 4,300 Italian, European and non-European citizens.
Some institutions such as the Equal Opportunities Commission of the Municipality of Imola, the Municipalities of L’Aquila, Modena, Fano, have decided to directly demonstrate their support for the Campaign and the Petition by passing motions. Other local institutions, such as the Tuscany Region, the province of Siena, the city of Cesena, have expressed their solidarity in different forms.
After handing over the collected signatures to the petition recipients, the campaign remains active: a reversal of the trend towards the realization of universal rights, and women rights in particular, requires a joint, supportive and lasting commitment. This is why we will continue to involve civil society, social and political forces, and to exert all pressure, strongly calling the institutions to their role as guarantors of rights.
Signatures: CISDA ETS, LARGE MOVEMENTS APS, ALTRECONOMIA, RAWA, HAMBASTAGI
On December 4th at 6pm the online meeting of the promoting Associations
Di seguito riportiamo l’intervento di Francesca Patrizi, attivista CISDA.
Il Cisda, Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane, nasce nel 1999 da un incontro tra attiviste italiane e attiviste afgane appartenenti all’associazione RAWA (Associazione Rivoluzionaria delle Donne Afgane), che in quel momento aveva già alle spalle una storia ventennale. Infatti, era stata fondata nel 1977 a Kabul da Meena, una coraggiosissima donna afgana assassinata nel 1987 per mano di islamisti, probabilmente legati al partito di Hekmatyar in combutta con il KGB sovietico.
Fin dalla sua nascita RAWA si è posta un duplice obiettivo: la liberazione della donna nella società afgana, all’interno di un processo di autodeterminazione del popolo afgano. Le compagne di RAWA hanno da sempre lottato per costruire un Afghanistan unito (al di là cioè delle differenze etniche sottolineate e strumentalizzate da chi, dall’interno o dall’esterno del paese, vuole dominare attraverso la politica del DIVIDE ET IMPERA), laico, democratico ed egualitario. Per questo motivo sia RAWA che Hambastagi (un partito politico, il Partito della Solidarietà, con il quale RAWA ha sempre condiviso l’obiettivo politico precedentemente esposto) non hanno mai sostenuto nessuna delle formazioni di governo che si sono avvicendate nel corso dei venti anni di occupazione NATO, dal 2001 fino alla restituzione del paese ai Talebani da parte degli Stati Uniti, avvenuta il 15 agosto 2021.
Da quando è stata fondata RAWA, cioè dalla fine degli anni settanta, ad oggi, il contesto afgano ha attraversato diverse vicissitudini fino ad arrivare all’Afghanistan attualmente governato dal regime dei Talebani e segnato da un inasprimento delle condizioni di vita della popolazione. È importante però sottolineare che, a dispetto di quanto ci veniva mostrato dai media mainstream e da quanto ci volesse far credere la politica internazionale, neanche durante i governi precedenti, quelli sostenuti dall’alleanza NATO, l’Afghanistan ha vissuto situazioni idilliache, ovvero contrassegnate da sviluppo economico e sociale e liberazione della donna. Come già accennato, attualmente la situazione si fa ogni giorno più drammatica. La popolazione versa in una condizione di povertà estrema, recentemente aggravata dagli eventi sismici che hanno duramente colpito lo scorso ottobre la provincia di Herat. Le compagne di RAWA sono riuscite a raggiungere le zone colpite dal terremoto per portare soccorso e hanno denunciato l’incapacità del governo nel gestire l’emergenza, ma anche il disinteresse del governo attuale e dei precedenti in una politica del territorio avente come obiettivo lo sviluppo delle aree periferiche e rurali.
Ad aggravare il contesto agisce l’instabilità politica. Il potere è conteso tra gruppi esterni ai Talebani, come per esempio i militanti dell’Isis che sta proliferando nel paese e mostra la sua presenza attraverso attentati rivolti contro la popolazione, e le diverse correnti interne ai Talebani stessi, i quali non sono un fronte compatto come ci vengono solitamente presentati. Un esempio della spaccatura interna e dell’instabilità politica può essere fornito dalla presa di posizione del governo talebano nei confronti di Hamas a seguito di quanto sta avvenendo in Palestina. Infatti, il ministro dell’Interno, Sirajuddin Haqqani, avrebbe dichiarato un appoggio formale dettato da “una simpatia basata sulla fede nei confronti dei musulmani” ma senza l’impegno di un intervento diretto, dichiarazione che avrebbe destato malumori in molti amministratori locali e dettata probabilmente dal timore delle conseguenze che un intervento diretto potrebbe comportare sul già instabile tessuto politico interno.
A fare le spese di questa drammatica situazione sono in particolare le donne. Sono noti i divieti emessi dal governo talebano nei confronti delle donne nel corso di questi due anni. A leggerli, alcuni fanno anche sorridere, come per esempio il divieto di frequentare parchi e ristoranti. Se però li mettiamo insieme emerge la volontà di estromettere la donna dagli spazi della vita pubblica per relegarla al contesto claustrofobico della vita domestica. Questo obiettivo è raggiungibile colpendo prima di tutto quei settori che favoriscono il processo di liberazione della donna, ovvero istruzione e lavoro. Alla donna sono preclusi sempre più settori lavorativi; alle ragazze è stato interdetto l’accesso sia all’università che alla scuola oltre la sesta classe. Il fatto che la donna sia privata di una socialità al di fuori delle mura domestiche ha un impatto grave anche sulla sua salute. Non solo infatti le donne sono le maggiormente colpite da un sistema sanitario al collasso e sempre più affidato in gestione a medici e infermieri che, in quanto maschi, non possono visitarle, ma questa reclusione ingenera importanti disturbi psichici, quali depressioni e alterazioni del sonno. Fin dalla nascita le compagne di RAWA, per perseguire gli obiettivi politici che si sono poste e attraverso una rete di associazioni a loro supporto, hanno attivato progetti nell’ambito dell’assistenza socio – sanitaria a donne e bambini. Ovviamente questi progetti sono condizionati dal contesto, sia perché è la realtà afgana che determina le priorità sia perché l’attualità impone frequenti riorganizzazioni, come è accaduto segnatamente negli ultimi due anni. I settori di intervento, in particolare istruzione e lavoro, non sono cambiati così come non è cambiata la condizione di clandestinità nella quale RAWA ha sempre agito (dalla nascita fino ad ora), ma i progetti in corso sono stati chiusi o riformulati. Questo è avvenuto ad esempio con gli shelter, i primi a subire pressioni e ritorsioni da parte del nuovo governo; le donne ospitate sono state costrette a tornare all’interno della violenza domestica e le avvocate che le difendevano, in alcuni casi, sono state anche incarcerate. Consapevoli che la protezione nei confronti delle donne che subiscono violenza sia un atto necessario, le compagne afgane hanno pensato di organizzare delle case – rifugio che possano accogliere un numero esiguo di donne e dei loro bambini, avendo così meno visibilità di uno shelter. Dopo la proibizione per le ragazze di frequentare la scuola oltre la stessa classe, hanno deciso di istituire dei corsi per numeri ridotti di studentesse dai 13 ai 18 anni e per contrastare l’isolamento, che stanno subendo le donne e che ha un impatto particolarmente violento sulle ragazze, delle case-famiglia dove le ragazze, non solo possono frequentare corsi scolastici, ma possono trovare anche degli spazi di relazione. Lo stesso avviene per i progetti in ambito lavorativo, i quali, oltre ad avere lo scopo di fornire una professione e un’entrata economica per famiglie in una situazione di grave disagio sociale, servono a contrastare l’isolamento mettendo le donne nella condizione di incontrarsi. Questo avviene con il progetto “Giallo fiducia” che, avviato nel 2017, riguarda la coltivazione di zafferano nella provincia di Herat e i corsi di sartoria, istituiti nell’anno in corso. Invece, nell’ambito sanitario, il centro aperto a Farah nel 2010 negli ultimi mesi è stato trasformato in una clinica mobile sia perché più facilmente si riesce a fuggire dalla repressione del governo sia perché in questo modo è possibile raggiungere diverse zone del paese, anche i villaggi più sperduti. Infine, si provvede alla distribuzione di pacchi alimentari, anche in questo caso cercando di muoversi nel paese il più possibile, per portare approvvigionamenti a famiglie che altrimenti non avrebbero cibo.
Il Cisda, in collaborazione con le compagne afgane, sostiene i progetti descritti ai quali si aggiungono “Vite Preziose” e “Staffetta femminista”, finalizzati alla sponsorizzazione di singole situazioni di donne uscite dal circuito della violenza domestica. Anche per il Coordinamento, come è per RAWA, il sostegno ai progetti è importante non soltanto per il valore sociale che essi rivestono ma in quanto occasione di divulgazione del pensiero politico per il quale le compagne di RAWA si battono e sul quale ci siamo incontrate. È per questo che agli inizi del 2022, a seguito di un confronto con RAWA e Hambastagi, abbiamo aperto una petizione (che si chiuderà in occasione del 25 novembre prossimo) per chiedere, al governo italiano e a quelli europei, di non riconoscere il governo dei Talebani, di supportare le organizzazioni laiche e progressiste, di promuovere l’autodeterminazione del popolo afgano e di monitorare il rispetto dei diritti umani. Di recente abbiamo pubblicato un Dossier con lo scopo di descrivere, toccando diversi temi, la situazione attuale dell’Afghanistan in modo approfondito e documentato.
Nonostante tutto quello che si fa e che è stato descritto, soprattutto in questi ultimi due anni, è capitato di sentirsi impotenti rispetto a una situazione di estrema emergenza, in continua involuzione e all’interno della quale le compagne sono costrette a vivere nel timore di persecuzioni nei loro confronti e delle loro famiglie. In passato il Cisda, ogni anno, si recava in Afghanistan con una delegazione che era anche un’occasione per manifestare il sostegno attraverso la propria presenza; questo oggi non è possibile. E quindi, ogni volta che ne abbiamo avuto occasione, in questi due anni abbiamo domandato alle nostre compagne che cosa possiamo fare. La risposta è stata sempre la stessa: “Dite che esistiamo e che continueremo a resistere fino a raggiungere l’obiettivo di vivere come donne libere in un paese libero.”