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Hayra, Bamjan

Ho 45 anni e sono di Bamjan. Sono stati i bombardamenti americani sul nostro paese, nel 2001, a portar via i piedi a mio marito. Gli hanno danneggiato gravemente anche le gambe e non può più camminare. Si sente inutile e ha sempre bisogno di medicine.
Da allora sono io a mantenere la famiglia. Faccio il pane per il mio quartiere, il nan, è molto buono. Ma i soldi se ne vanno quasi tutti per le cure di mio marito.
Non ne ho più abbastanza per mandare a scuola le mie due figlie.
Ho dovuto ritirarle, con la morte nel cuore. So bene che l’istruzione è la sola porta che hanno per entrare in un futuro migliore. Mi sento in colpa verso di loro, vorrebbero tanto andare a scuola. E invece devono aiutarmi nel lavoro, da sola non ce la faccio. Sono molto stanca di questa vita, a volte sono disperata e mi viene il pensiero di farla finita.
Ma poi vedo il sorriso delle mie ragazze e dimentico tutta la fatica. Avrei bisogno di un aiuto perché potessero finire i loro studi. Vorrei vederle ogni giorno con i libri sotto braccio, avviarsi verso il loro futuro, migliore del mio. Ne sarei davvero felice, nonostante tutto.

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La speranza ritorna con l’aiuto di Christiane che la segue per molti anni. Da sola non ce la farebbe, con il pane guadagna due dollari al giorno. Non può cercare un lavoro lontano da casa per non lasciare solo il marito disabile. Le figlie ora possono tornare a scuola, ’per noi donne, l’unica strada verso la libertà’ così dice Hayra.
È molto orgogliosa dell’aiuto di Christiane. La sua vita continua a essere difficile. Prova a vendere anche uova bollite perché il prezzo della farina è salito e guadagna troppo poco con il pane. Ha spesso momenti di sconforto ma continua a combattere giorno dopo giorno per il futuro delle sue figlie.
Poi, decidono una svolta nella loro vita. Hayra lascia Kabul con i figli e il marito disabile e torna nella sua città natale, Bamyan. Ecco come lo racconta: ‘Quando abbiamo preso la decisione di lasciare Kabul abbiamo condiviso il progetto con i nostri figli. All’inizio erano molto tristi di partire. Ma io gli ho spiegato che era necessario, per i problemi economici della nostra vita, per la disabilità del padre e, soprattutto, per le terribili condizioni di sicurezza della capitale. Eravamo molto spaventati dai quotidiani attentati.
Così, alla fine, hanno capito. Adesso, qui a Bamyan, siamo felici.
Viviamo vicino ai nostri parenti e lontano da Talebani e Isis e dai loro continui sanguinosi attacchi. Ho trovato anche qui un lavoro simile a quello che avevo a Kabul. E anche se quello che guadagno non è sufficiente, è poco, io sono ok moralmente, affronto le difficoltà con l’aiuto della mia sponsor e sorella e non sono preoccupata per il futuro dei miei figli.’
Ma la zona di Bamyan è una delle più povere del paese anche se relativamente sicura. Le condizioni economiche sono difficili. Anche qui cuoce il pane ma lo fanno tutti e non ha i mezzi per proporsi agli alberghi. Sta cercando un lavoro migliore. Ma intanto i figli continuano la scuola e questo è la parte più importante del suo sogno.

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Una storia del progetto Vite preziose.

La fotografia è di solo carattere grafico e non rappresenta la donna protagonista della storia. Data la attuale situazione in Afghanistan, per evitare l’identificazione delle donne i nomi sono stati modificati, così come i luoghi dove si svolgono i fatti.

 

 

 

 

Habeba, Kabul

Ho 35 anni e sono di Kabul. 12 anni. È a questa età che l’infanzia finisce per le donne. Non si può dire “una vita nuova” quando ci sposano. Non si può chiamare vita. È un’altra cosa, una guerra forse, ma disarmate. Lui aveva 22 anni. L’ha scelto mio padre, naturalmente. Ha scelto proprio bene. Non era normale, di testa. Malato di mente, così si dice.
La furia sempre dietro agli occhi. Dovevo stare molto attenta, spiare i gesti, i segni premonitori della sua rabbia. Mi picchiava, ogni giorno, per sciocchezze, una ragione la trovava sempre. Non lavorava, non faceva niente. Quando gli chiedevo di cercare un lavoro, perdeva proprio la testa.
Ma non c’era soltanto lui. Mia suocera e le cognate si inventavano sempre qualche colpa, qualche cosa di sbagliato che avevo fatto. Anche loro trovavano sempre un motivo per picchiarmi. Forse così si sfogavano di quello che avevano subito. Quattro anni sono passati così e due figli sono arrivati. So cucire bene, facevo questo per trovare un po’ di soldi per i bambini. Un giorno, a furia di botte, mi ha cacciato fuori di casa.
Mi ha lasciato lì in mezzo alla strada. Sono andata da mio padre, ho pensato che mi avrebbe protetto, che avrebbe capito. Forse perfino si sarebbe pentito di avermi dato a quell’uomo.
Mi sbagliavo. Non mi ha fatto nemmeno entrare. Mi ha detto che quella ormai non era più la mia casa, che io appartenevo alla famiglia di mio marito e che dovevo restare con lui, qualunque cosa mi facessero. Mi ha riportato nella mia prigione. Ma mio marito, regolarmente, mi cacciava di nuovo. A volte ero io a scappare. Andavo dai parenti, ma il più delle volte restavo in strada.
È un posto pericoloso ma è meglio di casa mia. Alla fine tornavo da lui, lì c’erano i miei figli. Col tempo, mio marito è diventato completamente pazzo e mio cognato lo ha internato in un ospedale. Non c’è stato molto, è scappato, sparito da tre anni. Io intanto sono scappata di nuovo ma questa volta sapevo dove andare. Una vicina mi ha parlato della casa protetta. Adesso vivo qui con il mio bambino più piccolo. Il maggiore me lo ha preso mio cognato.
Lui e mio padre vanno spesso da Hawca per convincermi a tornare a casa. Adesso promettono che nessuno mi farà del male ma io ho paura e ascolto la mia paura. Non lo farò mai. Tutto sarebbe di sicuro come prima. Intanto voglio guarire, stare bene. Ho molti problemi fisici per quello che mi hanno fatto. Poi vorrei vivere per conto mio con mio figlio, lavorare per me e per lui, farlo studiare. Perché diventi un uomo migliore di suo padre e del mio.

Aggiornamenti

Habeba trova rifugio nello Shelter di Hawca portandosi dietro tutte le sue ferite.
È di Kabul, ma anche qui, nella capitale, le vite di molte donne sono nelle mani di uomini, violenti, drogati o pazzi che ne fanno quello che vogliono. Sotto i burka azzurri, che scivolano silenziosi per le strade della città, si nascondono storie come la sua. Al sicuro, la paura, pian piano sbiadisce. Il piccolo va a scuola ma Habeba vorrebbe con sé anche il maggiore, rimasto ostaggio dello zio. Vengono tutti, cognati, padre, fratelli, tutti a chiedere che torni a casa a promettere pace.
Ma Habeba non varcherà mai più la porta di casa sua, conosce l’incubo. Fiorenza e un gruppo di amiche di Pavia si prendono cura di lei per anni. Ora se ne occupa Beatrice, di Milano. Sta meglio, va a vivere con il fratello, adesso che può mantenersi, e combatte, insieme alle sue avvocate, per ottenere il divorzio, fronteggiando le minacce della famiglia.
Il fratello la sostiene e questa è una grande fortuna qui. Il figlio è bravo a scuola e molto affettuoso. Ma il maggiore non l’ha mai più rivisto.
Finalmente, dopo tante battaglie, arriva il sospirato divorzio. Continua a vivere con il fratello che l’aiuta e cuce vestiti per tutto il quartiere. È una brava sarta.

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Una storia del progetto Vite preziose.

La fotografia è di solo carattere grafico e non rappresenta la donna protagonista della storia. Data la attuale situazione in Afghanistan, per evitare l’identificazione delle donne i nomi sono stati modificati, così come i luoghi dove si svolgono i fatti.

 

 

Fatoma, Herat

Ho 12 anni e vivo ad Herat. La mia famiglia è povera ma ci vogliamo bene.
Mio padre ha un piccolo negozio e mia madre è casalinga. Il problema sono io, o meglio il mio cuore. Pare che abbia un buco. Mi fa stare male e non mi fa crescere come gli altri.
Mio padre le ha provate tutte. Mi ha portato da molti medici ma ognuno diceva il contrario dell’altro.
Alla fine, con l’aiuto dei miei parenti, è riuscito a portarmi al FMC Hospital. Lì hanno capito di che malattia si trattava, appunto il buco nel cuore. Serve un’operazione ma costa molto.
Mio padre mi ha anche registrato alla Croce Rossa. Ma in due anni nessuno si è fatto vivo. Così era sempre più disperato.
Ha saputo del centro legale di Hawca e si è presentato a raccontare la mia storia. Certo non era il posto giusto, non è di questo che si occupano. Ma proveranno ad aiutarci lo stesso a trovare i soldi per l’operazione. Mio padre intanto, che ha la testa molto dura, continua a sperare di risparmiare abbastanza per portarmi all’estero a operarmi. Per questo, a volte, mangiamo solo un po’ di pane secco per tutto il giorno. Ma anche con questi sacrifici non credo che ce la possa fare.
Così aspettiamo quello che succederà…

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Quando Fatoma entra nel progetto ritrova la speranza. Con alcune donazioni comincia a curarsi e a mangiare meglio.
Poi, nella sua vita, entrano Luciana e Giovanni che continuano a seguirla per molti anni, fino ad ora, con il loro sostegno economico e con il grande affetto di cui sono ricchissimi.
‘Con il loro sostegno economico e la loro presenza nella mia vita, dice Fatoma, una porta si è aperta, per me e per i miei genitori, sul mio futuro, e la speranza di guarire e di vivere come le altre ragazze.’ Riescono a raccogliere perfino, tra i loro amici, 2500 euro per l’operazione.
La sua malattia è grave e difficile da guarire e Fatoma è curata da diversi medici. Va spesso in Pakistan, come fanno tutti qui, data la scarsa efficienza degli ospedali afghani. Pian piano, tra alterne vicende, sta meglio, può mangiare cibi sani, cosa importante per lei, e può scaldarsi nei gelidi inverni di Kabul. Cresce e va a scuola È molto brava ma fa fatica per la sua debolezza.
Quando deve stare a casa studia privatamente con molto impegno. Non vuole restare indietro. Quando i suoi sponsor sanno che le farebbe bene fare dello sport, la sostengono anche per la palestra che le dà molta energia.
È curata adesso nel nuovo Centro Cardiologico appena aperto a Kabul, un ospedale più moderno e affidabile.

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Una storia del progetto Vite preziose.

La fotografia è di solo carattere grafico e non rappresenta la donna protagonista della storia. Data la attuale situazione in Afghanistan, per evitare l’identificazione delle donne i nomi sono stati modificati, così come i luoghi dove si svolgono i fatti.

 

Comunicato stampa: Nobel per la pace a Riace

Siamo una rete di organizzazioni della società civile, NGO e Comuni che vogliono promuovere una Campagna a favore dell’assegnazione del premio Nobel per la pace 2019 a Riace, il piccolo Comune calabrese che invece di rinchiudere i rifugiati in campi profughi li ha integrati nella sua vita di tutti i giorni.

Riace è conosciuta in tutta Europa per il suo modello innovativo di accoglienza e di inclusione dei rifugiati che ha ridato vita ad un territorio quasi spopolato a causa dell’emigrazione e della endemica mancanza di lavoro. Le case abbandonate sono state restaurate utilizzando fondi regionali, sono stati aperti numerosi laboratori artigianali e sono state avviate molte altre attivitàà che hanno creato lavoro sia per i rifugiati che per i residenti.

Nel 2018 il Sindaco di Riace, Domenico Lucano, è stato arrestato, poi rilasciato, sospeso dalla carica e infine esiliato dal Comune con un provvedimento di divieto di dimora per “impedire la reiterazione del reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina”. Un provvedimento che rappresenta un gesto politico preceduto dal blocco nel 2016 dell’erogazione dei fondi destinati al programma di accoglienza e inserimento degli immigrati, che lasciò Riace in condizioni precarie.

Gli atti giudiziari intrapresi nei confronti del Sindaco Lucano appaiono essere un chiaro tentativo di porre fine ad una esperienza che contrasta chiaramente con le attività dei Governi che si oppongono all’accoglienza e all’inclusione dei rifugiati e mostrano tolleranza in casi di attività fraudolente messe in atto nei centri di   accoglienza di tutta Italia e in una Regione dove il crimine organizzato – non di rado – opera impunemente.

Supportare la nomina del Comune di Riace per il Nobel della pace è un atto di impegno civile e un orizzonte di convivenza per la stessa Europa.

Le organizzazioni che volessero sostenere la nostra proposta, troveranno il modulo al seguente link:

Le persone singole che volessero aderire dovranno collegarsi al seguente link:

Il modulo va compilato in ogni sua parte e spedito cliccando su Invia.

Il Comitato promotore:

Re.Co.Sol – Rete dei Comuni SolidaliMunicipio Roma VIII; Comunità di base San Paolo; LeftArci Nazionale, Arci Roma, Comuni Virtuosi; CISDA, Noi siamo ChiesaISDEAIEA Onlus- Associazione Italiana Esposti AmiantoMedicina Democratica Onlus, Festival Villa Ada Roma Incontra Il Mondo; Tavola della Pace; Rete CinEst; Movimento Europeo Italia; Forum Italo Tunisino per la Cittadinanza Mediterranea; CBC Costituzione Beni Comuni, Scup Sport e Cultura Popolare.

Indagine sui crimini di guerra in Afghanistan da parte della Corte penale internazionale (ICC)

Il 3 novembre 2017 la Corte Penale Internazionale (ICC) ha rilasciato una dichiarazione per esprimere la sua posizione sulle indagini sui crimini di guerra in Afghanistan. Questo è il primo passo da quando l’Afghanistan è diventato Stato membro della Corte Penale Internazionale nel 2003.

Anche se questa può sembrare una buona notizia per le famiglie delle vittime e può avere piccoli effetti sui sogni dei criminali, la Corte può focalizzarsi solo sui crimini commessi nel paese dopo il 2003. Ancora una volta i violatori dei diritti umani e i criminali degli ultimi quattro decenni, che sono al potere, non saranno perseguiti per i loro crimini.

Senza dubbio, la serie di crimini degli ultimi quattro decenni in Afghanistan non hanno solo connessioni tra loro, ma tutti gli autori sono dalla stessa parte contro il nostro popolo e continuano le loro atrocità . I lacché russi Khalqi e Parchami hanno assassinato migliaia di compatrioti nei loro mattatoi, come confermato dalla recente pubblicazione di una “Dead List” con i nomi di 5000 vittime che testimonia i loro crimini. Le fazioni jihadiste hanno distrutto tutti i nostri beni materiali e spirituali. Hanno ucciso più di 65000 persone solo nella capitale Kabul. Eppure gli abitanti di Kabul e tutto il paese non hanno dimenticato i giorni neri del governo di queste fazioni e le loro brutalità. E infine, il selvaggio regime dei talebani, ha raccolto questa eredità  e possiamo ancora vedere la loro inarrestabile barbarie nell’uccidere la nostra gente.

Tenendo conto di questi fatti, se la Corte Penale Internazionale non vuole o non è in grado di considerare questi fatti, allora la maggior parte dei crimini di guerra in Afghanistan degli ultimi tre periodi sarà  dimenticata e i loro perpetratori che sono al potere in questo momento, non saranno perseguiti e potranno continuare facilmente a commettere altri crimini. In questo caso, la giustizia sarà  sacrificata per gli affari politici e la burocrazia delle organizzazioni richiedenti giustizia. Nonostante ciò, possiamo ancora trarre vantaggio da questa posizione della Corte Penale Internazionale nel perseguire i trasgressori dei diritti umani e i criminali dal 2003, perché gli autori di reati durante questo periodo sono gli stessi governanti dei periodi precedenti o che hanno profondi legami con loro. Il bombardamento e il massacro della nostra gente da parte degli Stati Uniti-NATO, le esplosioni causate dai talebani e dall’ISIS e gli attacchi suicidi possono costituire la maggior parte dei crimini di questo periodo. Inoltre, i crimini commessi da Gulbuddin Hekmatyar e da altri gangster di fazioni che ora operano sotto il nome di “Arbaki” o “Polizia locale” possono essere considerati parte di questo periodo.

L’Associazione SAAJS ritiene che; solo con la continua pressione delle famiglie delle vittime, delle istituzioni che si schierano per una reale ricerca della giustizia e degli individui che amano la libertà, potremo perseguire i criminali e i loro sostenitori. Nessuna istituzione potrà ottenere risultati se non sotto la pressione dalle legittime richieste della gente.

Associazione SAAJS (Associazione sociale per la ricerca della giustizia in Afghanistan).

Comunicato stampa di Malalai Joya

dalla pagina facebook di Malalai Joya

Il nostro popolo è stanco di sentire parole di “condoglianza”, “dolore” e “condanna”, specialmente perché queste parole arrivano proprio dai principali sospetti dell’attuale situazione di miseria del paese. Invece di esprimere parole di condoglianza, dobbiamo unire le nostre forze e lottare per uscire da questo orrore, non abbiamo altro modo per uscire da questa situazione disastrosa!

Con l’annuncio della “Nuova Strategia Americana per l’Afghanistan”, il cui messaggio principale è solo una escalation della guerra e del crimine nel nostro paese, siamo stati testimoni di uno spargimento di sangue senza precedenti in Afghanistan, le cui vittime sono solo poveri e miserabili civili.

Non un solo soldato dell’occupante USA, nessuno dei loro burattini e nessuno dei loro parenti è stato ucciso. Il sangue di centinaia di nostri connazionali innocenti non ha turbato le coscienze dei funzionari governativi, degli intellettuali che dormono, di tutti coloro che accolgono e accettano questa strategia. I sanguinari attentati degli ultimi giorni a Ghazni, Paktia, Kandahar, Kabul, Ghor e altre province, hanno dimostrato mille volte che i sanguinari talebani, questi burattini in mano a forze straniere, faranno di tutto per realizzare i piani dei loro padroni e non ci risparmieranno orrore e oppressione.
Chiamarli “fratelli”, dividerli tra “moderati” ed “estremisti”, invitarli a “colloqui di pace” porterà peggiori conseguenze, quelle che si possono aspettare da elementi disonesti, sporchi e impopolari.

Gli attacchi brutali alle moschee sciite sono il frutto delle politiche diaboliche del Pakistan, dell’Arabia Saudita, degli Stati Uniti, per alimentare le divisioni religiose nel nostro paese e spingerlo ulteriormente verso l’instabilità. Con la solidarietà tra le religioni e tutti i gruppi etnici possiamo colpire i nostri nemici nazionali e fare fallire le loro politiche diaboliche. E fortunatamente la solidarietà del nostro popolo con le vittime di questi tragici eventi, dimostrano la consapevolezza dei nostri compatrioti.