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In difesa delle vittime degli assalti sessuali da parte degli oppressori talebani!

Le donne vittime di stupri di gruppo da parte di questi figuri non sono “disgrazie di famiglia”, come vengono definite dalla disgustosa cultura patriarcale, ma donne resilienti e coraggiose.

Il 3 luglio 2024, il giornale britannico “The Guardian” ha riportato uno scioccante caso di violenza sessuale dei talebani nei confronti di una detenuta. I talebani hanno girato un filmato dello stupro di gruppo di una prigioniera e in seguito l’hanno mandato a lei, minacciandola di diffonderlo se non fosse rimasta in silenzio. Questa donna coraggiosa ha inviato la clip a diversi media, tra cui “Rukhshana”.

Il 25 giugno 2024, “The Guardian” ha anche diffuso casi di stupro e molestie sessuali nei confronti di ragazze che sono state aggredite e arrestate da brutali membri della polizia morale per il “crimine” di non obbedire alla regola dell’“hijab islamico” [N.d.R. un velo nero che copre l’intera figura, compreso il volto].

La violenza, le molestie e le aggressioni sessuali contro le donne sono strumenti utilizzati dai gruppi religiosi fascisti, che non solo rivelano la loro depravazione e brutalità, ma servono anche come mezzi per terrorizzare e di repressione delle proteste e della resistenza.

Questo non è il primo esempio di depravazione dei talebani e di altri gruppi fondamentalisti; ci sono numerosi esempi in Afghanistan e in tutto il mondo in cui i fascisti religiosi hanno violentato e torturato le donne. Durante gli anni sanguinosi e violenti del dominio jihadista [N.d.R. 1992-1996], molte donne a Kabul sono state aggredite sessualmente, e questi criminali non hanno esitato a stuprare bambini di 7 anni o madri di 70 anni.

Il Partito dell’Unità trasformò il Cinema Barikot e il Politecnico in centri in cui le donne venivano stuprate; a Kabul le gang di Ahmad Shah Massoud e Sayyaf stuprarono le donne nella zona di Afshar; Gulbuddin Hekmatyar a Karte Naw e Chilsatoon, e Dostum a Shah Shahid e Shar-e-Kuhna. Ogni giorno trapelano dai media orrendi casi di violenza sessuale su giovani ragazze e ragazzi nelle moschee e nelle scuole in Afghanistan, in Pakistan e in altri paesi islamici.

I criminali del regime teocratico dell’Iran violentano le ragazze la notte prima della loro esecuzione per essere certi che, in quanto non più vergini, non andranno in paradiso; i militanti sanguinari dell’ISIS hanno schiavizzato tantissime donne Yazide in Iraq; in Egitto, i Fratelli musulmani hanno violentato le donne durante le proteste contro Mohamed Morsi; nel 1971 l’esercito pakistano, con l’aiuto del Jamaat islamico del Bangladesh, ha stuprato centinaia di donne; I militanti di Boko Haram in Nigeria hanno ripetutamente rapito gruppi di studentesse e le hanno aggrediti sessualmente per mesi; gli esempi sono innumerevoli.

Non ci si dovrebbe aspettare di più dagli ignoranti talebani che per anni hanno subito abusi e maltrattamenti nelle scuole religiose (Madrassa), cosa che ha sviluppato in loro gravi sentimenti di odio. Sono persone che non esitano a indossare cinture da kamikaze e versare il sangue di persone innocenti per realizzare il sogno di possedere 72 “vergini del paradiso”. I talebani considerano le donne come strumenti per soddisfare i loro desideri, le bollano come infedeli e atee, le considerano un loro bottino di guerra e giustificano ogni tipo di brutalità nei loro confronti. In una parte del filmato un aggressore talebano grida: “Per anni, gli americani ti hanno fottuta, ora è il nostro turno”.

La vergogna di questa orribile situazione ricade sulle Nazioni Unite, in particolare sullo statunitense Roza Otunbayeva (capo dell’UNAMA), su Rosemary DiCarlo (vice segretaria generale delle Nazioni Unite), su Rina Amiri e sulla cosiddetta “comunità internazionale” che a Doha si sono inginocchiati davanti ai sanguinari talebani, sfidando tutte le convenzioni, la Carta delle Nazioni Unite e le leggi sui diritti umani, e sacrificando le donne e il popolo oppresso dell’Afghanistan, e cercato di purificare e rafforzare l’inquisitoria, fascista, e aggressiva amministrazione dell’“Emirato Islamico”.

La vergogna di tale violenza contro le nostre donne ricade sui leader dei talebani, dal Mullah Hibatullah al Mullah Zabihullah Mujahid, al Mullah Baradar, alla famiglia Haqqani e altri che cercano di coprire e negare questi crimini e barbarie.

La vergogna ricade su traditrici come Fawzia Koofi, Habiba Sarabi, Nahid Farid, Shahrzad Akbar, Moqadasa Yourish, Asila Wardak, Zarifa Ghafari, Fatima Gailani, Jamila Afghani, Mary Akrami, Ghatool Momand, Sharifa Zarbati, Laila Jafari e altre, che hanno trattato con i talebani per anni, spianando la strada per il loro ritorno al potere.

La vergogna ricade anche su donne come Mahbouba Seraj, Madina Mahboobi, Zahra Saba, Zahra Bahman, Farida Mazhab, Tayeba Hashemi e altre, che si sono trasformate in lobbiste talebane vili e prive di coscienza e che, accogliendo le richieste dell’Occidente, stanno cercando di mascherare i crimini e facilitare il riconoscimento di questi esseri medievali e mercenari dell’imperialismo.

La Revolutionary Association of the Women of Afghanistan (RAWA) porta rispetto per la donna dignitosa e coraggiosa che ha fatto circolare ai media il video dello stupro di gruppo dei talebani.

Le donne vittime di stupri di gruppo da parte di questi figuri non sono “disgrazie di famiglia”, come vengono definite dalla disgustosa cultura patriarcale, ma donne resilienti e coraggiose che dovrebbero essere sostenute dal nostro popolo e da chi cerca giustizia. In una società dove impera l’ignoranza le vittime di violenza sessuale fanno una vita tormentata e dolorosa, sono sottoposte a scherno, e coloro che hanno un minimo di coscienza e onore dovrebbero considerare che le vittime di stupro, soprattutto coloro che si oppongono a questi tabù e smascherano il nemico, sono eroine e guerriere che dovrebbero poter continuare la lotta contro i talebani a testa alta e con impegno nella lotta.

Sorelle afgane sofferenti, una sfida cruciale e forte contro i fondamentalisti jihadisti e talebani e la creazione di una società basata sulla democrazia e sulla giustizia sociale non è possibile senza una dura lotta, e la vittoria in questa battaglia richiede sacrificio e fermezza!

Restiamo unite e con una sola voce!

Associazione Rivoluzionaria delle Donne dell’Afghanistan (RAWA)

Corsi di Sartoria e Alfabetizzazione: cerimonia per la consegna dei diplomi

Indomabili. È l’aggettivo che immediatamente illumina i nostri pensieri quando il collegamento riesce e sullo schermo dei nostri computer appaiono le donne afghane che CISDA sostiene. Ogni volta è una sorpresa: che sia l’aggiornamento sui progetti che CISDA finanzia o il resoconto di una festa clandestina per l’8 marzo o, come in questo caso, la cerimonia di consegna dei diplomi di fine corso, le guardiamo e le ascoltiamo con un’ammirazione profonda per la forza che mostrano nel voler comunque fare, dire, ascoltare…in una parola “essere”.

E insieme alla forza colpisce la luce dei loro occhi. Occhi che a volte si inumidiscono quando raccontano la clausura alla quale sono sottoposte, ma che nella maggior parte dei casi splendono in sorrisi dolci. Già, perché anche solo potersi ritrovare insieme, poter raccontare le une alle altre una quotidianità fatta di privazioni, alle quali si alternano piccoli gesti di ribellione, è una gioia alla quale nessuna vuole rinunciare perché “quando vengo qui respiro”, come ci disse una ragazza qualche tempo fa.

Ho scritto “piccoli” gesti (come andare comunque al corso di taglio e cucito anche se il marito è contrario), ma in realtà sono vere e proprie sfide quelle che queste donne devono affrontare, per le quali si rischiano frustate o anche di peggio. Eppure, ogni volta sono lì. Indomabili.

E anche questa volta le guardiamo mentre, numerose e sorridenti, si preparano a celebrare la cerimonia di consegna dei diplomi dei corsi di Alfabetizzazione e di Sartoria che vengono tenuti con il sostegno di CISDA. La sala è grande, ma non si vedono finestre perché è in un sotterraneo che le donne, le ragazze e le bambine presenti hanno raggiunto in momenti diversi, rasentano i muri, cercando di non farsi notare. Non ci sono microfoni e non possono parlare a voce molto alta perché, come ci spiegano, i vicini o, peggio ancora, i talebani potrebbero sentire le loro voci e irrompere in questa isola di serenità seminando il terrore.

Nato alcuni anni fa, il progetto Sartoria si prefigge rendere le donne autonome economicamente, lavorando da casa, e prevede l’acquisto delle macchine per cucire nonché la disponibilità di una sarta professionista che insegna i rudimenti del taglio e cucito e come confezionare abiti. Al termine del corso, a chi consegue il diploma, viene assegnata anche una macchina che potrà portarsi a casa.

Come ci hanno raccontato in un precedente collegamento, nel corso non si insegna solo taglio e cucito, ma è un momento di condivisione, dove lo stare insieme rappresenta un momento di libertà irrinunciabile.

La consegna dei diplomi a chi ha terminato il corso si dipana sotto i nostri occhi in una festa dove i discorsi delle ragazze e delle donne si alternano a quelli dell’insegnante; non mancano poesie e una rappresentazione teatrale di un “normale” tentativo di quotidiana prevaricazione da parte di un marito tanto “fannullone” quanto autoritario.

Insieme ai diplomi del corso di Sartoria vengono consegnati anche alcuni diplomi del corso di Alfabetizzazione. Dall’aprile 2022, la scuola è totalmente preclusa alle donne e questi corsi clandestini sono l’unica opportunità loro rimasta. Indimenticabile un’anziana signora che, durante il collegamento di qualche mese fa, raccontava con orgoglio di come avesse imparato a leggere e scrivere con puntigliosa determinazione, nonostante le canzonature del marito.

Quando, dopo oltre un’ora di collegamento, viene il momento di salutare le nostre amiche afghane, le lasciamo portandoci nel cuore un pezzetto della loro forza e del loro indomabile spirito.

Patrizia Fabbri, giornalista, è un’attivista di CISDA.

I russi sono davvero i più “cattivi” di tutti?

Può risultare traumatica per chi ha a cuore il futuro dell’Afghanistan, e soprattutto i diritti e la libertà delle donne afghane, la esplicita affermazione di Putin della necessità di riconoscere che il potere in Afghanistan è in mano ai talebani, asserzione che porta dritto dritto al riconoscimento del governo talebano senza condizioni, dimenticando che quel regime oppressivo e fondamentalista ha cancellato tutti i diritti umani e sta portando solo fame alla popolazione e apartheid di genere alle donne.

Ma questa spregiudicata politica non è nella sostanza diversa da quella che stanno portando avanti,  in modo più velato, tutti gli Stati che sono interessati a entrare nel futuro dell’Afghanistan e della Regione, siano i paesi vicini, siano le grandi e medie potenze mondiali e regionali, nonché i paesi del Medio Oriente.

Infatti in questi ultimi mesi tutti hanno avuto contatti con i talebani, o a Kabul o in Paesi loro sostenitori, in preparazione della 3° Conferenza di Doha organizzata dall’Onu (30 giugno/1 luglio 2024) per fare avanzare la decisione, presa già a dicembre 2023, di far rientrare l’Afghanistan in un circuito di rapporti normalizzati con il resto del mondo per il suo reinserimento nel consesso internazionale.

Contatti finalizzati a convincere i talebani ad accettare l’invito a partecipare direttamente questa volta, considerando la loro presenza indispensabile alla buona riuscita dell’evento, come

Guterrez aveva dichiarato già alla fine della 2° conferenza di Doha, quando nelle sue conclusioni, che prendevano atto del fallimento del convegno dovuto alla mancata partecipazione dei talebani, aveva assicurato che nel futuro avrebbe fatto di tutto per garantire la loro presenza nei futuri incontri internazionale. Mesi ricchi di incontri con i talebani per raccogliere le loro richieste e spianare la strada alla loro partecipazione, e cercare di evitare un’altra occasione mancata.

Le vere intenzioni di tutti

Già a marzo l’India aveva avuto un incontro ufficiale tra suoi alti funzionari e talebani, mentre la Turchia  affermava essere giunto il momento di dare il riconoscimento al governo talebano e assicurava il suo sostegno nella battaglia.

Poi Turkmenistan e Kazakistan si incontravano a Kabul con i talebani mettendo al centro dei colloqui “il rafforzamento e l’espansione delle relazioni bilaterali” (nella foto una delegazione di talebani in Kazakhistan nell’agosto 2023).

A maggio si sono intensificati gli incontri dichiaratamente dedicati. La Francia mandava a Doha un suo incaricato d’affari per incontrare un rappresentante talebano, così come facevano Uzbekistan e Canada.

Intanto l’inviato speciale degli Stati Uniti per l’Afghanistan incontrava i rappresentanti degli Emirati arabi uniti per valutare “i punti di vista comuni” sull’incontro di Doha, così come faceva l’Ue mandando il suo rappresentante prima a un incontro con il Qatar, che intanto chiedeva ufficialmente ai talebani di partecipare alla Conferenza, poi direttamente con i talebani.

Ancora più esplicitamente, l’Onu mandava una delegazione a Kabul per sentire le esigenze dei talebani per poter “evidenziare le priorità dell’Afghanistan all’Assemblea generale delle Nazioni Unite”; l’Unama si incontrava con l’Iran per definire un comune impegno con il governo talebano in vista della Conferenza; un rappresentante delle Nazioni Unite discuteva con il ministro degli Esteri talebano l’odg e la composizione dell’incontro di Doha; infine il vicesegretario delle NU si recava a Kabul per discutere della nomina del rappresentante speciale delle NU per l’Afghanistan, obiettivo principale dell’Onu sempre avversato dai talebani. E altri ancora si avvicenderanno…

Tutti gli attori in campo testimoniano la ragionevolezza del dialogo con i talebani padroni di Kabul e stanno concordando direttamente con loro l’Odg della Conferenza di Doha

Del resto anche il Portavoce del Segretario generale delle NU Dujarric,  forse credendo di dare una banale convincente spiegazione, ha affermato: “Continuiamo il nostro attuale impegno con gli attuali governanti dell’Afghanistan perché sono loro i governanti dell’Afghanistan”…quindi perché scandalizzarsi delle dichiarazioni russe che non fanno altro che rendere esplicite le intenzioni di tutti?

Che cosa viene offerto ai talebani in cambio della loro partecipazione?

I talebani chiedono il rispetto di sei condizioni per la loro partecipazione: un seggio alle Nazioni Unite; che l’ONU ritiri la nomina di un rappresentante speciale per l’Afghanistan; che l’ordine del giorno e la composizione del terzo incontro di Doha siano discussi con loro; che questioni come l’istruzione e l’occupazione femminile e la formazione di un governo inclusivo non siano all’ordine del giorno. Vogliono che ci si concentri solo sullo sradicamento della droga e la lotta contro i gruppi armati, in particolare l’Isis.

Quindi non si parla più di donne e diritti umani, né come punto dell’ordine del giorno, né come partecipazione di rappresentanti di donne e movimenti all’incontro, con la protesta, almeno per ora, solo di HRW e donne attiviste che invitano a boicottare l’incontro.

Del resto, e in sovrappiù, non sono stati invitati neppure rappresentanti della società civile né di altre possibili forze alternative, a smentire lo sbandierato invito ai talebani di fare un governo inclusivo di tutte le etnie e forze politiche.

I talebani, invitati stavolta con tutti gli onori dei capi di stato, hanno affermato che pensano di essere presenti, visto che l’ordine del giorno mostra cambiamenti positivi, concentrato su questioni finanziarie e bancarie, controllo della droga, mezzi di sussistenza alternativi per gli agricoltori, sviluppo del settore privato e cambiamento climatico

Le contraddizioni dell’Onu

È evidente l’ansia di Stati Uniti e Unione europea di ripristinare anche ufficialmente, e non solo attraverso gli aiuti umanitari, i buoni rapporti politici con l’Afghanistan che aprano la strada agli appetitosi rapporti economici che le ricchezze del paese promettono e da cui temono di essere tagliati fuori a favore di Cina, Russia e piccole e grandi potenze locali che non hanno la preoccupazione di salvarsi la faccia come paesi che difendono la democrazia e i diritti umani.

A fare da battistrada c’è l’Onu, che da un lato sbandiera la sua vocazione a difendere i diritti dei popoli e delle donne oppresse con bellissimi Rapporti e dichiarazioni dei suoi Organismi deputati alla difesa dei diritti umani e al controllo del loro rispetto da parte degli Stati, accusando il regime afghano di apartheid di genere, dall’altro organizza questa grande platea di Doha per dare rispettabilità al governo talebano, finora definito de facto ma con la fretta di farlo diventate di diritto attraverso una “ normalizzazione” dei rapporti che possa funzionare come un riconoscimento anche senza una dichiarazione ufficiale.

Beatrice Biliato è un’attivista di CISDA.

Quando il mondo di Sahar cadde in frantumi

Sahar è nata in una famiglia di militari a Helmand, da anni considerata una delle province più insicure e pericolose dell’Afghanistan.  Ha trascorso tutta la sua vita nel caos della guerra, fuggendo costantemente da una provincia all’altra.  A differenza degli altri bambini, non ha mai avuto la possibilità di vivere un’infanzia spensierata, fatta di risate e giochi con gli amici in un ambiente sereno.

“Dopo ogni conflitto tra il precedente governo e i talebani”, racconta Sahar, “io e i miei amici raccoglievamo i proiettili abbandonati e altri residui della guerra, trasformandoli nei nostri giocattoli sbagliati”.

Nonostante l’amarezza delle sue esperienze, l’amore di Sahar per l’apprendimento è rimasto una costante fonte di speranza.  L’istruzione è diventata il suo rifugio, anche se lo stesso viaggio per recarsi a scuola era segnato dalla violenza.  “Ero una studentessa di quinta elementare”, ricorda, “e nonostante tutti i rischi, a scuola ci andavo sempre. Amavo la mia scuola, i miei insegnanti e i miei compagni di classe. Ma il mio mondo andò in frantumi il giorno in cui la nostra scuola venne attaccata. I suoni delle esplosioni e delle urla tormentano ancora i miei sogni. Quel giorno, quattro vite innocenti andarono perdute, lasciandomi in uno stato di shock e di dolore che non dimenticherò mai.”

Questo terribile incidente ha costretto la sua famiglia a cercare rifugio a Kandahar, sperando in un nuovo inizio. Tuttavia, la presa del potere da parte dei talebani ha presto trasformato le loro vite, e quelle di innumerevoli donne e ragazze afghane, in una prigione di paura e oppressione. Le libertà fondamentali sono state strappate via e il futuro è stato avvolto nell’incertezza.

Attualmente, Sahar risiede a Kabul, dove sta imparando diligentemente l’inglese all’OPAWC (Organizzazione per la promozione delle capacità delle donne afghane). Nonostante le restrizioni soffocanti e la costante sensazione di disperazione, si rifiuta di lasciare che i suoi sogni svaniscano. “La situazione nel nostro Paese è insostenibile”, ammette, “ma non mi arrenderò mai alla disperazione. L’istruzione è la mia arma e la userò per diventare un medico e servire il mio popolo. Anche nei momenti più bui, la speranza può ancora fiorire”.

Contro l’apartheid di genere

In occasione della Giornata internazionale della donna dell’8 marzo di quest’anno le istituzioni internazionali impegnate nella difesa dei diritti umani si sono premurate di confermare il loro sostegno alle donne afghane oppresse dal regime dei Talebani, usando il termine “apartheid di genere” per definire la discriminazione esistente in Afghanistan e in Iran.

Ma l’ex parlamentare indipendente afghana Belquis Roshan, nell’incontro con il Coordinamento italiano a sostegno delle donne afghane avvenuto in occasione della sua visita in Italia ad aprile, ha raccomandato di non farsi “rubare la battaglia per il riconoscimento dell’apartheid di genere dalle organizzazioni internazionali e neanche dall’Onu”. Perché questa presa di posizione? Che cosa intende?

Da un paio d’anni i Talebani, proibendo l’istruzione alle ragazze e il lavoro alle donne e dando il via a un susseguirsi sempre più misogino e violento di proibizioni e limitazioni, hanno mostrato chiaramente non solo di non essere cambiati rispetto al loro passato governo -come avevano voluto credere gli Stati Uniti nell’ambito degli Accordi di Doha del 2020- ma anzi di fare della discriminazione delle donne un aspetto cardine del loro dominio. Da più parti si è cominciato a parlare allora di “apartheid di genere” e dell’opportunità che sia riconosciuto dalla legislazione internazionale come un crimine contro l’umanità.

Dato che appare sempre più illusoria la possibilità di ottenere dai Talebani il rispetto dei diritti delle donne in cambio di aiuti economici, si pensa di fare pressione su di loro attraverso i tribunali e il diritto internazionale.

Sistematica e istituzionalizzata segregazione delle donne

Se tutti gli attivisti e i sostenitori dei diritti delle donne afghane sono concordi nel definire il sistema di oppressione dei Talebani come un “apartheid di genere” in quanto non siamo di fronte a violazioni occasionali ma alla sistematica e istituzionalizzata segregazione delle donne e alla privazione dei loro diritti proprio in quanto genere considerato inferiore, diversi sono gli approcci che si possono avere per affrontare il problema.

Considerata l’entità e la gravità dell’oppressione che operano sulle donne, i Talebani potrebbero già essere perseguiti dalla Corte penale internazionale (Cpi) per il reato di persecuzione di genere. Lo Statuto di Roma della Cpi considera infatti il reato di persecuzione di genere come un crimine contro l’umanità, dove “persecuzione” si ha con “la privazione intenzionale e grave dei diritti fondamentali a causa dell’identità del gruppo o della collettività” e con “genere” si intende “i due sessi, maschile e femminile, nel contesto della società”. Coglie quindi la specificità di questo crimine, ma come atti individuali e compiuti su individui, non come azioni di un governo che opera consapevolmente e sistematicamente contro un gruppo in quanto genere distinto.

Come sostengono molti esperti, però, la definizione di persecuzione di genere non coglie pienamente la natura dell’oppressione subita dalle donne e dalle ragazze in Afghanistan e Iran. Il reato di apartheid, invece, affronta le cause più profonde. La Convenzione internazionale sulla repressione e la punizione dell’apartheid lo definisce come segregazione e discriminazione razziale in un contesto di regime istituzionalizzato di dominio da parte di un gruppo razziale su qualsiasi altro, attuato con l’intenzione di mantenere quel regime.

Quindi nel reato di apartheid si ipotizza la responsabilità dello Stato, ma non si contempla il genere come motivo di discriminazione, solo l’etnia. D’altra parte la Cpi può giudicare e condannare solo le singole persone, ai sensi del diritto penale internazionale che considera responsabili i soggetti, anche per i crimini di gruppo, come è stato ad esempio nel processo di Norimberga. La Cpi sta indagando dal 2006 sulle atrocità commesse in Afghanistan, esaminando i crimini commessi da tutte le parti coinvolte nella guerra del ventennio di occupazione, a cominciare dagli Stati Uniti e dai suoi alleati. E che, però, potrebbe includere anche i crimini commessi dai Talebani dal 2021. Un procedimento molto lungo, troppo secondo alcuni attivisti.

Per accelerare i tempi la Cpi ha scelto allora di stralciare i reati precedenti per potersi concentrare solo su quelli dei Talebani, suscitando contestazioni in chi non è d’accordo nel “dimenticare” i crimini occidentali. Comunque, a oggi, il procuratore della Corte non ha presentato alcuna accusa contro i Talebani, né vi sono procedimenti avviati dagli Stati presso la Corte internazionale di giustizia.

Nonostante la naturale lentezza del procedimento, Human rights watch, Amnesty international e la Commissione internazionale dei giuristi sono tra coloro che ritengono che la Procura della Cpi dovrebbe aggiungere il crimine di persecuzione di genere all’indagine in corso e che gli Stati, attraverso la giurisdizione universale o altre vie giudiziarie, dovrebbero processare i Talebani sospettati di crimini di diritto internazionale.

Sottoporre gli abusi dei Talebani al controllo giudiziario

Dall’altro lato, la Corte internazionale di giustizia è responsabile della risoluzione delle controversie tra Stati su questioni di diritto internazionale. Questa Corte può esaminare le cause intentate da uno Stato contro un altro Paese membro per violazioni della Convenzione delle Nazioni Unite sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (Cedaw), a cui anche l’Afghanistan ha aderito. Basterebbe la richiesta di un solo Stato per sottoporre gli abusi dei Talebani sotto il controllo giudiziario, come recentemente ha fatto il Sudafrica nei confronti di Israele a proposito del “plausibile genocidio” perpetrato a Gaza.

Quindi fin da subito uno Stato parte della Cedaw potrebbe portare i Talebani in tribunale e la Corte internazionale di giustizia potrebbe avere un ruolo importante. Ma nessuno ha finora fatto un passo del genere, sebbene tutti si dichiarino ogni giorno preoccupati per la situazione delle donne in Afghanistan.

Le divergenze non sono poche. Ad esempio, gli Stati Uniti non hanno ratificato la Convenzione perché Democratici e Repubblicani non sono d’accordo sui costi del trattato e non condividono le stesse norme sulla condizione delle donne. Inoltre la Cedaw è stata criticata per la sua prospettiva eteronormativa sul genere e sulla sessualità e per la mancanza del pieno riconoscimento di coloro che non rientrano nelle tradizionali identità di genere.

Altri invece puntano a far riconoscere a livello legislativo internazionale l’apartheid di genere come nuovo crimine contro l’umanità. Al momento è all’esame delle Nazioni Unite una revisione del Trattato sui crimini contro l’umanità e quindi alcuni chiedono che l’apartheid di genere sia inserito tra questi. Mentre in questo periodo è stata istituita presso l’Onu una commissione specifica che ha il compito di rivedere i criteri con cui viene definita la prevenzione e persecuzione dei crimini contro l’umanità. Da più parti si fa pressione e si sollecita il movimento per i diritti ad approfittare di questa finestra istituzionale per ottenere la modifica del Trattato.

Questa terza strada è preferita e fortemente caldeggiata dalle istituzioni internazionali e dalle donne afghane espatriate che vi lavorano all’interno, spesso utilizzate per mostrare il lato “buono” e democratico dei Paesi occidentali quando vogliono addolcire le loro politiche fondamentalmente aggressive, per mantenere l’opinione pubblica fiduciosa e dormiente.

In testa c’è il segretario generale dell’Onu, António Guterres, che fin dal 2022 ha dichiarato che l’oppressione che si accanisce sulle donne in Afghanistan deve essere considerata apartheid di genere perché la sua natura non è occasionale e limitata ma strutturale, dichiaratamente fondante l’ideologia dei Talebani, che mantengono in stato di inferiorità una parte della popolazione, in quanto genere, così rispondendo a tutte le caratteristiche necessarie per definire l’apartheid come tale.

Anche il Gruppo di Lavoro sulla discriminazione contro le donne delle Nazioni Unite il 20 febbraio del 2024 si è espresso per l’inclusione di queste azioni come crimine contro l’umanità ai sensi dell’Articolo 2 del progetto di revisione del Trattato sulla prevenzione e la punizione dei crimini contro l’umanità attualmente all’esame del Sesta Commissione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite.

Già a settembre 2023 le Osservazioni fornite dal sottosegretario generale delle Nazioni Unite e dal direttore esecutivo delle Nazioni Unite Sima Bahous alla riunione del Consiglio di sicurezza delle Onu sulla situazione in Afghanistan chiedevano ai governi “di prestare pieno sostegno a un processo intergovernativo per codificare esplicitamente l’apartheid di genere nel diritto internazionale”.

Il Parlamento europeo il 14 marzo ha affermato poi che “l’applicazione da parte dei Talebani della legge della shari’a e l’esclusione di donne e ragazze dalla vita pubblica equivalgono a persecuzioni di genere e apartheid” e che vanno sostenute “le richieste della società civile afghana di ritenere le autorità di fatto responsabili delle loro azioni, un’indagine da parte della Corte penale internazionale, l’istituzione di un meccanismo investigativo indipendente delle Nazioni Unite e l’espansione delle misure restrittive dell’Ue”. Anche l’Italia a marzo è intervenuta in difesa delle donne afghane, nell’evento organizzato dalla Rappresentanza permanente d’Italia all’Onu “No Poverty eradication without the empowerment of women and girls – next steps for the future of Afghanistan”, ma non è andata oltre un generico appoggio e aiuto economico.

gennaio un gruppo di parlamentari britannici ha dato il via a un’indagine sull’apartheid di genere, la prima al mondo di questo tipo, per analizzare la situazione delle donne e delle ragazze in Iran e Afghanistan rispetto alle definizioni legali esistenti sui crimini internazionali e le possibilità di inserirlo nel quadro giuridico internazionale esistente. Dando vita poi a un rapporto che è stato presentato al Parlamento del Regno Unito il 4 marzo 2024 in cui si dice espressamente che “questa grave questione può essere descritta solo come il crimine di apartheid: sostituendo ‘razza’ con ‘genere’, diventa evidente che la definizione legale riflette la situazione delle donne e delle ragazze in Afghanistan e Iran”.

La campagna “End gender apartheid today” è stata forse la prima richiesta rivolta espressamente ai governi per il riconoscimento di questo crimine. Decine di eminenti giuristi, studiosi e rappresentanti della società civile di tutto il mondo hanno pubblicato una lettera in cui esortano gli Stati membri delle Nazioni Unite a codificare l’apartheid di genere nel progetto di Convenzione sui crimini contro l’umanità.

Anche il Consiglio atlantico degli Stati uniti e il Global justice center, nell’ottobre 2023”, “hanno pubblicato una lettera congiunta e una memoria legale per sollecitare gli Stati membri delle Nazioni Unite a codificare specificamente questo crimine nella bozza di trattato sui crimini contro l’umanità attualmente all’esame della Sesta commissione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite”. Richiesta ribadita dal Consiglio atlantico l’8 marzo di quest’anno e ancora recentemente il 14 marzo.

L’Istituto internazionale per la pace (Ipi) -fondato dall’Onu- ha organizzato un panel sull’argomento. Tra le intervenute, Dorothy Estrada-Tanck ha individuato nella codificazione esplicita dell’apartheid di genere in Afghanistan una priorità per il Gruppo di lavoro delle Nazioni Unite sulla discriminazione contro le donne e le ragazze, di cui è presidente. “Riconoscere e codificare questo come un crimine contro l’umanità è necessario per nominare e comprendere con precisione l’intera portata degli elementi di questo regime e, soprattutto, per innescare l’azione della comunità internazionale”, ha detto. L’evento è stato co-sponsorizzato dal Global justice center, Rawadari, dal Georgetown institute for women, Peace and security e dalle missioni permanenti di Messico e Malta.

La Federazione internazionale per i diritti umani, composta da difensori dei diritti umani provenienti da tutto il mondo, ha aderito ufficialmente alla campagna adottando una risoluzione per riconoscere “l’apartheid di genere”.

L’Alleanza per i diritti umani in Afghanistan, che include Amnesty international, Front Line defenders, Freedom house, Freedom now, Human rights watch, Madre, Organizzazione mondiale contro la tortura (Omct), la Federazione internazionale per i diritti umani (Fidh) e la Lega internazionale per la pace e la libertà delle donne (Wilpf), esprime richieste più generiche ma comunque sollecita vengano stabilite le responsabilità attraverso “meccanismi che includono la Corte penale internazionale e la Corte internazionale di giustizia”.

Così come il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite riunito nella sessione del 22 febbraio del 2024, che nel Rapporto afferma che la situazione delle donne afghane può configurarsi come apartheid di genere e raccomanda agli Stati di “sostenere i meccanismi internazionali di indagine e di responsabilità e avviare o collaborare con i processi di responsabilità nelle giurisdizioni nazionali per le violazioni passate e attuali da parte di tutte le parti in conflitto in Afghanistan, anche per quanto riguarda la giustizia di genere e gli attacchi alle comunità etniche e religiose”.

Prevarranno le considerazioni opportunistiche?

Tante e autorevoli, come si vede, sono le voci che spingono nella direzione dell’identificazione dell’apartheid di genere, e quelle riportate sono solo una parte. Ciò potrebbe far pensare che la strada sia in discesa, dato il gran numero di Paesi nel mondo che si definiscono democratici o che comunque sono contrari alle politiche ultrareazionarie e ultrafondamentaliste dei Talebani.

Ma non è così. Alla fine sono i singoli Stati che decidono all’interno dell’Onu, compresi ovviamente gli Usa e gli alleati occidentali, cioè quelli che prima hanno occupato l’Afghanistan e poi sono stati i promotori dell’accordo che ha riportato al potere i Talebani perché considerati più “affidabili” dei governi da loro stessi confezionati e sostenuti nei vent’anni di occupazione.

Mentre sostengono che le donne afghane non debbano essere abbandonate, è l’Onu stessa a incentivare un percorso di avvicinamento nei confronti del governo talebano con il dichiarato intento di arrivare al suo riconoscimento completo nel più breve tempo possibile, come hanno dimostrato la Valutazione indipendente sull’Afghanistan che ha portato al Forum di Doha del febbraio scorso e i successivi incontri.

Perciò c’è il rischio che prevalgano le preoccupazioni opportunistiche di inimicarsi tutti quei Paesi, e sono tanti, che per affinità culturale o religiosa con i Talebani o per interessi economico-politici nella regione non vogliono l’isolamento dell’Afghanistan e la conseguente limitazione dei contatti commerciali e politici; quelli che hanno di fatto già riconosciuto più o meno apertamente il governo talebano e quindi preferiscano non prendere una posizione chiara e potenzialmente gravida di reazioni negative per loro. Quanto possono essere credibili nel loro proposito di condannare i Talebani?

Certo il riconoscimento dell’apartheid di genere come crimine contro l’umanità non sarebbe di per sé sufficiente a dare il via all’incriminazione dei Talebani perché comunque è indispensabile, come detto, l’azione di uno Stato per mettere in moto il tribunale internazionale, ma sarebbe un enorme aiuto per tutte quelle organizzazioni che come il Cisda e la Coalizione euroafghana sostengono le donne e le organizzazioni afghane come l’Associazione rivoluzionaria delle donne dell’Afghanistan (Rawa) che coraggiosamente si oppongono quotidianamente ai Talebani e chiedono agli stati democratici di non riconoscere il loro governo.

L’apertura di un processo internazionale al governo talebano con l’accusa di apartheid di genere sarebbe un procedimento lungo che non avrebbe effetti immediati sulla vita delle donne afghane, ma renderebbe loro giustizia e rafforzerebbe la loro resistenza.

Le battaglie per accrescere la democrazia e per il riconoscimento dei diritti a livello istituzionale e legislativo non sono mai state vinte per merito delle istituzioni stesse ma per la spinta che hanno avuto dal basso, da chi premeva per ottenere i cambiamenti.

“Non facciamoci strappare questa battaglia”

Come ha detto Belquis Roshan, il riconoscimento che in Afghanistan vi è un sistema di apartheid di genere è una battaglia molto importante e non dobbiamo farcela strappare dai politici di professione. E nemmeno dalle donne che sono state leader politiche in Afghanistan, condividendo responsabilità di governo, e che ora, scappate dopo l’arrivo dei Talebani, riempiendosi la bocca di parole di democrazia, si sono riciclate in Occidente come rappresentanti del popolo e delle donne rimaste invece a soffrire nel Paese. Donne che appaiono nei media e che sono letteralmente usate negli incontri internazionali ufficiali quando i leader e gli Stati più potenti hanno bisogno di mostrare che ascoltano anche la popolazione civile e non solo i Talebani.

Sono le donne che resistono in Afghanistan e che ogni giorno devono affrontare gli attacchi dei decreti dei Talebani le vere rappresentanti di loro stesse. È a loro che dobbiamo dare voce e a chi continua, anche dall’esilio, a darsi da fare senza farsi fagocitare dalle istituzioni e dagli apparati che danno loro maggior prestigio. È grazie alla resistenza e alla resilienza delle donne afghane che l’argomento dell’apartheid di genere è ora all’ordine del giorno. Non possiamo lasciare che a farne una bandiera siano coloro che hanno portato la guerra in Afghanistan e poi hanno voluto lasciare il Paese in mano ai Talebani.

Pubblicato su Altreconomia, 9 maggio 2024

Beatrice Biliato è un’attivista di CISDA.

Bilquis Roshan in Italia per alcuni importanti incontri

Bilquis Roshan è una nostra compagna afghana. L’abbiamo incontrata più volte nel suo Paese, dove viveva costantemente sotto scorta a causa delle sue continue denunce nei confronti dei signori della guerra al potere, della corruzione e dell’ingiustizia dilaganti, dell’occupazione NATO che portava solo più guerra e insicurezza. Nel suo programma c’erano pace, giustizia per tutti coloro che avevano subito gravi perdite durante i troppi anni di guerre e invasioni dell’Afghanistan (dall’invasione sovietica, alla guerra civile scatenata dai signori della guerra, dai talebani al periodo dell’invasione NATO), giustizia sociale, liberazione delle donne.

Ci hanno sempre colpito la sua forza, il suo coraggio, la sua ironia e le sue risate contagiose; gli incontri con lei sono sempre stati un momento importante delle nostre delegazioni.

Lo scorso marzo Bilquis è stata in Italia.

A Roma ha incontrato alcune parlamentari, che hanno promesso di mantenere alta l’attenzione sull’Afghanistan e soprattutto sulla condizione delle donne, ora costrette a subire un’apartheid di genere. È stata poi accolta nella sede dell’ANPI provinciale, dove si è riunita con le donne della commissione femminile; il suo intervento, centrato sulla resistenza delle donne, è stato seguito con molto interesse.

La visita a Roma si è conclusa con un incontro con le ragazze e i ragazzi della comunità afghana locale che volevano avere informazioni sulla situazione del paese e sulla diffusione delle scuole coraniche.

A Milano ha avuto un incontro con le donne del CADMI (Casa di accoglienza per le donne maltrattate), con cui ha parlato della sistematica violenza nei confronti delle donne.

Un ultimo incontro pubblico prima della sua partenza ha avuto luogo sempre a Milano, in un evento su donne e guerra organizzato in occasione delle celebrazioni per i 10 anni della Casa delle donne. Prima di lasciare l’Italia, Belquis ha fatto un incontro online molto partecipato con le associazioni della Rete euro-afghana; ha illustrato quello che vorrebbe fare, dall’Europa, per mantenere l’attenzione sul suo paese.

La biografia di Belquis

Nata nel 1973 nella provincia di Farah (sud-ovest dell’Afghanistan); negli anni dell’invasione sovietica Bilquis va in esilio con la sua famiglia prima in Iran e, poi, in Pakistan, dove studia in una scuola per rifugiati cercando modi per acquisire consapevolezza politica; questo percorso la porta a decidere di mettersi al servizio delle donne del suo paese.

Nel 2001, Dopo l’occupazione dell’Afghanistan da parte della NATO, Bilquis torna a Farah e inizia a lavorare come direttrice di un centro medico per donne.

Nel 2005 si candida e viene eletta elezioni nel consiglio provinciale di Farah, ma continua a lavorare nel suo territorio.

Nel 2009 viene nuovamente eletta nel consiglio provinciale di Farah e va a Kabul come rappresentante del consiglio alla Mishrano Jirga, la Camera Alta del Parlamento (Senato) dove si adopera per smascherare i crimini dei signori della guerra. In quel periodo frequenta la Facoltà di legge all’Università di Kabul.

Nel 2018 si candida alle elezioni parlamentari e viene eletta alla Wolesi Jirga (Camera Bassa del Parlamento), sempre per la provincia di Farah. Nonostante le continue minacce di morte continua a denunciare crimini e corruzione di ministri e parlamentari.

Alla Loya Jirga (tradizionale Grande Assemblea) del 13 ottobre 2013 è l’unica rappresentante a opporsi alla firma di un patto di sicurezza con gli Stati Uniti e decide di lasciare l’Assemblea con lo slogan “Il patto con gli USA è un tradimento della nostra patria” dichiarando ai media che la presenza militare americana in Afghanistan rappresenta un pericolo per il futuro del suo Paese.

Roshan fa ancora sentire la sua voce durante la Loya Jirga del 7 agosto 2020, quando il governo fantoccio di Ashraf Ghani decide di liberare dalla prigione oltre 5000 terroristi talebani, un accordo che lei considera ‘tradimento della nazione’. In quella occasione è stata buttata a terra e picchiata da una donna del personale di sicurezza. Questo incidente ha avuto un’enorme copertura mediatica ed è stato condannato in tutto l’Afghanistan, mettendo in ombra l’intera Loya Jirga”.

Il suo nome è stato inserito nella lista nera dei talebani e dell’ISIS, ma Bilquis non ha mai fatto marcia indietro.

Dopo il ritorno al potere dei talebani il team che si occupava della sua sicurezza suggerisce a Bilquis di non apparire più in pubblico perché troppo rischioso. Successivamente è costretta a lasciare il paese: “Non avrei mai pensato di lasciare l’Afghanistan, il mio amato Paese, ma dall’agosto 2021, con la caduta del governo fantoccio di Kabul, mi è stato impossibile continuare le mie attività e la mia vita è ad alto rischio. Oggi voglio continuare la mia missione, voglio far conoscere in tutto il mondo il destino del mio sfortunato popolo”.

Belquis Roshan vive attualmente in Germania dove è presente una grande comunità di afghani, ma continua a portare in giro per il mondo la voce delle donne afghane.