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Jamila, armata di poesia

In agosto a Kabul fa molto caldo. Pericolosissimi ventilatori senza griglie di protezione portano un po’ di sollievo alle guardie accaldate, in uniforme militare, che siedono non lontano dal mio ufficio, per garantire la sicurezza del mio soggiorno. L’aria è secca e chiara. La polvere si respira ovunque e copre le cose di una patina leggera. Anche il mio computer quasi non si distingue più dalla scrivania. Il deserto avanza. Dalla finestra entrano odori forti che ti restano addosso, che continui a sentire anche quando hai lasciato il paese. Odori di cucina, di legna bruciata e dei falò dei sacchetti della spazzatura che il vicino sta bruciando.

Mi sto vestendo per una serata speciale: sono stata invitata dalla zia della direttrice dell’orfanotrofio nel quale sono ospitata, vuole conoscermi. Probabilmente sono la prima ospite straniera che accoglie in vita sua.

Sono le ragazze dell’orfanotrofio a decidere il mio look. Mi prestano i loro vestiti più belli, e mi rincorrono fino al cancello sventolando il velo che ho dimenticato all’entrata.

La casa della zia, Khala in dari, ha un cortile spoglio, i panni ad asciugare sul filo teso tra un albero rinsecchito dalla siccità e un muro di fango. La porta si apre su una stanza grande dove alcuni uomini stanno bevendo il chai. Ci ritroviamo, tra donne, in una più piccola, coi muri tinti di bianco che riflettono la luce della grande porta-finestra. Maryam, la direttrice dell’orfanotrofio, mi fa fare un giro della casa. È costruita in fango e cemento, ma l’interno è arredato con cura, con stoffe, tende, cuscini. Mi mostra l’unica stanza che non si vede dall’entrata: la camera di Jamila , sua cugina. Ancora non la conosco.

Sul muro, sopra il letto, sorridono due ragazze curde dello JPG in uniforme. Rimango un attimo interdetta. Maryam ride. Sapeva che mi sarei stupita. Sua cugina, mi dice, è un’attivista. Si batte per liberare la voce delle donne in un paese, l’Afghanistan, dove il silenzio è imposto a colpi di bastone. “She is crazy!” è matta, mi dice. Sorride, ma si vede che è preoccupata.

Torniamo nella piccola stanza bianca per prendere il tè e chiacchierare.

Ci sediamo sul pavimento, coperto da morbidi tappeti. Jamila è in viaggio.

Arriva più tardi, dopo cena. Rientra dall’università di Jalalabad. Quando entra nella stanza qualcosa cambia. Le risate e gli abbracci scoppiano veloci, elettrici. È bellissima. Di una bellezza forte, dai contorni nitidi, senza sbavature. Ci capiamo immediatamente, anche con le poche parole che scorrono dal dari all’inglese. La voglia di cambiare il mondo o le piccole grandi cose di ogni giorno, è la stessa.

Ritrovo il suo viso e la sua gentile sicurezza di sé, due anni dopo, sullo schermo del mio computer. Vogliamo raccontare la sua vita in bilico, piena di passione. Ha 25 anni Jamila, si è laureata a Jalalabad, una delle zone più pericolose del paese, in letteratura dari ed è molto determinata a fare la giornalista. Ha già cominciato. Ha i capelli scuri lunghissimi e sciolti, non porta il velo, ma una sciarpa bella calda, ora fa freddo a Kabul.

Hai passato quattro anni all’Università di Jalalabad, un posto difficile e pericoloso, in mano ai fondamentalisti, come è stata questa esperienza?

La situazione a Jalalabad, come in tutto l’Afghanistan, è molto tesa. Non ci si sente mai sicuri, ma non solo a causa degli attentati. La violenza contro le donne è sempre più alta e la miseria quotidiana abbrutisce. A Jalalabad ci sono sempre tanti attentati di Daesh e Talebani perché è “la tana del lupo”, il quartier generale, in cui i Talebani vengono formati, fanno esercitazioni militari.

Di conseguenza, l’Università non è un buon posto per ricevere un’istruzione. Il materiale scolastico è scarso, vecchio e in cattive condizioni, ma soprattutto gli insegnanti non sono preparati. Molte cattedre sono occupate da seguaci di Daesh e dei Talebani, trasmettono agli studenti i valori di questi gruppi, a volte reclutano i militanti proprio nelle aule. Gli studenti hanno una mentalità chiusa. Nei quattro anni in cui ho studiato lì, ero l’unica che osava alzare la voce e protestare contro questi insegnanti, indegni di stare all’Università.

Come mai, allora, sei andata a studiare proprio lì?

Volevo studiare Letteratura e la letteratura più affascinante è quella in lingua dari. In questa lingua parlano i grandi poeti afghani e persiani. Un corso di studi che si trova solo a Jalalabad. Io sono pashtun, e tutti all’Università, tranne poche eccezioni, parlavano la lingua pashtun. Io seguivo i corsi in dari. Sono stata perfino accusata di tradire le mie origini. La cultura pashtun è molto forte, rigida e arretrata anche tra i giovani.   Era una guerra quotidiana.

Gli studenti mi dicevano di stare zitta, perché sono una donna: avevo torto per il solo fatto di essere donna! Le altre studentesse non osavano fiatare, neanche parlare con gli insegnanti durante le lezioni, di certo non si schieravano dalla mia parte quando mi minacciavano.

Chi ti minacciava, in quali occasioni?

Vi posso raccontare due episodi che ricordo bene. Uno era all’inizio della mia carriera universitaria. Le ragazze indossano il burka all’Università. A volte il chador lungo fino ai piedi, si vedono solo gli occhi, il resto del corpo è interamente coperto. Io mettevo i vestititi che avevo, quelli che mi piacevano e non mi coprivo il volto. Ma soprattutto osavo dire quello che pensavo nel momento in cui lo pensavo e ad alta voce. Un giorno, un gruppo di ragazzi, sono venuti verso di me dicendo che, col mio modo di fare e coi miei vestiti “non ortodossi”, avrei contaminato le altre ragazze. “Noi siamo musulmani, qui vige la legge dell’Islam e ti devi vestire di conseguenza, come dice il Corano. Gli uomini qui non sono tuo padre, non sono i tuoi fratelli, devi coprirti e stare zitta”. Questi ragazzi hanno trovato il mio numero di telefono, mi chiamavano ogni notte per dire che, se non cambiavo, mi avrebbero uccisa, che avevano delle pistole cariche per me. C’era anche un professore fondamentalista che mi minacciava ogni volta che mi incontrava in corridoio.

Come hai reagito a queste provocazioni?

Non sono cambiata per questo, ho tenuto duro e ho continuato a essere me stessa e a comportarmi come mi sembrava giusto. All’inizio non avevo molto successo, nemmeno con le ragazze. Mi dicevano che ero un disonore per l’Università e per loro, che erano le mie ‘sorelle’. Si vergognavano di me. Dovevo smetterla e comportarmi secondo l’Islam.

Quali erano i tuoi comportamenti più censurati? Cosa facevi per farli arrabbiare tanto?

All’Università di Jalalabad è obbligatorio pregare cinque volte al giorno. Io non ci andavo. I miei compagni andavano alla sala di preghiera tutti insieme e cercavano di portarmi con loro, inutilmente. Mi sono accorta presto che il valore che davano alle preghiere era soltanto formale. Il loro comportamento era arrogante e violento anche con il personale scolastico e con gli studenti di altre etnie. Maltrattavano persone e animali. E questo gliel’ho fatto notare. Io, al contrario, anche se non pregavo 5 volte al giorno, ero gentile e amichevole con tutti, cuoche, donne delle pulizie, guardie. Così hanno capito che quello che conta, anche per un buon musulmano, è il rispetto che provi per gli altri. Alla fine hanno accettato il fatto che anche qualcuno che non prega può essere una brava persona.

Dunque è stata una vittoria?

Sì, direi di sì. La mia miglior difesa contro accuse e minacce erano le mie idee, solide, e il mio comportamento.

Raccontaci qualche altra vittoria.

Una volta all’università hanno organizzato un evento speciale di poesia a cui assistevano anche professori e poeti che venivano da altre Università e da altri paesi. Mi ero preparata per leggere alcune poesie dal palco. Sarebbe stata una battaglia, di sicuro. Ero pronta. Compagni e professori mi hanno subito bloccato: ‘Sei una donna, non puoi andare sul palco a declamare davanti a tanti uomini sconosciuti! E’ una vergogna!’ Ancora una volta ero il disonore dell’Università. Sapevano che non mi sarei arresa. ‘Se io non recito ora queste poesie, se qualcosa non cambia, questa Università non potrà crescere , rimarrà nel Medio Evo per i prossimi 10.000 anni!’ Ero molto arrabbiata e quando sono arrabbiata divento persuasiva.

Cosa volevi leggere?

Una poesia rivoluzionaria, molto importante secondo me. E almeno quella volevo farla ascoltare a tutti quegli uomini. Ma, alla fine, la vittoria è stata completa: sono riuscita a declamare dal palco tutte le poesie che volevo. Sono di un poeta iraniano che si chiama Khosraw Gul Sorkhi. È stata una grande esperienza per me.

Qualcuno dei tuoi compagni ti ha seguito sulla tua strada?

Qualcuno sì. Condividevo le mie idee, con tutti i compagni di classe, sono fatta così, non posso farne a meno. Facevo leggere anche a loro delle composizioni di poeti rivoluzionari e famosi, iraniani, afghani, russi e americani. E, alla fine, dopo 4 anni passati insieme, la nostra classe è diventata molto più libera. E tutto questo grazie alla poesia, la mia arma più potente.

Ricordo soprattutto un ragazzo pashtun molto fanatico, feroce contro le altre etnie. Ho discusso molto con lui e, alla fine, sono riuscita a convincerlo che siamo tutti uguali, tutti siamo afghani e tutti degni di rispetto. Dobbiamo stare insieme, dobbiamo essere uniti per lottare contro questa guerra, questa corruzione e questa violenza. Adesso è molto cambiato, mi ringrazia sempre per avergli aperto gli occhi e mostrato una strada che lui continua a frequentare.

Hai sperimentato altre armi per combattere le tue battaglie, oltre alla poesia?

Anche le immagini sono molto potenti. Mi piace dipingere. Una volta ho dipinto un manifesto copiando la foto di Che Guevara. L’ho appeso nella mia camera da letto insieme al ritratto di una poetessa iraniana. Nessuno li conosceva e, quando le mie compagne venivano nella mia stanza, erano curiose. Chiedevano di quei due personaggi sul muro. Spiegavo chi erano e perché erano la mia ispirazione. E piano piano non erano più degli estranei, né loro né le loro idee. Qualcosa stava cambiando.

Ma non mi sono accontentata della mia stanza. Sui muri dell’Università sono esposti ritratti di poeti fanatici religiosi. Mi dava proprio fastidio vederli lì. Così un giorno ho preparato un poster con il ritratto di Nadia Anjuman (poetessa afghana, uccisa dal marito perché declamava in pubblico le sue poesie) e alcune delle sue poesie. Studenti e professori erano furibondi. Primo, era una donna, secondo forse era di sinistra, terzo era probabilmente contraria all’Islam, quarto anche io, che volevo imporla, ero una donna. Il manifesto è rimasto una settimana nell’ufficio del Preside prima di essere liberato da me e dal professore che mi appoggiava.

Quindi c’era qualche insegnante che ti sosteneva, che appoggiava le tue azioni?

All’Università di Nangarhar, provincia a maggioranza pashtun, tutte le materie sono insegnate in pashto. Per insegnare la letteratura dari ci sono dei professori che vengono per forza da fuori, spesso sono tagiki, del Badakshan, che parlano questa lingua. Di solito i tagiki hanno una mentalità più aperta dei pashtun, che sono chiusi, fanatici, non rispettano i diritti delle donne. C’è un abisso tra loro. Un professore tagiko interveniva sempre a mio favore, quando i compagni mi accusavano e mi ostacolavano.

Era stato membro del partito Khalq,(una delle due fazioni del Partito comunista Afghano prima e dopo l’invasione russa) quindi era più laico e aperto al confronto e ai diritti delle donne. Mi ha incoraggiato perfino a leggere una poesia contro i mullah e i religiosi fanatici.

La presenza di talebani e Daesh e della loro ideologia si sente molto a Jalalabad?

Jalalabad è il capoluogo della provincia di Nangarhar, il Governo ha potere solo in città ma, intorno, governano non solo i talebani e Daesh ma anche i mujahiddin, signori della guerra, e altri piccoli o grandi terroristi. Prima i militanti di Daesh e i talebani si muovevano senza paura, sicuri e arroganti, anche all’Università, ma in seguito, il Governo li ha un po’ ridimensionati. Ha sostituito il preside, alcuni professori sono stati licenziati, ma sono sempre presenti, dietro le quinte. Tutto il resto della provincia sfugge comunque al controllo del Governo, con tanti piccoli centri di potere diversi. E l’ideologia, che è la stessa per tutti, è molto invadente.

Ora i talebani sono sempre più forti e avranno un maggiore peso nel Governo, dopo gli accordi. Quali saranno le conseguenze per le donne, gli attivisti e le minoranze religiose?

Le donne in Afghanistan, da prima dell’arrivo al potere dei talebani ad oggi, sono sempre state sotto pressione e non hanno mai veramente avuto alcun diritto. Non guardate le ragazze che studiano a Kabul o quelle al governo, ma le donne comuni che da sempre sono vittime di violenza sociale e familiare.

Per queste donne, anche se i talebani parteciperanno al governo del paese più di quanto già non lo facciano, le condizioni di vita rimarranno sempre disastrose. Se non saranno i Taliban, sarà Daesh a rovinarci la vita. Non cambierà nulla a causa del cambio di un governo. Cambierà solo quando lo decideremo noi, quando saremo noi a prendere in mano il nostro destino e a combattere, noi giovani afghane. Cambierà quando noi donne inizieremo a leggere, apriremo gli occhi sulla nostra forza e guarderemo questo mondo con occhi diversi.

Per questo vuoi fare la giornalista?

Il giornalismo è uno strumento importante. Una giornalista è vicina alla gente, comunica direttamente con il popolo, sente il suo dolore, documenta la vita quotidiana, parla delle persone comuni, e scrive per loro. Una giornalista fa ascoltare la sua voce, come ho fatto all’università, ma raggiungendo molte più persone.

È un mestiere molto pericoloso qui, soprattutto per una donna.

Certo è un lavoro pericoloso, ma in Afghanistan puoi morire facilmente ogni giorno, ovunque ti trovi. Può arrivarti un razzo in casa, come è successo settimane fa. Siamo sempre in pericolo, tanto vale rischiare per qualcosa di importante, realizzare i propri sogni.

Hai raccontato dei poster delle JPG nella tua camera. Ti piace il movimento delle donne curde?

Quando ero molto giovane, il mio sogno era di andare in Kurdistan. Ovviamente, la mia famiglia era contraria, soprattutto mia madre, perché avevano troppa paura per me.

Un giorno, comunque, mi unirò alle donne curde. Vorrei combattere al loro fianco, nella lotta armata, contro tutti i terroristi e i fondamentalisti. Questi uomini fanatici non meritano altro che una soluzione radicale. Mi piace il fatto che queste donne siano scese in campo, per lottare senza paura e mi piace la loro organizzazione sociale democratica che unisce uomini e donne.

Puoi immaginare un movimento simile in Afghanistan?

Sì, riprodurre il modello curdo del Rojava in Afghanistan sarebbe possibile, ma dipende dalle donne. In passato abbiamo avuto donne coraggiose che lottavano sia nel campo militare che civile. Ce ne sono ancora.

Jamila è sicuramente una di loro. Pochi giorni dopo l’intervista, Malalai Maiwand, una giornalista di Enikas Radio, è stata uccisa in un attacco terroristico insieme al suo autista, in macchina, mentre andava al lavoro. Il suo nome ricorda l’eroina nazionale che incitò le truppe afgane alla ribellione contro l’invasore britannico nel 1880. In passato Malalai aveva raccontato quanto fosse difficile essere una giornalista donna in Afghanistan, ed era considerata un’attivista come sua madre, uccisa anche lei, 5 anni fa per le sue idee.

Sempre più spesso i talebani sferrano questi attacchi ‘mirati’ a persone in vista, professionisti, difensori di diritti umani. Non li rivendicano perché potrebbero danneggiarli nelle trattative in corso ma li pianificano con molta cura. Malalai non è la sola vittima. In due mesi sono stati uccisi 8 giornalisti, di cui uno il giorno di Capodanno e tre il 10 gennaio, dentro la loro macchina.

Cristiana Cella, giornalista, scrittrice, sceneggiatrice. Segue le vicende afghane dal 1980, quando entrò clandestinamente a Kabul, vietata ai giornalisti, per documentare la resistenza della città contro l’invasione russa.  Dal 2009 fa parte del Direttivo dell’Associazione Cisda (Coordinamento Italiano Sostegno donne afghane), ha partecipato a diverse delegazioni in Afghanistan. Ha pubblicato un libro: ‘Sotto un cielo di stoffa. Avvocate a Kabul’, edito da Città del Sole Edizioni.

 

La storia ritorna indietro. La voce di Rawa.

È il 1977, quando un gruppo di giovani donne, sotto la guida di Meena Keshwar Kamal, uccisa dieci anni dopo, nell’87, fonda a Kabul, Rawa, l’Associazione Rivoluzionaria delle donne afghane. Da allora, queste donne, le loro figlie e le loro nipoti, che si sono passate il testimone nel corso degli anni, non hanno mai smesso di lottare per i diritti delle donne e per la democrazia. Una lotta non violenta, una resistenza tenace, coraggiosa e intelligente, che lavora in ogni angolo del paese, anche in quelli più oppressi dalla brutalità e dall’ignoranza.
Hanno aperto spazi nel fanatismo più oscuro, hanno dato speranze, istruzione, possibilità e coraggio, dove tutte le porte sembravano chiuse. Un manipolo di circa mille militanti che spesso, per motivi di sicurezza, non si conoscono tra loro. Lavorano in clandestinità e lavorano con la gente. La loro difesa è il consenso delle persone che sostengono e per le quali costruiscono progetti. Progetti che aiutano nella vita concreta di ogni giorno, con il lavoro, l’istruzione, la costruzione del futuro, ma nello stesso tempo, progetti politici, che danno strumenti per la consapevolezza dei propri diritti e armi per ottenerli.
Queste donne hanno visto passare sulla loro pelle tutte le fasi della Storia afghana degli ultimi 50 anni. Tutte disastrose per le donne e per chi crede nella giustizia. Non si sono mai perse d’animo, adattandosi, ingegnandosi, penetrando profondamente nel territorio, rischiando ogni giorno e portando avanti la piccola grande luce delle loro idee di libertà.

Abbiamo chiesto a Nafas, una di loro, di aiutarci a decifrare il confuso presente afghano e il suo incerto futuro.

Cosa vogliono ottenere, secondo te, Talebani e Daesh con questa escalation di violenza nel paese?

I talebani hanno molto da guadagnare dall’escalation della guerra, così come i loro mecenati dell’esercito pakistano e i militanti islamisti. Per oltre cinque decenni, in Afghanistan, il Pakistan e gli Stati Uniti hanno creato, nutrito e finanziato congiuntamente vari gruppi fondamentalisti islamici, compresi i talebani e Daesh. Ora che gli Stati Uniti promettono di ritirare i soldati e sembrano liberare alcune delle loro basi militari, i talebani e il Pakistan si danno da fare per riempire questo spazio. Un maggiore controllo territoriale consente ai talebani di ottenere più concessioni durante i negoziati, e quindi una maggiore influenza politica per il Pakistan rispetto ai suoi rivali nella regione.

Dopo questi ‘accordi di pace’, in corso ormai da molti mesi, il governo del paese tornerà nelle mani dei Talebani direttamente o indirettamente?

No, non credo che succederà. Non è prerogativa della strategia degli Stati Uniti, lasciare che il potere politico sia detenuto solo dai talebani o da qualsiasi altra singola fazione. Per gli Stati Uniti, una nazione divisa, un governo precario e una situazione instabile in Afghanistan sono l’opzione migliore. I talebani sono già presenti nel governo afghano e ovviamente cercano di ottenere una quota maggiore di potere e di controllo dai negoziati di pace.

 

Un maggiore controllo dei talebani sul territorio potrebbe essere utile agli Usa?

Sì, agli Stati Uniti non importa se i terroristi continuano a versare il sangue di civili innocenti. Ciò che conta per loro è fare un accordo con i “religio-fascisti” che danno al governo degli Stati Uniti un vantaggio competitivo sui suoi rivali economici e militari nella regione, come Pakistan, Russia, Iran ecc. Si accordano con loro e si preparano ad usare le loro pedine talebane. E questo permette anche di mantenere l’occupazione in l’Afghanistan a un costo minimo.

Per il futuro dell’Afghanistan, cambierà qualcosa con l’Amministrazione Biden?

No, non cambierà nulla in Afghanistan. Sono gli oligarchi di Wall Street e i “superhawk” più paranoici del Pentagono a orchestrare le politiche egemoniche degli Stati Uniti, indipendentemente dall’amministrazione che è alla Casa Bianca. Otto anni di amministrazione Obama-Biden sono stati il periodo con il tasso di mortalità di civili più alto da quando gli Stati Uniti hanno invaso l’Afghanistan nell’ottobre 2001.

Qual è la reazione dei warlords, i jihadisti al potere in molte province e presenti al Governo, agli ‘accordi di pace’ tra Usa e talebani e tra Governo e talebani? Cosa c’è all’orizzonte, un conflitto o un accordo?

I talebani e i jihadisti (mujahideen), sono fratelli religiosi, criminali sostenuti e finanziati dagli Stati Uniti, e condividono un’ideologia comune. Un accordo, imposto dallo sponsor di entrambe, non sarebbe difficile tra loro. Il ridicolo negoziato di Doha, sotto la direzione di Usa e Arabia Saudita, non si evolverà in un accordo di pace. Aprirà invece una nuova stagione di maggiore miseria, soprattutto per le donne che vivono già una condizione di forte oppressione. Immaginare talebani e warlords insieme, è un vero incubo. Queste bestie selvagge renderebbero la vita molto più oscura e catastrofica per la nostra gente se si scatenassero insieme.

Quindi potrebbero accordarsi dividendosi il paese….

In parte è già così. Se i talebani si uniranno ai loro fratelli religiosi nel Governo, le tristi conseguenze in ogni settore della società, sono abbastanza prevedibili. Non sarà una sorpresa per noi. Tutti gli afgani hanno fresco nella memoria il regno talebano del terrore. Come i mujahedeen, i talebani potrebbero cercare di mascherare la loro brutta faccia misogina, almeno agli occhi del mondo. In questo sono tutti molto esperti. Il governo afghano ha già iniziato ad accogliere la loro ideologia medievale nelle leggi e nei decreti che emana. E questo avrà implicazioni catastrofiche.

Con questo futuro che si prospetta all’orizzonte, le forze democratiche e i militanti progressisti stanno preparando qualche piano di emergenza per proteggersi?

Le forze laiche e pro-democrazia avranno una sola scelta: resistere a qualsiasi minaccia che impedisca loro di perseguire gli obiettivi per i quali combattono. Le forze progressiste, nel nostro paese, hanno una lunga storia di lotta contro i regimi dispotici, quindi sono completamente preparate per qualsiasi scenario che possa presentarsi. Nel peggiore dei casi, potrebbero entrare in clandestinità.

Come vivono adesso le donne nelle province in mano ai talebani?

Hanno condizioni simili a quelle che avevano durante il governo talebano alla fine degli anni ’90, cioè vengono brutalmente picchiate, fustigate pubblicamente e uccise per aver violato i decreti talebani. Le donne nell’area controllata dai talebani sono private di tutti i diritti: lavoro, visibilità, opportunità di istruzione, voce, assistenza sanitaria e mobilità.

Che cosa prevedi che accadrà nel futuro dell’Afghanistan?

Dal momento in cui gli Stati Uniti hanno invaso il nostro paese, abbiamo assistito a una progressiva tendenza al rialzo della violenza, della corruzione, della produzione di droga, della povertà e delle migrazioni interne di sfollati, una tendenza che continuerà finché l’Afghanistan rimarrà sotto l’occupazione statunitense. Siamo fermamente convinte che una società pacifica basata sulla democrazia e la giustizia sociale non si potrà mai affermare in un paese sotto l’occupazione statunitense e dove il governo è sostenuto da stati reazionari come Iran, Pakistan, Arabia Saudita e Qatar.

Cristiana Cella, giornalista, scrittrice, sceneggiatrice. Segue le vicende afghane dal 1980, quando entrò clandestinamente a Kabul, vietata ai giornalisti, per documentare la resistenza della città contro l’invasione russa.  Dal 2009 fa parte del Direttivo dell’Associazione Cisda (Coordinamento Italiano Sostegno donne afghane), ha partecipato a diverse delegazioni in Afghanistan. Ha pubblicato un libro: ‘Sotto un cielo di stoffa. Avvocate a Kabul’, edito da Città del Sole Edizioni.

 

 

Bombe e promesse

“Sì, io c’ero. Ero alla mia Università, a Kabul, quella mattina del 2 novembre.” Nashrin ha 21 anni, studentessa alla facoltà di Lettere e Lingue.

“La lezione era sospesa. Qualche minuto di pausa, stavamo chiacchierando. Uno di noi è uscito dall’aula ed è tornato subito indietro, terrorizzato. Gridava di uscire immediatamente, dovevamo scappare. C’era un attacco in corso. All’inizio non lo abbiamo preso sul serio, abbiamo capito qualche secondo dopo, con il rumore assordante degli spari, sempre più vicini, e le urla che rimbombavano nei corridoi. Abbiamo avuto fortuna, siamo riusciti ad uscire dall’ Università. Altri compagni non ce l’hanno fatta, sono rimasti intrappolati, feriti o morti. Ho perso due carissimi amici quella mattina. Ogni giorno ci sono attacchi in Afghanistan, anche all’Università ne avevamo già subiti, ma quando ci sei in mezzo, vedi, senti il terrore e provi il dolore della morte di persone care, la vita non può mai più tornare come prima.”

Il Governo, si lamentano gli studenti, non fa niente per proteggerli. Né ha fatto nulla per le famiglie degli studenti uccisi o per i feriti. Nemmeno per far fuori i terroristi, tre, ce l’hanno fatta da soli. Sono intervenute le truppe Nato, unità della missione ‘Resolute Support’. Ragazze e ragazzi si sentono abbandonati, lasciati soli ad affrontare la paura e la morte, la scommessa di restare vivi. Ma sono ancora più severi nelle loro accuse.

“Lo stato afghano, continua Nashrin, è implicato in tutti gli attacchi che avvengono nel paese. Non direttamente, come esecutore, ma è complice. Lascia entrare nel nostro territorio armi e esplosivi, lascia fare. Del resto è ovvio. Il Governo è un mercenario degli Usa, del Pakistan, dell’Iran. E gli Usa, da sempre, sostengono talebani e fondamentalisti di tutti i tipi, usandoli come pedine nei loro giochi. Dunque è chiaro che il Governo non si impegni nella sicurezza.’

Talebani e Daesh si palleggiano le responsabilità degli attentati, negando, rivendicando, negando di nuovo. La firma sulla morte non ha alcuna importanza per questi ragazzi che ogni giorno devono lottare per strappare il loro futuro al disastro. Proprio loro sono diventati l’obiettivo più frequente degli attentati degli ultimi mesi.

“C’è una volontà di distruggere l’istruzione.- conclude Nashrin- Cercano di annientare la generazione futura, vogliono che restiamo tutti analfabeti, senza coscienza di quello che accade nel paese, incapaci di governarci, per poterci manovrare e instaurare i loro governi fondamentalisti senza ostacoli.”

Dasht-e-Barchi, quartiere di Kabul. Li avevo incontrati un anno fa. Ragazze e ragazzi, seduti per terra insieme, uno accanto all’altra, davanti alla vetrata luminosa che proietta le loro ombre intrecciate. Giovani donne e giovani uomini, seri, impegnati, che sorridono compunti, con i loro occhi a mandorla. Sono tutti hazara, sciiti, molti vengono da Bamyan, dove le persone sono più aperte e più ostili al fondamentalismo.

E questo i terroristi lo sanno.

È qui, in questo quartiere, pieno di casermoni in costruzione e polvere, ai margini della città, che l’attentatore si è fatto saltare in aria, la mattina del 24 ottobre, nell’ora in cui gli studenti entravano nel complesso scolastico. 13 ragazzi morti e decine di feriti. Nella foto, la desolazione del dopo, di ogni attentato: terra bruciata, scarpe spaiate, oggetti personali, macchie scure, plastica bruciacchiata, fogli di quaderni. Chissà se c’erano anche loro, i ragazzi che ho conosciuto, quella mattina alle 8:30? Chissà se sono ancora vivi.

“Aiutiamo gli studenti che arrivano qui a Kabul per la prima volta– mi raccontavano- Vengono dalla guerra, dalla povertà, alcuni da Bamyan come noi. Noi siamo i loro fratelli maggiori, li sosteniamo nelle scelte, troviamo un posto dove farli abitare, un piccolo lavoro. Parliamo molto, trasmettiamo le nostre idee di democrazia e uguaglianza, dei diritti delle donne.’

E anche questo lo sanno i terroristi.

Sono loro, questi ragazzi seri e generosi con le loro idee di resistenza, sono loro i nemici. È questo che talebani e Daesh vogliono colpire. I ragazzi di Dasht-e-Barchi hanno, ai loro occhi, due colpe imperdonabili: sono Hazara, sciiti, e vogliono studiare.

Dall’inizio dei ‘colloqui di pace’ gli attacchi, non solo contro gli studenti, si sono moltiplicati, assediano i civili in ogni spazio della loro vita. Secondo l’Onu, c’è stato un aumento dei massacri del 50% negli ultimi tre mesi. Il primo risultato, delle tanto decantate trattative, per la popolazione, è stato questo.

Un esempio. Solo nell’ultimo mese: il 15 dicembre saltano in aria il vice-governatore di Kabul Mahbubullah Muhibbi e il suo segretario. Contemporaneamente, è ucciso un poliziotto, durante un assalto in un’altra zona della città. Il 13 dicembre in due attacchi separati, con bombe e armi da fuoco, muoiono tre persone. Alla periferia di Kabul una bomba magnetica, attaccata a una macchina, fa quattro vittime, mentre, in un’altra zone della città, viene ucciso un Pubblico Ministero. Lo stillicidio di morte quotidiana della capitale. L’aumento giornaliero degli omicidi ‘mirati’.

Un amico anestesista, che lavora a Kabul, ci confessa, per la prima volta nella sua vita, di avere davvero paura: “Un giorno i terroristi uccidono un giornalista, il giorno dopo un medico, o un procuratore o un insegnante. Possono seguirti, controllarti. Non sai mai se e quando toccherà a te.”

Nelle province gli attacchi talebani continuano, ogni giorno, a mietere vittime nella polizia, nell’esercito, tra i civili.

A quale strategia risponde questa micidiale escalation di orrore?

C’è una logica interna al movimento, blandire i più estremisti, c’è la rivalità con Daesh, la guerra tra loro per il controllo del territorio. Ma non solo.

La violenza è un’arma di pressione per ottenere il massimo dai colloqui di pace. Per sedersi a questo tavolo, i talebani hanno già intascato la promessa della partenza delle truppe Nato e il rilascio di ben 5000 loro compari. Non poco.

Il 2 dicembre, finalmente, gli esponenti talebani e il Governo si sono accordati sulle regole procedurali da seguire durante i colloqui veri e propri, che stanno iniziando dal 5 gennaio a Doha.

Hanno stabilito la legittimità del Governo di Kabul, riconosciuto per la prima volta anche dai talebani. Le risoluzioni dell’Onu e le decisioni prese nella recente Loya jirga saranno la base di partenza per le discussioni comuni. Punto spinoso, e rimasto irrisolto: quale codice islamico costituirà la base giuridica dei negoziati? I talebani pretendono il codice Hanafita ma nella rappresentanza del Governo a Doha, ci sono musulmani sciiti che seguono la scuola giuridica Jafari.

Quali che siano i problemi dottrinali, ai talebani conviene giocare la partita.

Si sentono forti adesso, sono i primi attori della scena, sul palcoscenico internazionale.

La guerra ventennale che ha fatto strage di militari e ha orribilmente ucciso e mutilato migliaia di civili (diecimila solo nel 2019), è stata un successo per la galassia terrorista. Successo politico, diplomatico, militare ed economico. Degli ‘accordi di pace’ approfitteranno al massimo. Sono gli interlocutori degli Usa e del fragile e corrotto Governo di Kabul, siedono nelle hall di Doha insieme agli inviati di Trump, tengono in scacco l’esercito afghano, sempre più sconfitto e demoralizzato, e quelli dell’occidente da 19 anni, governano direttamente quasi la metà delle province afghane e altre le controllano indirettamente, sono diventati economicamente autonomi grazie al sempre più fiorente traffico di eroina, acquistata anche dalle grandi case farmaceutiche dell’Occidente e dei minerali preziosi, al ricco sostegno di donatori stranieri e alla domestica attività quotidiana di estorsioni su piccola e larga scala. Un budget complessivo di circa 1,6 miliardi di dollari all’anno. Molti hanno business e proprietà nel vicino Pakistan. Nelle trattative hanno il coltello dalla parte del manico, saldamente tenuto con la violenza e la brutalità di tanti morti civili. L’escalation impone, sotto la spada del ricatto degli attentati continui, traguardi sempre più alti.

Tratteranno per veder riconosciuto formalmente il potere che di fatto già detengono in quasi metà del paese e una partecipazione più estesa e autorevole al governo. C’è chi prevede che riusciranno anche a cambiare la Costituzione. Molto probabile che ne facciano le spese i pochi articoli a favore dei diritti delle donne.

Il Governo guarda al futuro e si porta avanti, cominciando dai bambini.

“Il Ministero dell’Istruzione, racconta Nadia, di Rawa (Associazione Rivoluzionaria delle Donne Afghane) –ha rilasciato una dichiarazione secondo la quale tutti gli alunni delle scuole primarie, nei primi tre anni, devono essere istruiti nelle moschee o nelle madrasa per dare agli studenti una “potente identità islamica”. Questa decisione, oltre a permettere ai mullah di molestare sessualmente i bambini piccoli, avrà implicazioni catastrofiche”.

Il traffico di droghe, eroina e anfetamina, la nuova scoperta, continuerà indisturbato a riempire le casse talebane. Nessuno ovviamente lo dice, ma è plausibile che ci sia anche questa clausola negli accordi.

Possono perfino permettersi di non rispettare le promesse, come quella di tagliare i ponti con Al Qaeda. Un documento segreto della Nato, reso pubblico il mese scorso, mostra la consapevolezza degli americani che non si fanno alcuna illusione su questo impegno. Yakoub, il nuovo futuro capo talebano, potrà tranquillamente calcare le orme di suo padre Omar. Il documento conclude che per far fuori i talebani, come è stato per i gangster americani, bisogna colpirne le finanze. Tracciare, bloccare, mandare a monte i numerosi business, soprattutto eroina e minerali preziosi.

20 anni di massacri di militari e civili, uomini, donne, bambini soprattutto, e ci si ritrova come nel 2001, solo che i terroristi sono molto più forti e gli attacchi sempre più sanguinari.

La gente ha paura, soprattutto le donne.

Pashtana è direttrice dell’Orfanotrofio di Afceco, che ospita 62 ragazze.

“Ce lo dice la nostra Storia. Con l’avanzata dei talebani siamo minacciati dal ritorno di un passato spaventoso. Per questo siamo molto preoccupati per i pericoli che assediano le nostre studentesse e per le minacce che riceviamo. In questo momento la sicurezza è una priorità, più urgente del solito, e ci stiamo attrezzando.”

L’Afghanistan del futuro potrebbe essere sempre più simile all’Emirato Islamico di triste memoria e sempre meno a una, anche solo di facciata, democrazia. Un mondo in cui i diritti umani e soprattutto quelli delle donne saranno sacrificati. Se con i ‘colloqui di pace’ cambierà qualcosa, è poco probabile che sia in meglio.

Cristiana Cella, giornalista, scrittrice, sceneggiatrice. Segue le vicende afghane dal 1980, quando entrò clandestinamente a Kabul, vietata ai giornalisti, per documentare la resistenza della città contro l’invasione russa.  Dal 2009 fa parte del Direttivo dell’Associazione Cisda (Coordinamento Italiano Sostegno donne afghane), ha partecipato a diverse delegazioni in Afghanistan. Ha pubblicato un libro: ‘Sotto un cielo di stoffa. Avvocate a Kabul’, edito da Città del Sole Edizioni.

Talebani e Covid

La voce è suadente, carezzevole e parla inglese. Accompagna con cura le immagini, le culla.

Kalashnikov e termometro

Un gruppetto di talebani, lanciarazzi in spalla, turbante bianco e mascherina chirurgica, che trattiene a stento un’indomabile barba nera, puntano la ‘pistola’ alla fronte dei loro compaesani, per misurare la temperatura. Altri, armati solo della completa tenuta d’emergenza, nuova di zecca, camice, tuta, mascherina e guanti, distribuiscono kit di disinfezione alla popolazione, opuscoli con le regole da seguire, materiale sanitario, eseguono test, mentre in secondo piano passano le ambulanze. La voce, in una surreale atmosfera pacata, elenca lentamente tutto quello che la Commissione Sanità dell’Emirato Islamico dell’Afghanistan fa e farà, per proteggere la popolazione, casa per casa, villaggio per villaggio.

È uno dei tanti video, prodotti dai talebani, che circolano al tempo del Covid, in Aghanistan. Una nuova veste del gruppo, lontana dalle esposizioni gloriose consuete, sconosciuta per la popolazione. Sono riusciti a stupire, dopo 25 anni.

I migliori mujahiddin- proclamano i talebani-hanno lasciato i campi di battaglia per trasformarsi in personale sanitario. Assicurano i cittadini che il governo dell’Emirato ha la pandemia sotto controllo. I rimpatriati dall’Iran, che si muovono nelle loro province, sono sottoposti a test. Matrimoni, funerali, riunioni sono vietati, compresa la preghiera in moschea. Ognuno preghi Allah per conto suo, mangi cibo halal e vegetali con vitamina C che saranno distribuiti alla popolazione. Incoraggia i credenti, che fanno le abluzioni prima di ognuna delle cinque preghiere giornaliere, ad usare, nell’occasione, anche il sapone. Si vedono uomini di tutte le età, delle donne nemmeno l’ombra, naturalmente, seduti in un cortile, che partecipano a un seminario informativo sul virus, ascoltano seri le raccomandazioni, e intascano mascherine e sapone. Ringraziano compiti. Ringrazia anche il Ministero della Salute, seppure con riserva. I talebani proclamano di garantire un passaggio sicuro nelle province sotto il loro controllo, al personale sanitario governativo e della Croce Rossa e di avere istituito centri per la quarantena dei contagiati.

Questo è il messaggio che deve passare: la Commissione si occupa della popolazione e della lotta comune al Corona virus. E se ne occupa meglio del Governo.

Il virus fornisce ai talebani un ottimo teatro per la propaganda: legittimare se stessi come governanti del paese e delegittimare il Governo di Kabul. Basta solo mostrarsi un po’ meno incompetenti. Non ci vuole molto. La campagna di prevenzione viene lanciata a fine marzo dalla provincia di Jowzjan e Logar e continua la sua strada. Si moltiplicano i video e gli inviti ai meetings. Ma non tutti si lasciano incantare. Una messinscena , dicono alcuni. In realtà del virus non sanno niente, proclamano altri. I mezzi di soccorso sono bloccati sulle strade controllate dai talebani. C’è chi ha verificato sul campo e ha scoperto che il misuratore di temperatura è fatto di legno e plastica. Finto.

“Se vogliono davvero far funzionare la campagna antivirus e salvare le persone, dice Mirwais, abitante del Nangarhar, per prima cosa devono smettere di spararci addosso e aderire al cessate il fuoco.”

Ma qui i talebani non ci sentono. Il cessate il fuoco per superare la crisi, proposto da Governo e Nazioni Unite, è rifiutato dai talebani. La guerriglia continua, almeno contro le forze governative. Gli attentati aumentano, come gli attacchi ai presidi sanitari. Secondo UNAMA, nella prima ondata Covid, dal 11 marzo al 23 maggio 2020, ci sono stati più di 15 attacchi mirati agli operatori sanitari.

Il Ministero ha fatto presente che, in pieno conflitto armato, non è possibile alcun contrasto al virus. Ma i talebani portano avanti la loro doppia immagine, senza scomporsi, terroristi e crocerossini. Fucile e termometro.

Entrambe utili a sfruttare la pandemia per i propri fini. I talebani hanno capacità tecnologiche, dimestichezza con internet e social media, e curano la propria immagine con perizia. Con immagini accattivanti e promesse si conquistano seguaci. Ma anche con l’ordine sociale e amministrativo. Ci tengono a mostrarsi capaci di governare, del resto l’hanno già fatto. E governare meglio di Kabul. A questo aspetto i talebani lavorano da tempo. Lo sanno fare. Sia nei distretti che controllano direttamente sia in quelli in cui gestiscono il potere in una sorta di ‘governo ombra’. Le tasse, le bollette dell’elettricità, le rate scolastiche si pagano ai talebani. Tasse che, spesso, sono vere e proprie estorsioni.

“Ogni distretto è diverso, il potere è distribuito a macchia di leopardo fin nei più piccoli villaggi. Una continua contrattazione. I talebani hanno diverse strategie per gestirlo – dice Narghez di Rawa- Sostanzialmente tre. O controllano direttamente e apertamente il territorio, o c’è la guerra aperta con le autorità governative, o accettano i governatori nominati da Kabul, completamente esautorati, ‘governatori fantasma’, e gli fanno fare quello che vogliono, governando attraverso di loro.”

Purtroppo, l’ordine talebano, con le sue aberranti regole, precise, basate sul Corano e non discutibili, è apprezzato da una parte della popolazione. Maschile, di sicuro. Per le donne è e sarà lo stesso inferno degli anni ’90.

C’è un’ipotesi o meglio una speranza: che un disastro o una calamità naturale possano favorire la pace, tutti uniti contro il comune nemico, smettiamo di ucciderci. Ma è stata quasi sempre delusa. Sono pochissimi nel mondo i casi in cui questa logica ha funzionato. L’Afghanistan non è tra questi.

Il virus all’attacco dei taleban.

Qualcosa di buono sembra che il Covid l’abbia fatto. Ha decapitato la dirigenza talebana.

Secondo diverse fonti, Hibatullah Akunzada si è ammalato ed è morto di Covid. Nessuna conferma ufficiale ma il capo talebano non si è più visto e c’è un nuovo leader in ascesa. Una poltrona non di tutto riposo. I talebani sono un movimento composito, con interessi e padroni diversi e contrastanti. Non è facile farsi accettare e tenere insieme le diverse fazioni, due soprattutto: Rete Haqqani , vicina ad al Qaeda e all’Isi (Servizi segreti pakistani), e la shura di Quetta.

Nel maggio 2016, quando l’allora dirigente Mansour, è ucciso da un drone americano, lo scettro passa ad Akunzada, un mullah, uno studioso, esperto di testi sacri, della giustizia islamica, responsabile delle fatwa emanate dal gruppo. Era stato il vice di Mansour insieme a Sirajuddin Haqqani. Una volta al potere, sceglie con cura i suoi luogotenenti: lo stesso Haqqani, comandante della potente rete, e Muhammad Yakoub, giovane figlio del mullah Omar. Entrambe le fazioni sono soddisfatte. Ma ecco che il virus si porta via anche il secondo di Akunzada, Sirajuddin Haqqani. Malato, morto o troppo debole per il comando, non si può dire con certezza ma, anche lui, sembra fuorigioco.

Così il Covid spiana la strada all’ambizioso Yakoub che non vedeva l’ora di emergere. Un documento della Nato lo vede già al comando entro quest’anno. Il giovane leader, capo della Commissione militare talebana, amico del Pakistan, dovrà mantenere il favore dei membri della shura di Quetta, di cui fa parte, e tenere a bada la rete Haqqani.

Finora si è mostrato favorevole agli accordi di pace. Ha al suo fianco mullah Baradar, vicino al padre, negoziatore capo a Doha con gli Usa. Ma le fazioni interne non sono sempre d’accordo. I più radicali, contrari ai colloqui, emigrano verso Daesh. E lui dovrà frenare l’emorragia. L’intensificarsi degli attacchi di questi ultimi mesi, potrebbero servire anche ad accontentare gli estremisti.

Pare che Yakoub possa contare anche sull’appoggio dell’Arabia Saudita, impegnata a contrastare, all’interno della galassia talebana, gli uomini filoiraniani, contrari agli accordi. A sentire le testimonianze, il giovane leader, non sembra ancora molto popolare. Fino al 2015 non era nessuno. Un figlio di papà, insomma, all’ombra del grande carisma del mitico fondatore Omar. Su questa base fa strada. Ha soldi per fidelizzare i seguaci. Entra nella shura di Quetta e diventa capo della Commissione militare di più della metà delle province afghane.

Nell’ambiente dell’intelligence afghana viene descritto come un giovane uomo molto furbo, legittimato dalla famiglia e molto centrato su se stesso. Poco consapevole della realtà afghana, avendo vissuto sempre in Pakistan. Addestrato alla guerriglia da un gruppo terrorista pakistano responsabile di attentati contro obiettivi indiani in Afghanistan e in Kashmir. Sembrerebbe quindi una pedina sicura per il Governo pakistano. Ma nonostante le critiche, non va sottovalutato affatto.

Ha capacità diplomatiche e militari e, poi, Yakoub si occupa di soldi. Tanti. Le finanze talebane sono prospere. Il capitale ammonta circa a un miliardo e 6 di dollari l’anno. E Yakoub si impegna ad espanderlo ulteriormente, nei suoi principali settori: traffico di droga, minerali preziosi, estorsioni e donazioni.

Vedremo se riuscirà a sfuggire al virus e alle numerose insidie del destino di un capo.

Nel frattempo, a Doha, i negoziati in corso tra il governo afgano e i Taliban sono arrivati a un punto di svolta. Se fino ad ora, dal 12 settembre, le discussioni vertevano esclusivamente sulle regole procedurali che costituiscono la base legale dello svolgimento delle future negoziazioni, a inizio dicembre le due parti sono arrivate ad un accordo. Certo, trovare un punto di incontro sulle regole del gioco è stato un passo importante, ma quella che si apre ora è una finestra di discussione su temi pungenti e fonte di grande disaccordo: i diritti delle donne, l’istruzione, un cessate il fuoco permanente. Il 5 gennaio inizia il confronto, sempre a Doha, perché i talebani si sono rifiutati di spostare i colloqui in Afghanistan.

Cristiana Cella, giornalista, scrittrice, sceneggiatrice. Segue le vicende afghane dal 1980, quando entrò clandestinamente a Kabul, vietata ai giornalisti, per documentare la resistenza della città contro l’invasione russa.  Dal 2009 fa parte del Direttivo dell’Associazione Cisda (Coordinamento Italiano Sostegno donne afghane), ha partecipato a diverse delegazioni in Afghanistan. Ha pubblicato un libro: ‘Sotto un cielo di stoffa. Avvocate a Kabul’, edito da Città del Sole Edizioni.

Rukhshana

La storia di Rukhshana, è come quella di Giulietta e Romeo, ma è ambientata in Afghanistan.

Nasce in una provincia povera del Nord, il Panjshir. Dopo la sua nascita, la famiglia si sposta a Kabul e va a vivere in un vecchio quartiere, in quelle case colorate, una attaccata all’altra, che si arrampicano sulla collina, in mezzo alla città, senza acqua né luce. Il padre è un lavoratore a giornata e fa molta fatica a sfamare la famiglia. Ha una mentalità chiusa e tradizionalista e non permette alle figlie di andare a scuola. Rukhshana è ancora una ragazzina quando si innamora perdutamente del figlio dei vicini, ricambiata con gioia. Il ragazzo va a casa sua diverse volte per chiederla in sposa e viene sempre rifiutato. Rukhshana è picchiata dai fratelli e dal padre e minacciata di morte se continua a frequentarlo. La sola ragione dell’opposizione della famiglia è la povertà del ragazzo. L’innamorato non si rassegna, ma il padre di Rukhshana minaccia di ucciderlo se continuerà a proporsi come fidanzato.

Rukhshana e il ragazzo non riescono a far cambiare idea al padre, ma sono innamorati e determinati a sposarsi ad ogni costo.

Un giorno, la famiglia decide di tornare in Panjshir. Rukhshana li sente parlare da dietro la porta. È spaventata, disperata. Sarebbe la fine del loro amore. Decide che è il momento di prendere in mano il suo destino. Pianifica con cura i dettagli, e scappa di casa per unirsi al ragazzo che ama. L’amore rende forti e arditi. La famiglia è furiosa. Hanno disobbedito, hanno sfidato le regole e l’autorità del padre. Devono essere puniti. Ma le ricerche non danno nessun esito. I due ragazzi sembrano spariti, la città è grande e piena di gente. La fortuna li assiste. Ce l’hanno fatta. Decidono insieme di andare in Pakistan per poter vivere il loro amore in pace, e lì si sposano come avevano deciso da molto tempo. Costruiscono la loro vita piena di amore e di cura l’uno per l’altra. Hanno 4 figli, due maschi e due femmine. Nonostante le povere condizioni di vita, sono molto felici. Rimangono in Pakistan diversi anni, solo per proteggersi dalle possibili ritorsioni della famiglia di lei.

Ne passano 14. I due sposi pensano che ormai la famiglia di Rukhshana li avrà dimenticati o perdonati. Così decidono di rientrare in patria.

Purtroppo si sbagliano. Solo una settimana dopo il loro arrivo a Kabul, il marito di Rukhshana viene ucciso dal fratello della donna.

Rukhshana è distrutta da questa tragedia. Ha perso l’uomo che ha tanto amato e si ritrova sola con quattro figli da mantenere e nessun mezzo per farlo. È analfabeta, senza istruzione né capacità di lavorare. Una vedova in Afghanistan non esiste, non ha diritti, né possibilità di decidere. È costretta a vivere con la famiglia del marito, e a sottostare ad ogni loro richiesta. Così fa Rukhshana, vive sotto tutela del cognato. Sta, adesso, con i suoi figli, in una stanza che lui le paga, ed è costretta ad obbedire a tutte le decisioni che il cognato prende per lei e per i suoi figli. Le figlie non hanno il permesso di studiare e sono confinate in casa. Solo il maschio più grande, di 13 anni va a scuola e il resto della giornata lavora. Porta dei carichi di spazzatura fuori dalla città e questo gli permette di avere un piccolo guadagno. Rukhshana, come vedova, secondo le idee della famiglia, non può lavorare. Se prova a cercare lavoro la picchiano e la insultano. È prigioniera.

È molto angosciata e pensa di non riuscire ad andare avanti con una vita così miserabile, senza dignità, né rispetto, né futuro per lei e per i suoi figli. È dipendente in tutto dai parenti del marito. La sua vita e quella dei suoi figli sono nelle loro mani. Deve obbedire a qualsiasi ordine.

“Non desidero altro che uscire un giorno da questa situazione in cui sono imprigionata. Vorrei poter decidere per me e per i miei figli, poterli mantenere e soprattutto mandarli tutti a scuola perché non siano senz’armi, né possibilità in questa difficile vita. La sola ragione per la quale ho bisogno di aiuto è quella di salvare i miei figli da questa vita miserabile e poterli aiutare a diventare degli esseri umani fieri di se stessi come il loro padre ha sempre sognato” – dice Rukhshana. Rompere la dipendenza economica è il primo, fondamentale, passo.

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Una storia del progetto Vite preziose.

La fotografia è di solo carattere grafico e non rappresenta la donna protagonista della storia. Data la attuale situazione in Afghanistan, per evitare l’identificazione delle donne i nomi sono stati modificati, così come i luoghi dove si svolgono i fatti.

Afghanistan: la marcia del virus

Per donne e bambini l’Afghanistan è il peggior paese dove vivere. Per il Corona virus è senz’altro il migliore nel quale prosperare. Arginarlo e difendere la popolazione è stato impossibile. Gli alleati del virus sono molti, gli ostacoli opposti pochissimi. La popolazione è in larga parte contagiata.

I dati sono inattendibili, il Governo non è in grado di rilevarli. 123.965 tamponi su 37 milioni di persone. (Ministero della Salute Afghano, novembre). Mancano gli strumenti e la disponibilità della popolazione che non ha nessuna voglia di farsi testare. Non esiste un registro nazionale delle morti. La sottostima è evidente. Pochi denunciano i propri cari malati.

La densità di popolazione è altissima nelle grandi città afgane, con Kabul in testa che raggiunge 4500 abitanti per km², famiglie numerose, spazi abitativi piccoli. La distanza sociale è improbabile. Chi scappa dalla devastante guerra di terra tra esercito e talebani, che rende impossibile la vita in molte province del paese, chi torna dall’estero e non ha più il suo posto, approda nelle grandi città, Kabul soprattutto. Profughi interni, Internally Displaced People, IDP, così sono definiti. Vivono nei campi profughi, incuneati nel centro cittadino, che si fanno spazio tra i palazzi di vetro, i Wedding Centers, o ai margini pericolosi della città. Muri di argilla, tetti di eternit o di plastica, tende dell’esercito, tappeti, teli, polvere e fango. Ripari aggrappati uno sull’altro. Villaggi dentro la città, precari e fatiscenti, abitatissimi, senza servizi igienici né acqua potabile, al massimo una pompa per strada. L’inverno è un incubo che uccide i neonati. Hanno forza e dignità queste persone e prendono la loro capacità di resistenza dalla reciproca vicinanza. Si aiutano, si sostengono, si passano il virus.

Migliaia di persone sono in movimento costante dentro il paese, per tornare a casa dall’estero o per scappare altrove. 13 donne sono morte, l’ottobre scorso, tra montagne di passaporti abbandonati, schiacciate e calpestate dalla folla che, nello stadio di Jalalabad, nel Nangarhar, si accalcava per ottenere i visti per il Pakistan. Per lavorare, per curarsi, per vivere una vita più sicura.

Gli ospedali sono pochi, male attrezzati, con personale incompetente, in alcuni manca perfino l’acqua pulita per lavarsi le mani. Nelle zone dove la guerra è incessante, come Helmand, Kandahar, Uruzgan, gli ospedali sono pieni di feriti di guerra, in continuo aumento, e non hanno posto per gli ammalati di Covid. Medici e infermieri, già insufficienti, si contagiano per mancanza di protezioni e lasciano ancor più sguarniti i presidi sanitari. Altri, senza stipendio da mesi, abbandonano il loro posto. I posti letto scarseggiano, mancano ventilatori, medicinali, ossigeno, che i pazienti devono comprare a loro spese. C’è chi non riesce a farsi accogliere nell’ospedale e chi dall’ospedale scappa, spaventato dalle condizioni di cura. Nelle province, i pochi presidi sanitari sono bersagli degli attacchi talebani, o vengono coinvolti nella guerra quotidiana. Sono luoghi ad alto rischio che spaventano personale e pazienti. Può capitare, ad esempio, di saltare per aria su uno IED (ordigni esplosivi improvvisati), nascosto nell’ospedale dai talebani.

Non potrò mai dimenticare l’angoscia di quella corsa in macchina, ci dice Shazia. Abbiamo caricato mio marito, malato di Covid, e abbiamo cominciato a girare per tutti gli ospedali sperando che lo potessero aiutare. Nessuno ci ha accolto. Sulla soglia di casa è morto.”

Eppure gli aiuti della Comunità Internazionale per l’emergenza sanitaria sono stati massicci. Solo qualche esempio: 100,4 milioni di dollari dalla Banca Mondiale, 117 milioni di euro dall’Unione Europea, 40 milioni dall’Asian Development Bank, assistenza tecnica e finanziaria dal Governo Cinese e dall’OMS. Denaro sparito, come sempre, nei meandri della corruzione, del Governo e di chi, nella diffusa rete di potere, si divide la torta.

La società afghana con le sue regole tradizionali e religiose, è stata la culla del contagio. In un primo tempo, i mullah pontificavano in moschee gremite che il virus era la punizione per gli occidentali infedeli, che Dio avrebbe protetto i credenti. Bastava pregare, tutti insieme. In seguito moschee e luoghi di preghiera sono stati chiusi. Ma era tardi.

Quasi nessuno denuncia un parente morto di Covid: la famiglia non potrebbe lavarlo, prepararlo ed eseguire, alla presenza di tutti, i riti funebri, sacri per tutti gli afghani. Per lo stesso motivo non cercano nemmeno di ricoverarli negli ospedali. Morire da soli è inconcepibile.

Il Governo nasconde la realtà, e la popolazione nasconde i propri malati e i propri morti. Il contagio isola, ostracizza, abbandona. Diventa una vergogna. E la vergogna, come l’onore, hanno nella società afghana un potere terribile. Molti all’inizio non ci credevano o preferivano non crederci ma il virus è arrivato in pompa magna e non se n’è più andato.

Era il marzo 2020. L’Iran era un passo avanti. Già il sistema sanitario crollava, le fabbriche chiudevano. Migliaia di lavoratori afghani, 159.000 alla fine di marzo, si sono ammassati alla frontiera per tornare in Afghanistan, nei loro luoghi d’origine. Portando con sé il contagio e distribuendolo ovunque, Herat, il primo cluster, Kabul, con il numero più alto di contagi, Balkh , Kandahar, il Nangarhar. Il flusso non si è fermato. Nell’ottobre scorso gli afghani che hanno attraversato la frontiera con L’Iran, sono ancora 25.917 (OIM Organizzazione Internazionale delle Migrazioni), per un totale di 597.000.

A fine marzo, il Governo si decide e decreta il lock down. Come molte altre nazioni del mondo. Ma l’Afghanistan non è una nazione come le altre.

Quasi la metà della popolazione vive sotto la soglia di povertà, il 40% con meno di un dollaro e 25 al giorno. Moltissimi sono i lavoratori giornalieri. Aspettano, all’alba, sdraiati nelle loro carriole, con le scope o le cazzuole in mano, nelle piazze di Kabul, aspettano di trovare il pane per la famiglia quel giorno, almeno quello, poi si vedrà. Molti sono gli ambulanti che lavorano per la strada, con piccoli chioschi di verdura, di pezzi di ricambio, di legna, di zuppa calda o di ‘bolani’ (involtini di verdure). Il lock down li taglia fuori dalla sopravvivenza. La maggioranza delle famiglie non è in grado di assorbire lo schock economico del virus. Un effetto domino devastante che ha scoperchiato una catena di disastri. La vita qui è fragile, fragilissima. Basta un passo sbagliato, un soffio avverso del vento, per spezzarla. E il Covid, si è abbattuto come un tifone su una popolazione stremata da 40 anni di guerra e violenza ininterrotte, da un governo fondamentalista, da un esercito di occupazione, dal dominio ottuso e brutale di talebani e signori della guerra, dalla differenza di genere più alta al mondo, dalla miseria che da tutto questo deriva. Vite in bilico, come castelli di carte.

“Nouria -racconta Shafiqa Nouri, direttrice della ONG HAWCA (Humanitarian Assistence for Women and Children of Afghanistan)- è vedova e da molti anni ormai mantiene la sua famiglia, tre figli e un cognato disabile, con il suo lavoro. Fa le pulizie nella casa di un vicino. E’ brava, precisa, attentissima a non perdere quel lavoro che fa sopravvivere i suoi cari. 200 afghani (moneta locale) al giorno, non molto ma è felice di poter sostenere i suoi figli. Improvvisamente il lavoro sparisce. La gente ha paura del contagio e non vuole estranei in casa. Rimane sotto shock per diversi giorni, non sa che fare per i suoi. Niente, nessuna possibilità, nessuna idea. Non le resta che mendicare. Ma non sa come si fa e non è la sola, la competizione è alta. I mendicanti, l’ultimo anello della sconfitta, invadono le strade delle città. Prova a combattere, a conquistarsi uno spazio. Non ce la fa. Non ce la fa nemmeno il figlio più piccolo, il più fragile. Il cognato scompare di casa, è perso. Nouria si decide a chiedere aiuto agli anziani del quartiere, forse le troveranno un lavoro. La guardano, è bella, giovane, sono d’accordo. Eccolo il lavoro. Pagheranno per le sue prestazioni sessuali.”

La strada di Nouria porta soltanto lì e i figli rimasti devono vivere.

Gli uomini senza lavoro perdono la testa. Aumentano i tentativi di suicidio. E, soprattutto, la violenza domestica contro donne e bambini. “Il numero dei casi di violenza che arrivano al nostro Shelter (Casa Protetta) è in continuo aumento.” Continua Shafiqa Nouri. Durante il periodo di quarantena, secondo un’indagine di Save the Children, 3 bambini su 10 e 4 donne su 10 hanno subito violenza domestica, psicologica e fisica. E per loro l’assistenza sanitaria è un miraggio.

“In questo momento, ci racconta Sabira, la maggior parte degli uomini sta a casa ed è coinvolta in qualunque cosa gli succeda intorno. L’uomo non ha lavoro, non riesce a mantenere la famiglia, è frustrato e nervoso. Ecco che inizia a gridare per qualunque sciocchezza. Così fa anche mio marito. Picchia anche la sua seconda moglie oltre a me, ogni giorno, per qualunque cosa. Non è capace di guadagnare nemmeno un afghano. Ha perso il lavoro per la quarantena e adesso è diventato tossicodipendente. Nella nostra casa non c’è più niente, è vuota, completamente vuota. Abbiamo venduto tutto quello che potevamo per comprare da mangiare e per le medicine.”

La speculazione dilaga. Cibo e medicine costano sempre di più e diventano irraggiungibili per molti. “Sono davvero spaventata, – dice Shogofa- i miei vicini di casa, per curare il padre malato di Covid, hanno venduto la figlia di 12 anni. Non so cosa potrà succedere.”

Sono i bambini i più vulnerabili. Specialmente quelli che già sopravvivevano in una condizione precaria. Secondo Save the Children, un terzo della popolazione , che include 7 milioni di bambini, dovrà affrontare la denutrizione. I bambini afghani, anche prima del virus, erano esposti ad alti rischi quotidiani. La vita per loro è un percorso di guerra: violenza, sfruttamento, matrimoni forzati, malnutrizione, abusi, arruolamento forzato. Le sfide per sopravvivere sono molte. Il virus peggiora le cose, rendendo i piccoli sempre più spaventati davanti alla vita che li aspetta.

Il business della droga è più fiorente che mai. Prospera nella disperazione e trova manodopera a basso costo nell’esercito dei disoccupati e degli studenti delle città. Lavorare nei campi di oppio è uno dei pochi lavori rimasti.

Il lock down non può durare in Afghanistan. La fame è più forte. La vita, infatti, ritorna a brulicare per le strade di nuovo affollate. I pochi che possedevano mascherine, guanti e disinfettante, li vanno a vendere. Solo chi ha consapevolezza dei rischi, chi ha un’istruzione, continua a proteggersi. Ma sono pochi.

Intanto gli attentati di talebani e Daesh, in un’escalation di violenza, fanno più paura del Covid.

Sì, – dice Pashtana, direttrice dell’orfanotrofio di Afceco – il Covid-19 è una malattia che colpisce individualmente, i talebani, quando attaccano, colpiscono centinaia di persone. E non basta la mascherina a proteggerci. ”

Tutto torna come prima, nell’insicurezza che la gente conosce da 40 anni. Il virus ormai non si contrasta più.

Le scuole e le università hanno riaperto, racconta Shafiqa Nouri, come i negozi, gli uffici del Governo e quelli privati, le ONG. Così come i ristoranti, le Wedding Hall, i posti per i pic nic. Nessuno si prende cura di se stesso, nemmeno l’uno per cento usa la mascherina a Kabul. Ma non vuol dire che l’epidemia sia sotto controllo. Al contrario imperversa liberamente. Tutti i test che vengono fatti sono positivi e il numero dei morti continua a crescere.”

La vita media per le donne è di 44 anni e poco di più per gli uomini, i vecchi sono pochi. Ma le persone sono spesso malate, mal curate e, ora, ancor più debilitate dalla mancanza di cibo. Così il virus se le porta via. Continua la sua marcia tranquillo, lasciando dietro di sé cicatrici profonde. La morte in Afghanistan, non fa notizia, è consapevolmente presente in ogni spazio della vita. Si muore per malattie banali, di parto, appena nati, per attacchi suicidi, per bombardamenti, per esplosioni di Ied, per battaglie, per i capricci dei più forti e la brutalità degli uomini, per violenza nella famiglia. Il Covid si accomoda tra le numerose cause di morte del paese. È solo una delle tante. Il difficile, sempre, di nuovo, è sopravvivere.

Cristiana Cella, giornalista, scrittrice, sceneggiatrice. Segue le vicende afghane dal 1980, quando entrò clandestinamente a Kabul, vietata ai giornalisti, per documentare la resistenza della città contro l’invasione russa.  Dal 2009 fa parte del Direttivo dell’Associazione Cisda (Coordinamento Italiano Sostegno donne afghane), ha partecipato a diverse delegazioni in Afghanistan. Ha pubblicato un libro: ‘Sotto un cielo di stoffa. Avvocate a Kabul’, edito da Città del Sole Edizioni.