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Afghanistan: aiutiamo chi scappa, ma anche chi resta

Cisda: “La vera emergenza afgana è la questione democratica”
La famiglia di Sahar, con due bambini, sta attraversando oggi la porosa frontiera col Pakistan. Per cercare scampo dai talebani e superare il confine afghano, ogni persona ha pagato ai trafficanti 12000 rupie pachistane, mentre il viaggio normalmente ne costerebbe 2000.
Il prezzo è in continuo aumento, la domanda in crescita. Quindi, anche questa volta, fugge solo chi può pagare.
Con questa famiglia, di cui noi del Cisda (Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane) abbiamo notizia certa, ci sono molti altri afghani.
Affrontano lunghi tragitti a piedi ed enormi pericoli, senza che la loro sorte sia sotto i riflettori.
Dall’aeroporto di Kabul, intanto, sono già partiti diciottomila cittadini. Un’intera generazione di intellettuali e professionisti che prende letteralmente il volo verso l’Occidente.
È comprensibile che chi può fugga. Il terrore delle perquisizioni nelle case, l’incubo per le ragazze di finire in “sposa” a un combattente, le violenze e le vendette che accompagnano la presa del potere specie nelle aree rurali e remote senza testimoni, sono una tragedia innegabile che sta provocando soprattutto ulteriori rifugiati interni.
Questi erano, secondo dati ONU, già due milioni a causa degli ultimi 20 anni di guerra, per sfuggire ai bombardamenti e agli scontri di cui la Nato è stata tra i protagonisti.
Il riconoscimento dello status di rifugiato e il diritto d’asilo a chi è in pericolo sono sacrosanti e vanno applicati, secondo la Convenzione di Ginevra.
Ma trasferire in massa decine di migliaia di afgani, in Occidente o nei paesi limitrofi, non rappresenta una soluzione politica alla crisi del paese di cui siamo corresponsabili.
Un Afghanistan privato dei suoi elementi più colti, di chi sarebbe in grado di rafforzare l’alternativa democratica, sarà più facilmente asservibile agli interessi geopolitici che da sempre sono alla base delle continue interferenze nel paese.
In questo gli interessi dei talebani e di potenze straniere sono convergenti, e non è una bella notizia. Una convergenza intorno alla vera emergenza afghana: la questione politica e democratica.

CISDA risponde all’articolo di Giuliano Battiston del 4 maggio su “il manifesto”

Lettera inviata al “il manifesto” il 7 maggio 2019

Cari compagni del “il manifesto”,

abbiamo letto il pezzo di Giuliano Battiston del 4 maggio nel quale si parla della Loya Jirga a Kabul e siamo in totale dissenso. A partire dalla foto, che vede una platea di donne plaudenti.

Diciotto anni fa gli USA hanno occupato il paese e ne decidono ogni passo, a partire dalla scelta dei presidenti. Hanno dato armi e potere istituzionale a gruppi di criminali jihadisti che sono tutt’altro che espressione della democrazia. Hanno lasciato che i diritti delle donne e i diritti umani continuassero a essere calpestati (e basta andare a leggere i report di HRW per scoprirlo), hanno lasciato che la produzione e il traffico di eroina si alzasse fino ad arrivare al 95% della produzione mondiale. Hanno lasciato che nel paese penetrasse l’IS, che ogni giorno organizza attentati ai danni della popolazione civile. I talebani, quelli che gli USA hanno usato come pretesto per invadere un paese fondamentale dal punto di vista geostrategico e delle risorse, ora sono stati tolti dalla lista delle organizzazioni terroriste e sono coloro con cui si cerca di trattare in cambio di concessioni che andranno a peggiorare ulteriormente la condizione delle donne e della popolazione civile. Come si fa a credere che un gruppo di terroristi che, come l’IS, non fa che organizzare attentati per affermare la sua supremazia, che lapida le donne nella pubblica piazza per adulterio, che impedisce alle ragazze di frequentare la scuola possa avere “punti comuni” con un sistema democratico?

RAWA, l’Associazione Rivoluzionaria delle Donne Afghane, in un recente comunicato scrive che “il popolo afghano vuole la pace con tutte le sue forze, ma fare pace con i talebani, che così avranno più potere e privilegi di prima, significa tornare nell’inferno che la nostra gente ha vissuto durante il loro regime. Questa “pace” metterà solo le basi per nuove guerre, più devastanti e distruttive”.

Dichiarazioni analoghe sono state fatte da Hambastagi (il Partito della Solidarietà afghano), da Malalai Joya (ex deputata ancora in clandestinità per le minacce ricevute) e da Bilquis Roshan (senatrice nel parlamento afghano).

Se gli USA e la coalizione internazionale che li ha sostenuti avessero davvero voluto portare pace in Afghanistan avrebbero speso i miliardi di dollari che sono stati bruciati in questa vicenda per sostenere le forze laiche e democratiche del paese, invece di cercare alleanze con un pugno di criminali di guerra.

Il CISDA è un’associazione che lavora dal 1999 a fianco di diverse organizzazioni democratiche che lavorano in Afghanistan, sostenendo i loro progetti politici e sociali; abbiamo costanti contatti con loro e almeno una volta all’anno organizziamo delegazioni di persone che vogliono conoscere la situazione.

Ci auguriamo che d’ora in avanti il “manifesto” non presti il fianco a posizioni filo USA come fa il pezzo di Battiston ma ascolti e pubblichi la voce delle realtà democratiche e laiche che agiscono nel paese tra mille difficoltà.

Le compagne del CISDA

Staffetta femminista aderisce a Un ponte di corpi

Staffetta femminista italia-afghanistan raccoglie il testimone lanciato da lorena fornasir per un movimento condotto da donne che contribuisca ad aprire i confini europei e rivolge alle persone e alle organizzazioni che hanno partecipato alla rete un ponte di corpi un appello a partecipare.

Collettivo promotore di STAFFETTA FEMMINISTA ITALIA-AFGHANISTAN, un gruppo di attiviste, operatrici e volontarie che operano nella lotta alla violenza di genere; in aiuto alle migranti e ai migranti; nel campo dei diritti umani e del supporto allo sviluppo, anche in paesi in guerra; nel movimento femminista. Desideriamo operare in stretta connessione con le reti nazionali ed europee che richiedono un cambio delle politiche migratorie europee e abbiamo lavorato alla preparazione della piazza di Monza del 6 marzo per UN PONTE DI CORPI: esperienza molto generativa per la nostra idea.

Desideriamo riprendere alcune riflessioni che derivano dagli spunti offerti da Lorena e Gian Andrea, e dallo scambio fra tutte le persone che hanno partecipato alle riunioni preparatorie dell’iniziativa del 06/03/21. Le abbiamo condivise e rielaborate nel nostro collettivo di attiviste e le rilanciamo per farne ulteriormente memoria comune nella rete di UN PONTE DI CORPI:

  1. Innanzitutto, apprezziamo l’idea che il lavoro di cura, il prestare aiuto concreto per alleviare la fame e le ferite lungo le rotte, in Italia in quanto paese di transito, e nei paesi d’origine, non abbia un carattere umanitario, ma prioritariamente politico: l’attenzione alle ferite non è, e non deve mai essere, inferiore di quella che dobbiamo porre rispetto alle cause e alle responsabilità, e anche al nostro ruolo di singoli cittadini in tutto questo. Alcune realtà attive in Medioriente nello studio dei movimenti femministi locali, sottolineano da tempo la NGOization (ONGizzazione in italiano) dell’attivismo che prima era prioritariamente politico: in questo processo di mutazione, l’attenzione viene spostata sulla cura, che è quella che riceve finanziamenti dalle istituzioni umanitarie globali o da organizzazioni estere, e gradualmente lo spirito critico si spegne, mettendo a tacere la capacità di opporsi alle ingiustizie e di lavorare per il cambiamento. Questo è un processo di mutazione della natura dell’impegno civile su cui vigilare anche da noi, perché quello che manca oggi globalmente è una rappresentanza politica capace di incidere sulle scelte che influenzano i disastri che abbiamo sotto i nostri occhi.
  2. Seconda riflessione che consideriamo alla base di questa nostra esperienza del 6 marzo, è la consapevolezza che le cause delle diseguaglianze che sono alla base dei flussi migratori, risiedono innanzitutto nelle scelte politiche e negli interessi economici europei e delle nazioni potenti del mondo, compresa l’Italia. Vi parliamo dell’Afghanistan attraverso un veloce flash, perché è cruciale nella proposta che portiamo alla vostra attenzione (STAFFETTA FEMMINISTA arriverà – in questa sua prima edizione – proprio in questo paese dell’Asia centrale): da terreno di scontro del Great Game fra le grandi potenze fin dal 19° secolo, con ingente foraggiamento in armi e soldi agli attori locali e regionali dello scontro soprattutto a partire dagli anni ‘80, l’Afghanistan è diventato un narco-stato da cui proviene il 90% della produzione mondiale di oppio, e uno dei flussi più importanti di migranti forzati che percorrono la rotta balcanica per arrivare in Europa, fuggendo da 40 anni di guerra: i primi 10 con l’invasione sovietica (1979-1989), poi altri 10 di guerra civile fra signori della guerra e talebani (1990-2001 che è la fase dell’escalation della produzione di oppio); e infine altri 20 con un intervento diretto degli USA e dei suoi alleati, nei quali la produzione di oppio e eroina è aumentata a dismisura. Come mai tutta questa produzione di oppio? Da chi è controllata e tollerata? Sono interrogativi che richiedono un’analisi del ruolo degli USA e dei finanziatori regionali (Pakistan e Arabia Saudita) nel consolidamento della leadership fondamentalista in funzione strategica contro l’influenza russa e cinese e nonostante la caccia a Bin Laden nel cuore delle montagne afghane e i proclami USA di voler estirpare i campi d’oppio nel paese. La realtà è che l’oppio viaggia senza problemi attraverso le frontiere, le persone in fuga, invece, vengono bloccate più volte e in modo violento lungo il percorso. Le cause dell’esodo sono più importanti dell’esodo stesso e ci servono per capire tanti aspetti cruciali e per mettere in evidenza le responsabilità e le possibili soluzioni sullo scacchiere delle relazioni internazionali. Tutte questioni su cui come cittadinanza europea dobbiamo fare pressione cercando i canali per farle arrivare ai destinatari istituzionali che poi fanno le scelte che contano.
  3. Terza riflessione che consideriamo patrimonio comune del nostro 6 marzo, è l’idea del migrante come protagonista e non come vittima; cioè, protagonista di un suo peculiare progetto di vita che include la migrazione forzata o scelta. Non persona ridotta al ruolo esclusivo di vittima cui il sistema confinario vorrebbe costringerla a furia di violare e frustrare il suo vitale istinto di sopravvivenza. Questo sguardo è uno dei patrimoni più incisivi del nostro 6 marzo e diventa approccio alle persone poiché punta a creare alleanze fra chi offre aiuto e che ne usufruisce, e non ulteriore sudditanza. Le attiviste che operano in supporto alle donne che hanno subito violenza lo sanno bene, e dedicano un’attenzione particolare alla cosiddetta violenza secondaria, operata da chi svolge una professione o un ruolo di aiuto, e agisce da una posizione di potere che può annichilire l’autodeterminazione della persona che a quei servizi si rivolge. Anche le attiviste e le operatrici dell’accoglienza di migranti richiedenti asilo, sono state spesso coinvolte nello stesso meccanismo, ma raramente sono riuscite a convincere i gestori ad adottare uno sguardo diverso sulle persone accolte. Lo sguardo condiviso in UN PONTE DI CORPI rinforza invece positivamente un approccio alternativo già sperimentato altrove, contribuendo ad un cambiamento necessario.
  4. Quarta riflessione che consideriamo patrimonio comune del nostro 6 marzo, è l’idea che in tutto questo, nel migrare e nell’accogliere, ci siano di mezzo i corpi. I corpi dei migranti, cacciati, inseguiti, colpiti, torturati, vietati e umiliati, offesi a volte fino alla morte. I nostri, privilegiati. Almeno finché non mettono in discussione il sistema che fa funzionare tutta questa grande macchina complessa e perversa: allora anche i nostri, di corpi, vengono fotografati, ascoltati, pedinati, perquisiti, indagati, stressati, ed eventualmente puniti. O finché non diventano improduttivi, come la pandemia ci sta svelando amaramente: allora non hanno diritto alla cura, o ad un vaccino, come chi ha la sfortuna di essere straniero, clandestino, o di vivere in una periferia qualsiasi del mondo capitalista (magari una residenza per anziani).

Il 6 marzo ha messo al centro della discussione, e deve continuare a mettere al centro, tutti questi corpi che normalmente vengono visti e percepiti così differenti (bianco, invece di nero; benestante, ben vestito e/o dotato di un documento di soggiorno, invece di povero, clandestino, straccione e affamato; giovane, produttivo e degno di ricevere un vaccino, invece che vecchio, ormai inutile e destinato a morire), e che invece noi abbiamo imparato a sentire così simili, uniti in un unico destino e desiderio di vivere in pace e giustizia.

Sotto i nostri occhi, l’Europa da terra dei diritti per tutti si trasforma gradualmente in terra della loro negazione: non solo per gli estranei, ma anche per i suoi cittadini non conformi agli obiettivi del capitalismo vorace. Diventa meno democratica e abitabile per gli stessi cittadini europei mentre costruisce muri, militarizza frontiere, ripristina quelle interne, cela alla stampa pratiche illegali e violente, autorizza le sue forze dell’ordine a mettere in atto prassi discriminatorie, autorizza le multinazionali del farmaco a imporre dictat inaccettabili perché il bene comune che dovrebbe essere il cemento ideale dell’Unione, è smarrito. Come donne, come attiviste, ci sentiamo di riportare all’attenzione delle persone e delle istituzioni italiane ed europee, proprio l’istanza del bene comune, rimettendo al centro dell’attenzione pubblica i corpi, le persone, la vita.

  1. Quinta riflessione patrimonio comune di tutte e tutti noi di UN PONTE DI CORPI. L’idea del ponte nasce da una donna e diventa appello alle donne, innanzitutto a loro, che possono cogliere in modo istintivo e immediato l’idea di un ponte che è legame ricostruito raccogliendo i frammenti dolorosi di vita, spezzati dalla violenza confinaria. Questo ponte collega una donna a tante altre donne, capaci di abbracciare un confine di terra, ma subito pronte ad includere anche quelli di mare. Da un capo del ponte, donne (madri e non) e da subito anche uomini, che hanno imparato a rispettare e ad amare il potere dirompente della volontà femminile; dall’altro capo del ponte, madri che lasciano partire i propri figli alla ricerca di un destino migliore.

C’è però una storia che il nostro PONTE DI CORPI non ha ancora potuto raccontare perché ha solo iniziato un cammino che sarebbe bello e importante portare avanti. Ve la proponiamo come STAFFETTA FEMMINISTA.

I corpi che attraversano le frontiere di mare e di terra, non sono solo quelli maschili. Le donne nelle migrazioni portano con sé una doppia violenza. Chi è impegnato nell’aiuto umanitario lungo le rotte, e chi opera nei centri antiviolenza europei si confronta con una violenza di genere resa ancora più feroce dalle condizioni in cui donne e persone vulnerabili sono costrette a viaggiare. Inoltre, le donne che si mettono in viaggio, sono migranti in fuga da guerre e condizioni di violenza come gli uomini, o persone che partono perché intrappolate in condizioni di tratta e schiavitù (condizione che spesso permane nel transito e a destinazione).

Mentre sviluppano nuove strategie di aiuto, attiviste, volontarie e operatrici sono sempre più consapevoli della dimensione transnazionale del patriarcato all’origine delle guerre e della violenza di genere: occorre combatterlo, allo stesso tempo qui, lungo il percorso, e nei paesi d’origine delle donne costrette a migrare.

L’idea del collettivo di attiviste nasce dall’invito di Lorena a costruire un movimento di donne per aprire tutti i confini, per un’Europa inclusiva e giusta, che non neghi il diritto al desiderio di vivere una vita degna laddove ogni persona desideri andare. L’idea del collettivo di STAFFETTA FEMMINISTA, raccoglie il testimone di Lorena e di tutti i partecipanti al PONTE DI CORPI e lo traduce in un percorso che partendo dall’Italia arrivi in Afghanistan, lungo la rotta balcanica, mettendo a fuoco un nuovo tema: l’Europa che nega il diritto al desiderio di vivere è un’Europa dove sessismo e patriarcato non sono mai stati sconfitti definitivamente. La STAFFETTA è quindi STAFFETTA FEMMINISTA perché nasce dall’urgenza di contribuire a rispondere alle sfide contemporanee poste all’autodeterminazione delle donne sia in Europa, che altrove.

L’attacco all’autodeterminazione femminile è spesso aggravato da connessioni internazionali che valicano senza problemi confini inutilmente chiusi alla libera circolazione di persone. Ne abbiamo una prova con la decisione della Turchia di recedere dalla Convenzione di Istanbul contro la violenza di genere che legava 46 paesi grazie all’azione del Consiglio d’Europa: la decisione di recesso imposta dal Presidente Erdogan è un attacco con conseguenze ben più ampie di quelle, già gravi, che può avere in Turchia, poiché indebolisce in tutta Europa uno strumento giuridico fondamentale per la lotta contro la violenza di genere e l’omotransfobia. Questa determinazione del governo turco, motivata dall’intento si difendere l’istituzione della famiglia e bloccare una norma, che a suo dire, incoraggerebbe l’omosessualità, ha già un’eco in altri paesi a orientamento conservatore, e costituisce una nuova minaccia alla democrazia e ai diritti umani anche in Europa, legando fra loro fondamentalismi di ogni genere. Inoltre, rappresenta un’ulteriore pedina dello scacco con cui Erdogan riesce a tenere con le spalle al muro l’Unione, dopo l’accordo del 2016 che ha versato nelle casse della Turchia 6 miliardi di euro perché venisse fermato il flusso di profughi che provavano ad attraversare l’Egeo, esponendoci ad ulteriori ricatti, come accaduto nella primavera 2020, quando Erdogan ha annunciato l’apertura della frontiera con la Grecia, preteso più fondi, visti per i cittadini turchi che vogliono venire in Europa e l’estensione dell’accordo del 2016 che è stato poi prolungato di un anno.

La storia che il PONTE DI CORPI può ancora raccontare, si arricchisce di un capitolo che narra che le donne che sono rimaste all’altro capo del ponte non sono solo madri in trepidante attesa di notizie dal figlio partito per il big game, ma sono anche donne leader che, cresciute in mezzo alla guerra e al fondamentalismo, comandano eserciti (come in Kurdistan), organizzano la fuoriuscita delle altre donne dalla schiavitù, guidano forze politiche laiche e progressiste, andando villaggio per villaggio a sfidare i talebani (come in Afghanistan). Queste donne praticano la democrazia più avanzata che possiamo immaginare nei contesti meno favorevoli possibili. Testimoniano con noi che un altro mondo è possibile, e che la rivoluzione è necessaria ovunque. Queste donne sono nostre alleate contro ogni progetto di riduzione dell’autodeterminazione femminile e contro ogni fondamentalismo, e hanno bisogno del nostro supporto, perché stanno là dove bisogna stare.

STAFFETTA FEMMINISTA corre lungo la rotta balcanica per portare il proprio supporto alle organizzazioni laiche e progressiste delle donne afghane, suddividendo i 7000 km di percorso in 7 TAPPE, ognuna in carico ad un gruppo di 12 persone, per portare il loro aiuto a bambine, ragazze e adulte impegnate nel proprio percorso di riscatto dalla violenza sostenuto dalle organizzazioni femministe afghane, rinforzando un’alleanza che può contribuire a cambiare il corso degli eventi perché sostiene il carattere politico dell’azione delle nostre alleate afghane nelle loro organizzazioni di base, nei loro centri antiviolenza, nelle scuole per gli orfani di guerra e nelle classi clandestine nei villaggi, nelle aree ad alta concentrazione di sfollati interni e nei campi profughi.

STAFFETTA FEMMINISTA, appena le condizioni lo permetteranno, si realizzerà anche sul terreno, arrivando fino a Kabul per partecipare alle celebrazioni dell’8 marzo che ogni anno vengono organizzate dalle associazioni locali di attiviste.

Il progetto di STAFFETTA FEMMINISTA è possibile grazie all’esperienza di oltre vent’anni di lavoro del CISDA in Afghanistan. Il collettivo di STAFFETTA FEMMINISTA, che vede al suo interno anche l’apporto delle attiviste CISDA, si aggrega allo sforzo di UN PONTE DI CORPI, e invita una delegazione della rete a prendere parte all’iniziativa, magari costituendo un gruppo TAPPA del percorso da Monza a Kabul e partecipando, quando sarà possibile, alla delegazione che arriverà fino in Afghanistan e/o pensando a possibili iniziative comuni, da realizzare fin d’ora nella fase virtuale virtuale e nelle iniziative in presenza nelle scuole e nelle città coinvolte.

STAFFETTA FEMMINISTA nasce da un gruppo di donne, ma è aperta alla partecipazione di tutti.

CISDA aderisce all’appello della Mor Çatı Women’s Shelter Foundation

STAFFETTA FEMMINISTA/CISDA aderisce all’appello della Mor Çatı Women’s Shelter Foundation, organizzazione femminista fondata nel 1990 con la creazione di centri antiviolenza e case rifugio, da sempre al centro delle lotte per l’affermazione dei diritti umani e delle libertà fondamentali delle donne in Turchia.

Ci rifiutiamo di ritirarci dalla Convenzione di Istanbul!
Anche se la Turchia si è sottratta all’obbligo di prevenire la violenza maschile contro le donne, noi continueremo a mantenere la nostra solidarietà con le donne e a rafforzarci insieme come abbiamo fatto per molti anni.

La Turchia, il primo paese a ratificare la Convenzione nel 2011 assumendo l’obbligo di prevenire la violenza maschile, di punire i suoi autori, di proteggere e supportare le donne contro la violenza, si è ritirata dalla Convenzione di notte con una decisione del Presidente.

La Convenzione di Istanbul, che è anche il principale riferimento della legge n. 6284 (legge turca sulla Prevenzione della violenza maschile), evidenzia la disuguaglianza di genere come causa della violenza, mette al centro il supporto alle donne con un approccio olistico e impone la prevenzione della violenza e la protezione delle donne dalla violenza.

Ritirarsi dalla Convenzione di Istanbul significa cancellare la promessa di combattere la violenza contro le donne fatta a livello internazionale e non riconoscere gli obblighi assunti come Stato di combattere la violenza maschile, condannando le donne a subire violenza.

La violenza contro le donne è una questione universale e politica.

In Turchia e ovunque nel mondo, combattere la violenza contro le donne è possibile solo impegnandosi a prevenirla senza giustificazioni o discriminazioni, proteggendo le donne dalla violenza, punendo gli autori e adottando politiche integrate contro la violenza.

Le tradizioni culturali dei diversi paesi non possono essere una scusa per la violenza contro le donne. Nessun valore può essere superiore alla sicurezza della vita delle donne e al dovere degli stati di proteggere i/le propri/e cittadini/e in ogni circostanza. Questi doveri sono stati ignorati con al decisione di ritirarsi dalla Convenzione di Istanbul.

Per anni siamo state testimoni del disprezzo per la Convenzione di Istanbul nella lotta contro la violenza contro le donne e del fallimento nell’adozione delle misure previste dalla legge n. 6284. Ne vediamo l’impatto sulla vita delle donne. Oggi la Turchia cerca di attribuire alla Convenzione di Istanbul i costi della mancata applicazione da parte dello Stato delle stesse leggi di cui si è dotato, ovvero della mancata prevenzione della violenza contro le donne.

Gli attacchi contro le donne aumentano ogni anno.

Come donne ci rifiutiamo perfino di mettere in discussione la Convenzione di Istanbul, figuriamoci di cancellarla. E non accettiamo che lo Stato venga meno ai propri obblighi di proteggere le donne, le persone LGBTI+ e i/le bambini/e dalla violenza!

Come donne non rinunciamo nemmeno alle conquiste che abbiamo ottenuto attraverso lotte durate anni, né ci ritiriamo dalle battaglie fondamentali per le nostre vite e dal legame di solidarietà che ci unisce!

#IAmMySong

Nel 2001 la coalizione internazionale a guida USA ha invaso l’Afghanistan con l’operazione Enduring Freedom, adducendo diversi pretesti: democratizzare il paese, rendere inoffensivi talebani e al Qaeda, liberare le donne, costrette dal regime talebano a rispettare regole inumane.

Dopo quasi 20 anni le truppe USA – le cui intenzioni reali erano quelle di mettere sotto controllo un’area geostrategica fondamentale nel quadro asiatico e mediorientale – e quelle dei paesi che facevano parte della coalizione, sono ancora lì. Nel frattempo, i diritti delle donne e i diritti umani continuano a rimanere lettera morta, il paese è sempre più devastato da attentati e guerre, la popolazione vive nel terrore, e giornalisti, difensori dei diritti umani, attivisti e attiviste, donne che svolgono lavori quali giudice, cantante, giornalista vengono quotidianamente fatti oggetto di attentati mirati a ucciderli. Un paese i cui governi che si sono succeduti sono stati riempiti di dollari in aiuti per la ricostruzione, dollari spariti nei meandri della corruzione; Transparency International colloca l’Afghanistan al 165esimo posto su 180 paesi.

Nel febbraio 2020, a Doha, l’allora segretario di stato USA Mike Pompeo e il numero due dei talebani Abdul Ghani Baradar hanno siglato un accordo bilaterale che rispondeva solo alle esigenze politiche ed elettorali di Donald Trump. L’accordo prevedeva, tra le altre cose, il rilascio di 5.000 detenuti talebani e il ritiro delle truppe straniere entro aprile 2021. I talebani, da parte loro, avrebbero preso l’impegno di ridurre la violenza. Impegno del tutto mancato, dal momento che, secondo i dati resi pubblici recentemente da UNAMA, nel corso del 2020 sono stati registrati 3.050 morti e 5.785 feriti in attentati e azioni di guerra.

Le trattative sono poi proseguite con incontri bilaterali tra il governo afghano e talebani e con una conferenza a Mosca alla presenza di rappresentanti di Cina, Russia, USA, Pakistan. L’unica certezza uscita da questi incontri è che i talebani torneranno al potere a Kabul.

E prima del loro arrivo sono arrivate le restrizioni per le donne.

Il 10 marzo, due giorni dopo le celebrazioni della Giornata internazionale della donna, il Ministro dell’istruzione afghano ha annunciato il divieto per le ragazze dai 12 anni in su di cantare in spazi pubblici. Un divieto che viola le leggi nazionali e internazionali, i diritti umani di base, i diritti dei bambini, i diritti delle donne e il diritto di libera espressione ma che sicuramente risponde alle esigenze dei talebani, che hanno chiesto a chiare lettere che i diritti delle donne vengano limitati.

Immediatamente, partendo da un appello di Ahmad Sarmast, direttore e fondatore dell’Afghan National Institute of Music, è iniziata la campagna #IAmMySong con cui Sarmast ha sollecitato organizzazioni, musicisti e singole persone a registrare una canzone e a pubblicarla in segno di protesta.

La campagna ha avuto grande successo e la notizia ha fatto il giro del mondo, trovando moltissimi sostenitori e sostenitrici.

Alla fine il Ministro dell’istruzione afghano, a pochi giorni dall’annuncio del provvedimento, ha dovuto ritirarlo; la maggior parte dei media internazionali ha divulgato la notizia che il ritiro del provvedimento fosse dovuto alle proteste.

Più di una delle nostre fonti locali ci ha riferito invece che, in realtà, il provvedimento sarebbe stato ritirato solo perché il governo del Regno Unito avrebbe minacciato di sospendere gli aiuti all’Afghanistan in caso il decreto fosse rimasto in vigore.

La notizia non è confermata da nessun media, ma abbiamo molta fiducia in ciò che ci riferiscono le nostre fonti, che da 20 anni non hanno mai sbagliato.

Siamo però certe di una cosa: divulgare notizie su un paese ormai dimenticato, ricordare che lì c’è resistenza da parte degli attivisti e soprattutto delle donne, della popolazione civile e di tantissime persone pronte a sfidare nemici come i talebani e i jihadisti al potere, pronte a denunciare i danni provocati dall’invasione della coalizione occidentale a guida USA è fondamentale. E per tutti e tutte noi qui, che spesso fatichiamo a guardare a ciò che accade lontano da noi ma ci coinvolge, sarebbe un buon esercizio per capire che le guerre che l’Occidente porta in giro per il mondo e le armi che l’Occidente vende ai peggiori dittatori non portano mai democrazia, e che la democrazia e la libertà devono stare nelle mani della popolazione civile. E in Afghanistan, dopo 40 anni di guerre, la popolazione civile sa che cosa vuole.

Laura Quagliolo è un’attivista di CISDA

4 chilometri

Distretto di Dashti Qala, provincia di Takhar. È lì che sono nata. Ora ho 14 o 15 anni, credo, più o meno, non so esattamente la mia data di nascita. Tutto è successo due anni fa, ne avevo circa 13.

Il villaggio è grande, polveroso, a volte il vento porta via tutto.

In fondo ci sono le montagne, sono sempre lì, quando te ne vai e quando torni, ti aspettano. Accanto, vicino a casa, la strada va in salita, verso colline rotonde, secche. Giallo, ocra, sabbia. In mezzo, strappi di verde brillante tra le pietre, dove arriva l’acqua che rotola giù dalle montagne.

Il villaggio è grande, sì, chissà quanta gente c’è, non lo so, il mio mondo finisce prima. A casa ci si può anche sentire sicuri. Il problema è uscire. Varcare la porta. Muoversi là fuori, spostarsi è sempre un prima di qualcosa, un nodo in gola. Chissà chi puoi incontrare, chissà che succederà oggi.

Il villaggio è grande, un mondo, c’è tutto. La guerra, i fucili, l’erba verde, il dolore, il pane, il canto, il raccolto, la paura. Tutto.

La guerra c’è, i talebani si scontrano spesso con l’esercito.

Appena sentiamo gli spari, i botti, gli aerei, il battito degli elicotteri, prendiamo i fagotti che abbiamo preparato con un po’ di cibo e di tè e scappiamo, arranchiamo verso le colline, inseguiti dalle grida dei talebani e dallo scoppio delle granate. Io prendo in braccio il mio fratello più piccolo. Saliamo e aspettiamo. Guardiamo il fumo, da dove viene, dove va. Ascoltiamo. A volte arriva la voce degli spari, sembrano vicini, ma è una bugia del vento, non è vero, si stanno allontanando. Il silenzio finalmente ti fa respirare. Ma chissà se la casa sarà ancora lì. Scendiamo veloci, con i sassi che rotolano sotto i piedi e la polvere nel naso. C’è fumo, silenzio. Qualche voce dei vicini, meno male. Qualche grido isolato, di rabbia. Come uno sparo di voce. Sappiamo distinguerli ormai. Quando ci sono i morti le grida sono lunghe, una accanto all’altra, incalzanti, senza respiro. Qualche casa è stata colpita ma non la nostra. Ecco, il sollievo vero. Il respiro arriva fino in fondo. Per questa volta è andata bene. La mamma sgrida con la voce forte i piccoli. Non devono toccare niente per la strada, niente. Le battaglie lasciano sempre un po’ di piccola morte in giro, distratta. Io spero che non gli venga in mente di combattere di notte, mi farebbe più paura. Voglio dormire, accanto alle mie sorelle, nel loro calore. Siamo cinque ragazze e due maschi. Io sono la seconda.

La terra siamo noi a farla diventare verde, le famiglie come la mia, mio padre. È ancora giovane, forte, ma quando torna, la sera, la vecchiaia si affaccia, insieme alla polvere, tra le sopracciglia, agli angoli della bocca. Come se il nonno venisse a visitarlo. Quella terra non è nostra, niente è nostro. Solo il lavoro, la fatica. È questo che lo fa invecchiare. Ogni giorno la gente si arrabbia con i talebani per tutte queste tasse, questi soldi che gli dobbiamo sempre dare se vogliamo continuare a lavorare.

Sono venuti anche da mio padre. Non li avevo mai visti in casa mia, mai. Così da vicino fanno paura. Stonano. Le voci alte, i movimenti, i fucili, no, non c’entrano niente tra le nostre cose. Mio padre sembra piccolo eppure è un omone.

Io mi nascondo, ma lui mi vede. Mi copro col velo, ma lui mi vede. Sono curiosa, mia madre mi tira via per un braccio. Ma lui mi ha vista, ormai.

Mio padre cerca di fargli capire che i soldi non li ha, la terra non è sua e non ha ancora venduto nemmeno un ortaggio. Del resto si prendono già gran parte del raccolto, che diavolo vogliono ancora?

Sono tornati. Mio padre li aspettava, ogni giorno, con la faccia spenta. Non parlava, non rideva, non ci dava più la buonanotte.

Eccoli, sono qui. Entrano senza chiedere permesso, con un calcio alla porta. Si siedono, senza essere invitati, si guardano intorno. Dobbiamo offrirgli il tè? No, non lo vogliono, vogliono altro. Io li guardo da dietro la porta. Lui cerca con gli occhi in giro, come il gatto col topo. Mio padre parla, parla, prova a fargli capire ma loro non ascoltano. Non gli interessa. Dice di aspettare almeno un po’, quando avrà venduto il grano, adesso è ancora presto.

“Dove sono le tue figlie?” dice all’improvviso. Ci vuole tutte lì nella stanza. Due uomini, quattro occhi. Passano su di noi, avanti e indietro. Uno sguardo, come al mercato delle bestie, per vedere qual è la capra migliore. Sopra, sotto, avanti, indietro. Lo sguardo si ferma, sembra che ti tocchi. Che schifo. Parlottano tra loro. Lascio gli occhi liberi dal chador, glieli butto in faccia, fermi, non voglio mostrargli la nostra paura.

Poi escono con mio padre. Sento qualcosa di freddo che mi corre nella schiena. Mio padre dice il nome, il mio, lì, fuori dalla porta, perché lui l’ha chiesto. Lo sappiamo, non è una storia nuova. Non puoi pagare? Bene, allora al posto dei soldi che mi devi mi prendo tua figlia. Quella lì. Io. Il corpo non riesco a muoverlo ma nella testa è come nei torrenti di montagna. No, no, no, no. Se lo sposo la mia vita finisce. Però quella della mia famiglia può continuare più tranquilla. I debiti pagati. È come se una mano mi strizzasse il cuore come uno straccio di bucato.

Nella nostra famiglia mio padre racconta tutto a noi figli, dice le cose bene, solo quando abbiamo l’età per capire.

Lui mi vuole in moglie, ma mio padre non ci pensa neanche. Troverà i soldi, dice. Lo sai cosa vuole quello? Mi dice. Ha detto” Tua figlia sarà mia moglie e smetterà subito di andare a scuola, subito, adesso.“ Questo no, dico a mio padre, non smetterò mai di andare a scuola, è la cosa più importante della mia vita. Diventerò un dottore, un’oculista, lo so, l’ho deciso e non sarà quel brutto ceffo a impedirmelo.

Mio padre scuote la testa, sembra un sacco vuoto su quella sedia. Lo so, ha detto, lo so.

Sì, lo sa. Ha sempre saputo che andare a scuola era un pericolo per noi ragazze. I talebani non vogliono, lo fanno capire in mille modi, uno peggiore dell’altro. Ma Baba sa anche che io sono coraggiosa e testarda. E che il mio desiderio di imparare, di cambiare, di trasformare la vita, è più forte della paura. La mia sorella maggiore, ad esempio, a scuola non ci è mai andata. Non le importa e non ce la fa ad affrontare i pericoli sulla strada. Per me, mio padre, anche se spaventato, ha fatto un’eccezione. Si fida di me. Mi dice sempre:” Tu sei speciale e arriverai lontano. Mi farai dei bellissimi occhiali!” Lo dice sorridendo e io gli butto le braccia al collo.

Mio padre lo sa che la scuola è l’unica strada per cambiare. Sa che sono brava e non mollerò, mai. L’unica strada, sì, per fuggire da quella vita, da quel villaggio, da quelle anime perse. Coltiviamo grano, cereali, frutta ma molta gente qui coltiva oppio. Quell’odore denso, appiccicoso, dolciastro, lo senti dappertutto al villaggio, ti si attacca addosso. Gli uomini sono quasi tutti drogati, anche le donne e i bambini. Le stanze sono piccole, fa freddo e il fumo rimane lì a disposizione di tutti. Anche gli animali da noi sono drogati. Perfino i cani. C’è chi si limita a fumare oppio e chi passa all’eroina. Costa poco e fa dimenticare la vita. Le strade del mio villaggio sono piene di fantasmi.

Il giorno dopo la visita dei talebani, mi alzo prima del solito, non ho proprio dormito. Preparo la colazione per tutti. Nessuno parla. Mia madre mi dice: “Copriti bene col velo e se lo vedi non guardarlo in faccia come ieri!” Baba mi prende le mani tra le sue.

La mente sembra lucida, ferma, ma il corpo no, non ne vuole sapere. Sudo anche se l’aria del mattino è fredda, quasi solida.

Ci sono 4 chilometri da casa a scuola. Quattro chilometri per sudare, per tremare dentro, per mangiarsi le unghie.

Aspetto tutta infagottata il ‘secharkha‘ (moto-taxi) che fa quella strada. Siamo tutti pigiati, se ci sono uomini non si sale. Ma a quell’ora sono bimbe che vanno a scuola. Un piccolo viaggio traballante, lunghissimo. So che c’è il loro posto di blocco, con la bandiera bianca, sudicia. So che lui ci sarà, in agguato come una tigre. Le gambe e le mani tremano piano, sento spilli dappertutto. Guardo le mie scarpe, polverose ma mi piacciono tanto. Le guardo e non riesco a tenerle ferme. Mi sporgo per vedere. Eccolo, è lì, lo vedo, dondola da una gamba all’altra, aspetta, sa. Ci fanno scendere tutte. Mi si mette davanti, troppo vicino. Comincia a gridare che devo portare il burka, sempre, in ogni momento della giornata. Che diventerò sua moglie e che non mi farà più uscire di casa come le puttane. A scuola non ci andrò più, e agita il fucile per aria. Lì non c’è niente che ti fa bene, alle donne fa male studiare, è contro natura. E poi tra pochissimo sarò sposata.

È strano, tutta la paura, il tremore di prima, si è rintanata da qualche parte e non la sento più, lì davanti a lui. Come morta ma sveglia. Strano. I suoi compari fanno ripartire il ‘secharkha‘ e io ci salgo sopra. Lo guardo e vorrei dirgli: io a scuola ci vado, bello chiaro, ma me ne sto zitta. Io a scuola ci vado, me lo ripeto come una litania, come una preghiera sotto voce, mentre gli disubbidisco e traballo sul taxi.

A scuola dimentico tutto. A scuola sto proprio bene. A scuola non deve entrare la paura.

Ogni mattina, così, per parecchie settimane, chissà quante, non lo so, ogni mattina con quel nodo, con le mani che vanno per conto loro, con la speranza forte, fortissima che oggi non ci sia. Magari c’è una battaglia da qualche parte, magari ha mal di pancia. E a volte è così, non c’è, sospiro di sollievo e rido con le mie amiche.

Lo so che su quella strada, a quel posto di blocco, può succedermi di tutto. Per ora, gioca alla paura, come il gatto col topo. Gli piace, pregusta il momento in cui lo farà sempre, nella sua casa, con me, nella mia prigione.

Ma tutto può cambiare, di colpo, senza preavviso. Può prendermi, portarmi via. Violentarmi rapirmi uccidermi. Nessuno lo impedirà. Nessuno avrà niente da dire. Niente di strano. Queste cose succedono continuamente alle donne qui da noi. E da tanto tempo.

Mio padre ha 5 figlie, è dura per lui. Come farà a proteggerci tutte, se lo chiede ogni giorno , lo vedo, lo capisco da come ci guarda. Non lo sa.

Dormo male ormai, mi sveglio continuamente. Rivedo tutti i particolari della strada, me li ripasso. Così non avranno più la forza di sorprendermi, mi dico. Fino a quando succede qualcosa di nuovo, di diverso.

Ogni giorno c’è quel momento, il momento di uscire. Mia madre ha gli occhi rossi, non lo fa vedere ma il suo viso è bagnato quando la bacio sulle guance.

Forse oggi non ci sarà, mi dico. Malato, morto sepolto, drogato marcio, potrebbe essere, potrebbe essere una bella giornata di grazia. Ogni tanto Allah mi esaudisce. Una volta non si è visto per una settimana. Man mano che i giorni passavano diventavo così leggera che sarei potuta volare via. Gli altri talebani, al posto di blocco, non mi dicevano niente, lui è il capo e io sono già roba sua. Ma lo so, non dura.

Forse si è stufato, diceva mio padre. Aveva venduto tutto quello che c’era in casa. Erano rimaste poche pentole, i materassi, le coperte. Diceva che i soldi ce li aveva adesso. Glieli ha portati.

Non aveva parole quando è tornato. Abbiamo capito, non bastava nemmeno per cominciare. Il suo debito continuava a crescere.

Quella mattina, dopo la settimana di pace, lo vedo da lontano. C’è vento, la bandiera bianca sventola come se non ce la facesse più, esausta. Anche la coda del suo turbante sventola. Ci fermiamo. Il film lo conosco già ma c’è qualcosa di diverso. Qualcosa di più duro, secco. Come una promessa di metallo. Una battaglia da qualche parte è appena finita. Sono eccitati, armati più del solito. Siamo tutti in fila, ci sono anche due uomini anziani, tutti lì, fermi, con i vestiti che vogliono scappare, con il velo che mi schiaffeggia, che lascia scoperta la faccia. Lui è nervoso, si vede.

Si ferma davanti a me. ‘Allora non ci siamo capiti!’ Mi urla che devo portare il burka che sarò sua moglie e devo obbedire, che la sua pazienza è finita e se oggi oserò andare in quella maledetta scuola, la farà saltare. Di colpo imbraccia il fucile e me lo punta sul petto. Il respiro è finito, non ne ho più. Niente. In fondo alla paura non c’è niente, niente di niente. Quella cosa dura, fredda che può annientare la vita, la mia. Niente. Mi guarda con quel suo sguardo molle, da serpente. Un tempo senza tempo. Pochi minuti ma non vogliono finire. Sono larghi, pieni di spazio, spazio per guardarlo, per registrare i particolari, chissà perché mi fisso su quelli. Lui parla, grida di Allah, dell’Islam, dell’inferno e di me che dovrò essere bastonata per come vivo, perché vado a scuola. Io lo guardo. Suda anche lui al limite del turbante, i capelli senza colore appiccicati, la barba rada, spelacchiata, il naso piccolo da femmina, le guance tonde, anche le mani da femmina ma grandi, enormi, per gesticolare con la mano e col fucile, il neo in mezzo alla fronte. Lui, il fucile, torna sempre contro il mio petto. Paf, dice e ride con i suoi compari, paf, poc, pum, farà così? Che rumore farà? Il colpo veloce e tra un attimo di te non c’è più niente. Venerdì sarai mia moglie, così ti salverai la vita e ti scorderai la scuola. Non fate scherzi, dice. Se tuo padre si tira indietro lo faccio fuori. Lo ucciderò davanti a tutto il villaggio, dopo la preghiera, perché non obbedisce. E poi toccherà a tua madre e agli altri.

Venerdì, riesco ancora a pensare, venerdì, oggi è solo martedì. C’è tempo. Poi, gli spari sulla collina e tutto il branco di lupi parte in quella direzione. La battaglia ricomincia. Risaliamo sul ‘secharkha‘. Le mie amiche mi abbracciano tutte, piangono, loro , io no, penso, sono fredda come una statua.

La sera racconto a mio padre, mia madre, mia sorella. I piccoli no. A scuola oggi non ero attenta, lo hanno capito tutti. Pensavo e pensavo. Una pistola, ci voleva una pistola, forse qualche vicino ne aveva una.

Dobbiamo ammazzarlo quando viene in casa.

Mio padre si alza all’improvviso. Butta all’aria il cuscino, l’ultimo rimasto. Non dire sciocchezze, mi grida. Vuoi farci ammazzare tutti? E poi noi non siamo assassini come loro. Ma adesso basta, basta così. Non possiamo aspettare.

No, hai ragione, Baba, non ne posso più. Basta con la nausea quando salgo sul taxi, basta con lo stomaco che trema, basta con la rabbia che brucia e deve restare dentro. Basta, hai ragione Baba.

Distribuisce i compiti, a ognuno il suo. Andiamo a Kabul, ha detto, e in fretta.

Il giorno dopo a scuola non ci sono andata. Mio padre ha trovato degli zaini, non so da dove sono saltati fuori. Verdi, militari. Forse li ha presi al mercato in cambio della verdura. Forse ce li hanno dati i vicini. Li abbiamo riempiti, per fortuna i soldi per i talebani mio padre li aveva ancora. Loro glieli avevano tirati in faccia e lui li aveva raccolti. Qualche vestito, coperte, scarpe di ricambio, avremmo camminato molto. L’importante sono i piccoli. Latte, pane.

Aspettiamo mezzanotte, per fortuna non c’è luna. Il sentiero è quello delle colline, che usiamo quando si scappa dalle battaglie. Non ci sono posti di blocco. I talebani stanno sulle strade. Il controllo è la strada, non quei sentieri da volpi. E le volpi ci avrebbero seguito volentieri. La mamma aveva ucciso le ultime due galline e se le portava in spalla, le teste le battevano sulla schiena. Abbiamo chiuso la casa, uno sguardo cieco, nella notte, come una carezza. Una brava casa in fondo. Nemmeno un saluto ai vicini, troppo rischioso.

Nove siamo troppi. Ci muoveremo a due a due, ha detto Baba. Mia madre parte per prima con Hasan in braccio, non deve piangere, mio padre conta il tempo. Deve arrivare fino al fiume e aspettarci lì. Nascondersi dietro gli alberi. Poi vado io con mia sorella Zarmina, di sette anni. E’ brava, coraggiosa. La maggiore con i piccoli e mio padre a chiudere la fila. Non possiamo usare il cellulare, troppo pericoloso. Loro ci potrebbero trovare. Fischiamo, come i gufi, quando arriviamo al fiume. Tutto bene, forza.

La strada la conosco, è quella solita ma al fiume non ci sono mai arrivata. Tengo stretta la mano di mia sorella. Il fiato sospeso, il cuore a mille. Il buio è quasi totale. La pila ce l’ha mamma. Dobbiamo stare attente a dove mettere i piedi e questo ci fa stare meglio, non guardiamo nel buio. Zarmina mi fa coraggio: sempre meglio del posto di blocco dei talebani, no?

Poi, ecco la voce dell’acqua e quella di mamma, mischiate.

Abbiamo camminato molto quella notte, il buio come un immenso burka che ci rendeva ombre nell’ombra. Nessuno ci ha visto. Poi, all’alba abbiamo preso l’autobus.

Magnifico. Guardare tutto quel mondo di campi e montagne che correva accanto a noi nella luce rosa del mattino, i fiumi, che si allargano come specchi del cielo, le rocce che ci venivano incontro, mangiare l’ultimo bolani fatto dalla mamma per l’occasione, lasciarsi andare. Nuovo, nuovo nuovo, tutto era nuovo e pieno di speranza. Ci hanno fermato sì, lo fanno sempre sulle strade ma nessuno ci cercava, lui non c’era più , era laggiù, lontano, dietro i monti e avevano fretta. Le prime case di Kabul ci hanno fatto sorridere come bambini. Tutti bambini. Nella gioia, nel sollievo giocavamo con i piccoli, ridevamo perfino.

Poi, la vita qui a Kabul, non è stata un gioco, non ci ha fatto sorridere granché. Non c’erano promesse, non avevamo illusioni. Ma la scuola c’è. Continuo a essere la sola della famiglia che ci va. Mia sorella ha paura, ancora di più che al villaggio. E per le piccole ci vogliono soldi. Uno dei miei fratelli ha cominciato. Gli piace. ’Assistente oculista’ dice e ride.

Sì la scuola c’è. Sono arrivata alla settima classe e sono brava. Mi piace, è grande, piena di ragazze. Venti minuti a piedi, ho imparato la strada ormai. Qui puoi portare il chador ma lo chiudo bene sul viso, non si sa mai. Ci sono gli attentati, è vero, tanti in questi giorni. Non sai mai se ci capiterai dentro. Se quel fuoco, quel fumo ti porteranno via qualcosa di tuo. Se tornerai a casa. Anche qui c’è paura ma è diverso. La devo affrontare, non c’è altro da fare. Almeno non ce l’hanno con me, è la sorte, posso sperare che mi voglia bene. E nessuno mi impedisce di studiare.

Mi sento più leggera qui.

Siamo ai margini della città, vicino ai campi profughi ma abbiamo una casa vera. Brutta, non con il legno come al villaggio, tutta di fango ma è una casa. L’inverno è un nemico. La legna, il carbone, costano cari. Siamo tanti, dice mamma, dobbiamo stare vicini vicini così non avremo freddo. Mamma sta cercando di farla bella. Ci prova. I miei genitori sono analfabeti e non hanno più un mestiere per vivere.

Mio padre è diventato un ‘uomo con la carriola’, così li chiamano, un uomo in attesa. Che aspetta all’alba un lavoro per la giornata, uno qualsiasi. Uomini che si consumano seduti nelle piazze o dentro la carriola, con una cazzuola o una scopa in mano. Aspettano, si scavalcano per arrivare primi quando vedono il ‘caporale’. Spostano pietre, costruiscono un muro, lavano tappeti, puliscono uffici, raccattano perfino i morti di eroina. Qualsiasi cosa. A volte non c’è niente. Mamma ogni tanto riesce a fare le pulizie, a lavare i panni per la gente più ricca nel quartiere. Allora si mangia meglio, un po’ di più. Baba è sempre avvilito. Ma riesco a farlo sorridere, un po’. Non ci sono i torrenti, il verde smeraldo, i profumi della legna, del cibo fresco. Ma non ci sono nemmeno i talebani, o meglio ci sono ma non ce l’hanno con noi, almeno per ora. E non cercano me. Non vogliono mangiarsi la mia vita. Sono libera. Mio padre mi sorride spesso, si indica gli occhi, non ci vede più tanto bene, mi guarda con un’espressione buffa. I miei occhi, vuol dire, aspettano te per essere curati.

A Takhar il territorio è diviso in grandi latifondi di proprietà del più forte. Qui, al villaggio di Noshin, sono i talebani a farla da padroni. Si sono presi la terra. I contadini gli danno gran parte del loro raccolto e vivono con il resto. Se ce la fanno. Perché i talebani riscuotono le ‘tasse’, ovvero estorsioni. Impongono una sorta di ‘pizzo’.

Al nord il controllo talebano non è stabile. Nei distretti vicini, le città sono in mano al Governo e gli scontri con l’esercito sono frequenti.

‘Tempo fa il nord era in gran parte in mano ai signori della guerra, ai governatori nominati da Kabul. Adesso,-dice Rabia, la nostra traduttrice- tutta l’area è stata talebanizzata. La maggior parte dei distretti è sotto il controllo talebano. Armati e incoraggiati dall’Occidente per destabilizzare le province del nord e rendere insicuri i confini con la Russia. Talebani in funzione antirussa. Così dice la gente, la popolazione la pensa così.’

Noshin si è salvata. Suo padre ci è riuscito. Ma per molte ragazzine il pericolo è sempre lì. Da tanto tempo, come dice Noshin.

‘Sì, da tanto tempo, continua Rabia. I miei nonni erano a Kabul durante la guerra civile e ci hanno raccontato. Le bambine le sposavano piccole perché se i mujahiddin, quando entravano in casa, vedevano delle ragazze nubili, se le portavano via. Peggio che morire. Anche la fuga da quell’inferno era difficile. Mio zio ha sposato la figlia di 12 anni mentre scappavano da Takhar verso l’Iran, per evitare che la rapissero sulla strada. Aveva paura di perdere le sue figlie. Succedeva tutti i giorni. Bastava che avessero l’età, almeno 10 anni. Le adolescenti erano quelle che rischiavano di più. Le cercavano e se le portavano via per darle ai loro combattenti. Non succedeva solo qui da noi a Takhar, anche a Kabul. Tutte noi conosciamo la storia di Nahida. E’ diventata famosa. ‘

Ce la racconta.

La casa era alta, sette piani, abitavano al quarto. Aveva 13 anni, non era sposata ed era anche bella per sua sfortuna. Sfortuna ancora peggiore era Hazara. L’etnia più perseguitata.

Una notte, improvvisamente, arrivano i mujahiddin di un gruppo pashtun, nemico. Gridano, imprecano, sbattono le porte e salgono, salgono sempre più su. Così Nahida , presa dal panico, scappa, ma dove? Loro sono sulle scale, può solo salire, anche lei, fino al settimo piano, sul tetto, il posto più bello della casa. Ma sente i cani ringhiosi dietro di lei. L’hanno vista. Cerca un posto dove nascondersi ma non ce ne sono su quel terrazzo che offre il suo spazio aperto alle occupazioni quotidiane. Guarda giù, nella strada. Occupata da decine di mujahiddin, tutti armati. No, non può scappare da nessuna parte. O forse sì, nel vuoto scuro che ha di fronte. Un volo con il chador aperto come ali, silenzioso, come un uccello.

‘Purtroppo queste cose capitano anche adesso- continua Rabia – e non sono solo i talebani a comportarsi così. A Noshin sono toccati loro ma in altri villaggi, in altre province, sono altri uomini a tenere in mano la vita delle donne. Nelle province controllate dal Governo di Kabul è anche peggio.

Nessuno ne parla. Il Governo non vuole, per via dei media, della comunità internazionale, dei loro soldi. Non si sa, ma chi ci vive sa, eccome. I warlords, le milizie dei vari ‘commander’, la polizia, gli uomini dei Governatori delle province, tutti si comportano nello stesso modo verso le donne giovani. Specialmente a Takhar. Ogni giorno rapiscono, uccidono, violentano giovani donne. Il Governo non fa niente, sono uomini loro, non sono talebani. Nessuno punisce questi crimini. I mujahiddin la violenza ce l’hanno nel sangue. Hanno commesso migliaia di crimini di guerra, hanno fatto cose orribili negli anni 90, e , quelli che hanno ancora il potere, che controllano parte del territorio per il governo, continuano a farlo imperterriti e impuniti. Nessuno li ferma.’

Le chiamano ‘le spose dell’oppio’. Il meccanismo perverso che ha minacciato Noshin è frequente nelle zone rurali. Soprattutto dove si coltiva oppio. La polizia passa nelle case dei contadini, quando il raccolto è fatto e ce l’hanno in casa, in attesa di venderlo. Chiedono soldi che il contadino ancora non ha perché non ha ancora venduto. Così si prendono il raccolto. Tutto. Ripagare il padrone per l’oppio perso è impossibile. L’unica soluzione, come per Noshin, è pagare con le proprie figlie. Così le bambine dell’oppio spariscono per sempre dalle loro case.