8 Novembre 2024
Jamila, armata di poesia
In agosto a Kabul fa molto caldo. Pericolosissimi ventilatori senza griglie di protezione portano un po’ di sollievo alle guardie accaldate, in uniforme militare, che siedono non lontano dal mio ufficio, per garantire la sicurezza del mio soggiorno. L’aria è secca e chiara. La polvere si respira ovunque e copre le cose di una patina leggera. Anche il mio computer quasi non si distingue più dalla scrivania. Il deserto avanza. Dalla finestra entrano odori forti che ti restano addosso, che continui a sentire anche quando hai lasciato il paese. Odori di cucina, di legna bruciata e dei falò dei sacchetti della spazzatura che il vicino sta bruciando.
Mi sto vestendo per una serata speciale: sono stata invitata dalla zia della direttrice dell’orfanotrofio nel quale sono ospitata, vuole conoscermi. Probabilmente sono la prima ospite straniera che accoglie in vita sua.
Sono le ragazze dell’orfanotrofio a decidere il mio look. Mi prestano i loro vestiti più belli, e mi rincorrono fino al cancello sventolando il velo che ho dimenticato all’entrata.
La casa della zia, Khala in dari, ha un cortile spoglio, i panni ad asciugare sul filo teso tra un albero rinsecchito dalla siccità e un muro di fango. La porta si apre su una stanza grande dove alcuni uomini stanno bevendo il chai. Ci ritroviamo, tra donne, in una più piccola, coi muri tinti di bianco che riflettono la luce della grande porta-finestra. Maryam, la direttrice dell’orfanotrofio, mi fa fare un giro della casa. È costruita in fango e cemento, ma l’interno è arredato con cura, con stoffe, tende, cuscini. Mi mostra l’unica stanza che non si vede dall’entrata: la camera di Jamila , sua cugina. Ancora non la conosco.
Sul muro, sopra il letto, sorridono due ragazze curde dello JPG in uniforme. Rimango un attimo interdetta. Maryam ride. Sapeva che mi sarei stupita. Sua cugina, mi dice, è un’attivista. Si batte per liberare la voce delle donne in un paese, l’Afghanistan, dove il silenzio è imposto a colpi di bastone. “She is crazy!” è matta, mi dice. Sorride, ma si vede che è preoccupata.
Torniamo nella piccola stanza bianca per prendere il tè e chiacchierare.
Ci sediamo sul pavimento, coperto da morbidi tappeti. Jamila è in viaggio.
Arriva più tardi, dopo cena. Rientra dall’università di Jalalabad. Quando entra nella stanza qualcosa cambia. Le risate e gli abbracci scoppiano veloci, elettrici. È bellissima. Di una bellezza forte, dai contorni nitidi, senza sbavature. Ci capiamo immediatamente, anche con le poche parole che scorrono dal dari all’inglese. La voglia di cambiare il mondo o le piccole grandi cose di ogni giorno, è la stessa.
Ritrovo il suo viso e la sua gentile sicurezza di sé, due anni dopo, sullo schermo del mio computer. Vogliamo raccontare la sua vita in bilico, piena di passione. Ha 25 anni Jamila, si è laureata a Jalalabad, una delle zone più pericolose del paese, in letteratura dari ed è molto determinata a fare la giornalista. Ha già cominciato. Ha i capelli scuri lunghissimi e sciolti, non porta il velo, ma una sciarpa bella calda, ora fa freddo a Kabul.
Hai passato quattro anni all’Università di Jalalabad, un posto difficile e pericoloso, in mano ai fondamentalisti, come è stata questa esperienza?
La situazione a Jalalabad, come in tutto l’Afghanistan, è molto tesa. Non ci si sente mai sicuri, ma non solo a causa degli attentati. La violenza contro le donne è sempre più alta e la miseria quotidiana abbrutisce. A Jalalabad ci sono sempre tanti attentati di Daesh e Talebani perché è “la tana del lupo”, il quartier generale, in cui i Talebani vengono formati, fanno esercitazioni militari.
Di conseguenza, l’Università non è un buon posto per ricevere un’istruzione. Il materiale scolastico è scarso, vecchio e in cattive condizioni, ma soprattutto gli insegnanti non sono preparati. Molte cattedre sono occupate da seguaci di Daesh e dei Talebani, trasmettono agli studenti i valori di questi gruppi, a volte reclutano i militanti proprio nelle aule. Gli studenti hanno una mentalità chiusa. Nei quattro anni in cui ho studiato lì, ero l’unica che osava alzare la voce e protestare contro questi insegnanti, indegni di stare all’Università.
Come mai, allora, sei andata a studiare proprio lì?
Volevo studiare Letteratura e la letteratura più affascinante è quella in lingua dari. In questa lingua parlano i grandi poeti afghani e persiani. Un corso di studi che si trova solo a Jalalabad. Io sono pashtun, e tutti all’Università, tranne poche eccezioni, parlavano la lingua pashtun. Io seguivo i corsi in dari. Sono stata perfino accusata di tradire le mie origini. La cultura pashtun è molto forte, rigida e arretrata anche tra i giovani. Era una guerra quotidiana.
Gli studenti mi dicevano di stare zitta, perché sono una donna: avevo torto per il solo fatto di essere donna! Le altre studentesse non osavano fiatare, neanche parlare con gli insegnanti durante le lezioni, di certo non si schieravano dalla mia parte quando mi minacciavano.
Chi ti minacciava, in quali occasioni?
Vi posso raccontare due episodi che ricordo bene. Uno era all’inizio della mia carriera universitaria. Le ragazze indossano il burka all’Università. A volte il chador lungo fino ai piedi, si vedono solo gli occhi, il resto del corpo è interamente coperto. Io mettevo i vestititi che avevo, quelli che mi piacevano e non mi coprivo il volto. Ma soprattutto osavo dire quello che pensavo nel momento in cui lo pensavo e ad alta voce. Un giorno, un gruppo di ragazzi, sono venuti verso di me dicendo che, col mio modo di fare e coi miei vestiti “non ortodossi”, avrei contaminato le altre ragazze. “Noi siamo musulmani, qui vige la legge dell’Islam e ti devi vestire di conseguenza, come dice il Corano. Gli uomini qui non sono tuo padre, non sono i tuoi fratelli, devi coprirti e stare zitta”. Questi ragazzi hanno trovato il mio numero di telefono, mi chiamavano ogni notte per dire che, se non cambiavo, mi avrebbero uccisa, che avevano delle pistole cariche per me. C’era anche un professore fondamentalista che mi minacciava ogni volta che mi incontrava in corridoio.
Come hai reagito a queste provocazioni?
Non sono cambiata per questo, ho tenuto duro e ho continuato a essere me stessa e a comportarmi come mi sembrava giusto. All’inizio non avevo molto successo, nemmeno con le ragazze. Mi dicevano che ero un disonore per l’Università e per loro, che erano le mie ‘sorelle’. Si vergognavano di me. Dovevo smetterla e comportarmi secondo l’Islam.
Quali erano i tuoi comportamenti più censurati? Cosa facevi per farli arrabbiare tanto?
All’Università di Jalalabad è obbligatorio pregare cinque volte al giorno. Io non ci andavo. I miei compagni andavano alla sala di preghiera tutti insieme e cercavano di portarmi con loro, inutilmente. Mi sono accorta presto che il valore che davano alle preghiere era soltanto formale. Il loro comportamento era arrogante e violento anche con il personale scolastico e con gli studenti di altre etnie. Maltrattavano persone e animali. E questo gliel’ho fatto notare. Io, al contrario, anche se non pregavo 5 volte al giorno, ero gentile e amichevole con tutti, cuoche, donne delle pulizie, guardie. Così hanno capito che quello che conta, anche per un buon musulmano, è il rispetto che provi per gli altri. Alla fine hanno accettato il fatto che anche qualcuno che non prega può essere una brava persona.
Dunque è stata una vittoria?
Sì, direi di sì. La mia miglior difesa contro accuse e minacce erano le mie idee, solide, e il mio comportamento.
Raccontaci qualche altra vittoria.
Una volta all’università hanno organizzato un evento speciale di poesia a cui assistevano anche professori e poeti che venivano da altre Università e da altri paesi. Mi ero preparata per leggere alcune poesie dal palco. Sarebbe stata una battaglia, di sicuro. Ero pronta. Compagni e professori mi hanno subito bloccato: ‘Sei una donna, non puoi andare sul palco a declamare davanti a tanti uomini sconosciuti! E’ una vergogna!’ Ancora una volta ero il disonore dell’Università. Sapevano che non mi sarei arresa. ‘Se io non recito ora queste poesie, se qualcosa non cambia, questa Università non potrà crescere , rimarrà nel Medio Evo per i prossimi 10.000 anni!’ Ero molto arrabbiata e quando sono arrabbiata divento persuasiva.
Cosa volevi leggere?
Una poesia rivoluzionaria, molto importante secondo me. E almeno quella volevo farla ascoltare a tutti quegli uomini. Ma, alla fine, la vittoria è stata completa: sono riuscita a declamare dal palco tutte le poesie che volevo. Sono di un poeta iraniano che si chiama Khosraw Gul Sorkhi. È stata una grande esperienza per me.
Qualcuno dei tuoi compagni ti ha seguito sulla tua strada?
Qualcuno sì. Condividevo le mie idee, con tutti i compagni di classe, sono fatta così, non posso farne a meno. Facevo leggere anche a loro delle composizioni di poeti rivoluzionari e famosi, iraniani, afghani, russi e americani. E, alla fine, dopo 4 anni passati insieme, la nostra classe è diventata molto più libera. E tutto questo grazie alla poesia, la mia arma più potente.
Ricordo soprattutto un ragazzo pashtun molto fanatico, feroce contro le altre etnie. Ho discusso molto con lui e, alla fine, sono riuscita a convincerlo che siamo tutti uguali, tutti siamo afghani e tutti degni di rispetto. Dobbiamo stare insieme, dobbiamo essere uniti per lottare contro questa guerra, questa corruzione e questa violenza. Adesso è molto cambiato, mi ringrazia sempre per avergli aperto gli occhi e mostrato una strada che lui continua a frequentare.
Hai sperimentato altre armi per combattere le tue battaglie, oltre alla poesia?
Anche le immagini sono molto potenti. Mi piace dipingere. Una volta ho dipinto un manifesto copiando la foto di Che Guevara. L’ho appeso nella mia camera da letto insieme al ritratto di una poetessa iraniana. Nessuno li conosceva e, quando le mie compagne venivano nella mia stanza, erano curiose. Chiedevano di quei due personaggi sul muro. Spiegavo chi erano e perché erano la mia ispirazione. E piano piano non erano più degli estranei, né loro né le loro idee. Qualcosa stava cambiando.
Ma non mi sono accontentata della mia stanza. Sui muri dell’Università sono esposti ritratti di poeti fanatici religiosi. Mi dava proprio fastidio vederli lì. Così un giorno ho preparato un poster con il ritratto di Nadia Anjuman (poetessa afghana, uccisa dal marito perché declamava in pubblico le sue poesie) e alcune delle sue poesie. Studenti e professori erano furibondi. Primo, era una donna, secondo forse era di sinistra, terzo era probabilmente contraria all’Islam, quarto anche io, che volevo imporla, ero una donna. Il manifesto è rimasto una settimana nell’ufficio del Preside prima di essere liberato da me e dal professore che mi appoggiava.
Quindi c’era qualche insegnante che ti sosteneva, che appoggiava le tue azioni?
All’Università di Nangarhar, provincia a maggioranza pashtun, tutte le materie sono insegnate in pashto. Per insegnare la letteratura dari ci sono dei professori che vengono per forza da fuori, spesso sono tagiki, del Badakshan, che parlano questa lingua. Di solito i tagiki hanno una mentalità più aperta dei pashtun, che sono chiusi, fanatici, non rispettano i diritti delle donne. C’è un abisso tra loro. Un professore tagiko interveniva sempre a mio favore, quando i compagni mi accusavano e mi ostacolavano.
Era stato membro del partito Khalq,(una delle due fazioni del Partito comunista Afghano prima e dopo l’invasione russa) quindi era più laico e aperto al confronto e ai diritti delle donne. Mi ha incoraggiato perfino a leggere una poesia contro i mullah e i religiosi fanatici.
La presenza di talebani e Daesh e della loro ideologia si sente molto a Jalalabad?
Jalalabad è il capoluogo della provincia di Nangarhar, il Governo ha potere solo in città ma, intorno, governano non solo i talebani e Daesh ma anche i mujahiddin, signori della guerra, e altri piccoli o grandi terroristi. Prima i militanti di Daesh e i talebani si muovevano senza paura, sicuri e arroganti, anche all’Università, ma in seguito, il Governo li ha un po’ ridimensionati. Ha sostituito il preside, alcuni professori sono stati licenziati, ma sono sempre presenti, dietro le quinte. Tutto il resto della provincia sfugge comunque al controllo del Governo, con tanti piccoli centri di potere diversi. E l’ideologia, che è la stessa per tutti, è molto invadente.
Ora i talebani sono sempre più forti e avranno un maggiore peso nel Governo, dopo gli accordi. Quali saranno le conseguenze per le donne, gli attivisti e le minoranze religiose?
Le donne in Afghanistan, da prima dell’arrivo al potere dei talebani ad oggi, sono sempre state sotto pressione e non hanno mai veramente avuto alcun diritto. Non guardate le ragazze che studiano a Kabul o quelle al governo, ma le donne comuni che da sempre sono vittime di violenza sociale e familiare.
Per queste donne, anche se i talebani parteciperanno al governo del paese più di quanto già non lo facciano, le condizioni di vita rimarranno sempre disastrose. Se non saranno i Taliban, sarà Daesh a rovinarci la vita. Non cambierà nulla a causa del cambio di un governo. Cambierà solo quando lo decideremo noi, quando saremo noi a prendere in mano il nostro destino e a combattere, noi giovani afghane. Cambierà quando noi donne inizieremo a leggere, apriremo gli occhi sulla nostra forza e guarderemo questo mondo con occhi diversi.
Per questo vuoi fare la giornalista?
Il giornalismo è uno strumento importante. Una giornalista è vicina alla gente, comunica direttamente con il popolo, sente il suo dolore, documenta la vita quotidiana, parla delle persone comuni, e scrive per loro. Una giornalista fa ascoltare la sua voce, come ho fatto all’università, ma raggiungendo molte più persone.
È un mestiere molto pericoloso qui, soprattutto per una donna.
Certo è un lavoro pericoloso, ma in Afghanistan puoi morire facilmente ogni giorno, ovunque ti trovi. Può arrivarti un razzo in casa, come è successo settimane fa. Siamo sempre in pericolo, tanto vale rischiare per qualcosa di importante, realizzare i propri sogni.
Hai raccontato dei poster delle JPG nella tua camera. Ti piace il movimento delle donne curde?
Quando ero molto giovane, il mio sogno era di andare in Kurdistan. Ovviamente, la mia famiglia era contraria, soprattutto mia madre, perché avevano troppa paura per me.
Un giorno, comunque, mi unirò alle donne curde. Vorrei combattere al loro fianco, nella lotta armata, contro tutti i terroristi e i fondamentalisti. Questi uomini fanatici non meritano altro che una soluzione radicale. Mi piace il fatto che queste donne siano scese in campo, per lottare senza paura e mi piace la loro organizzazione sociale democratica che unisce uomini e donne.
Puoi immaginare un movimento simile in Afghanistan?
Sì, riprodurre il modello curdo del Rojava in Afghanistan sarebbe possibile, ma dipende dalle donne. In passato abbiamo avuto donne coraggiose che lottavano sia nel campo militare che civile. Ce ne sono ancora.
Jamila è sicuramente una di loro. Pochi giorni dopo l’intervista, Malalai Maiwand, una giornalista di Enikas Radio, è stata uccisa in un attacco terroristico insieme al suo autista, in macchina, mentre andava al lavoro. Il suo nome ricorda l’eroina nazionale che incitò le truppe afgane alla ribellione contro l’invasore britannico nel 1880. In passato Malalai aveva raccontato quanto fosse difficile essere una giornalista donna in Afghanistan, ed era considerata un’attivista come sua madre, uccisa anche lei, 5 anni fa per le sue idee.
Sempre più spesso i talebani sferrano questi attacchi ‘mirati’ a persone in vista, professionisti, difensori di diritti umani. Non li rivendicano perché potrebbero danneggiarli nelle trattative in corso ma li pianificano con molta cura. Malalai non è la sola vittima. In due mesi sono stati uccisi 8 giornalisti, di cui uno il giorno di Capodanno e tre il 10 gennaio, dentro la loro macchina.
Cristiana Cella, giornalista, scrittrice, sceneggiatrice. Segue le vicende afghane dal 1980, quando entrò clandestinamente a Kabul, vietata ai giornalisti, per documentare la resistenza della città contro l’invasione russa. Dal 2009 fa parte del Direttivo dell’Associazione Cisda (Coordinamento Italiano Sostegno donne afghane), ha partecipato a diverse delegazioni in Afghanistan. Ha pubblicato un libro: ‘Sotto un cielo di stoffa. Avvocate a Kabul’, edito da Città del Sole Edizioni.
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