Come funziona la brutale giustizia talebana che seppellisce vive le donne afghane
Dal loro pieno ritorno al potere nell’agosto di tre anni fa i Talebani hanno imposto un sistema che prevede crimini “morali”, spesso puniti con la fustigazione o la lapidazione. Leggi usate per opprimere le donne mentre i tribunali e le corti ignorano sempre di più i crimini e le violenze di genere. Uno scenario asfissiante che le insegue anche negli ospedali e nei parchi pubblici,
Un villaggio di polvere e vento, come tanti altri in Afghanistan. Lo spazio di terra battuta coperto di sassi è circondato da uomini, barbuti, inturbantati, i fucili che ciondolano dalla spalla. Parlano tra loro, sembrano incerti, si armano. Raccolgono da terra i sassi, come bambini goffi per un gioco. Al centro un buco, profondo abbastanza per coprire la parte inferiore di un corpo. Di un corpo di donna.
Il suo volto è cancellato nel video ma si sentono i suoi deboli lamenti. Non grida, non ne ha più la forza. Ha rinunciato. Gli uomini cominciano il tiro al bersaglio, si guardano tra loro, si approvano. I lamenti aumentano, strascicati, come una litania. Il bersaglio è facile, esposto. Una dopo l’altra, le pietre spengono la vita della giovane donna. Una buona lapidazione ha le sue regole: sassi non troppo piccoli, altrimenti non fanno abbastanza male, né troppo grossi altrimenti l’agonia è subito finita. Il buco in cui la condannata è sepolta le impedisce di fuggire ma salva anche la “moralità”, impedisce che le sue parti intime siano visibili.
Da marzo scorso il leader supremo talebano Hibatullah Akhundzada ha annunciato che le punizioni corporali, comprese la fustigazione pubblica e la lapidazione, sono strumenti di legge e verranno obbligatoriamente applicati in tutto l’Afghanistan. Poi si è rivolto all’Occidente: “Nella vostra visione la lapidazione è una violazione dei diritti delle donne. Nel prossimo futuro, prevediamo di applicare la punizione per l’adulterio, che include la lapidazione e la fustigazione pubblica delle donne. Proprio come voi affermate di lottare per salvare e liberare l’umanità, anch’io lo faccio. Voi rappresentate satana e io rappresento dio. Il partito di Allah prevarrà”.
Il partito di Allah, ossia i Talebani, prevale sicuramente in Afghanistan, dove fanno quello che vogliono, con timide e inutili proteste dei Paesi democratici solo a casa loro, più interessati agli affari con le autorità de facto del Paese, che ai diritti delle donne.
Il rappresentante dell’Onu per i Diritti umani, Jeremy Laurence, ha denunciato a giugno l’aumento della diffusione delle punizioni fisiche, impartite in pubblico per “crimini morali” e “fuga da casa”. Sugli spettatori c’è uno stretto controllo, niente giornalisti, né testimoni, cellulari sequestrati.
Zina, ossia adulterio, è il crimine. Una mannaia sospesa sulla testa di qualunque donna da molti anni, non solo da quando i Talebani controllano il Paese. Non è affatto necessario tradire realmente il proprio marito, cosa piuttosto difficile, adesso, per donne recluse nelle case e sorvegliate. Una donna che scappa dalla casa di un marito violento per salvarsi la pelle è accusata di zina, così come una ragazza che si rifiuta di sposare un vecchio sconosciuto, una donna che parla con uomini che non siano della famiglia, una ragazza che vuole sposare l’uomo che ama. Il crimine è sempre zina. Condanna, con un marchio infamante, qualsiasi ribellione delle donne, che possono diventare vittime dei sempre più frequenti “delitti d’onore” da parte delle famiglie. La minaccia dei reati morali, ingabbia il comportamento quotidiano delle donne. E, dato che alle donne è proibito quasi tutto, è facile delinquere.
“Uscire è diventato molto difficile -racconta Salima, assistente sociale a Kabul-, la polizia morale è ovunque, controlla tutto, dal modo in cui sei vestita ai motivi per cui ti trovi in strada. Cercano di spaventarci. Se non sei in regola arriva l’arresto e sappiamo che cosa aspettarci, violenze sessuali e botte. Mesi fa, stavamo andando con la mia famiglia a Pagman, una destinazione ricreativa, un bellissimo parco. All’ingresso i Talebani di guardia ci hanno fermato, appena hanno visto che nella macchina c’erano delle donne. Si sono messi a gridare che alle donne è proibito l’ingresso nei parchi pubblici e lo svago. Hanno minacciato di arrestarci, di frustarci, perché stavamo violando la legge. Questa scena rimarrà per sempre nella mia mente, come l’immagine della totale deprivazione di tutti i nostri diritti. La volontà organizzata di seppellirci vive”.
I suicidi e le patologie mentali sono in forte aumento tra le donne, specialmente tra le più giovani. Le madri spaventate tengono chiuse in casa le loro figlie. “Manizha era tra le nostre allieve più entusiaste -dice Razia, insegnante alle scuole clandestine-. Un giorno non si è presentata e nemmeno quello seguente. Sparita. Abbiamo fatto di tutto, insieme alla madre, per trovarla. Non sappiamo più niente di lei”. I Talebani si sentono liberi di rapire le ragazze, quando meglio credono. Nessuno protesta. Nessuno punisce.
Ma come funziona la giustizia talebana? Un esempio, tanto per avere un’idea. Una donna è portata con urgenza in ospedale dai vicini. Il marito l’ha picchiata e le ha dato fuoco. Le ustioni sono molto gravi. Dopo un mese di agonia la donna muore. La famiglia di lei si appella alla corte talebana perché l’assassino sia punito. Dopo molte insistenze, la corte condanna l’uomo a dare, in risarcimento alla famiglia, un piccolo pezzo di terra. Questo è tutto. Un orto al posto di una figlia.
I Talebani hanno smantellato il quadro giuridico e istituzionale. La giustizia, come noi la intendiamo, non esiste più. C’è una Corte suprema talebana e ci sono diverse corti specifiche e locali. Ma il personale precedente è totalmente sostituito.
Al posto di giudici, avvocati e procuratori ci sono studenti o diplomati alle madrase pakistane, con nessuna esperienza in campo legale, né in altri campi. Nessuna idea di che cosa sia un processo, nessuna indagine. Il risultato è un vuoto e un caos diffuso nel quale le violazioni dei diritti e gli abusi aumentano senza controllo. Il metodo più comune per chiudere un caso rimane la tortura e la confessione estorta, come denuncia Rawadari, organizzazione afghana per i diritti umani, basata in Inghilterra, con operatori all’interno dell’Afghanistan, nel suo report sulla giustizia. Le leggi del Parlamento quasi completamente abolite, specialmente quelle che riguardavano le donne.
Per loro nessuna protezione, nessuna speranza di avere giustizia. I delitti contro le donne non sono più reato. Così non c’è più argine alle violenze domestiche e all’escalation di suicidi e dei matrimoni forzati di bambine. Se una donna ha il coraggio di presentarsi alla polizia per lamentarsi delle violenze del marito rischia di subire ulteriori violenze, verbali e fisiche. Nelle corti talebane i casi che riguardano le donne non sono presi in considerazione.
Non esistono, nell’ultimo anno, procedimenti che riguardino accuse mosse da donne. I casi penali più gravi, vengono giudicati nelle corti religiose, nelle jirga, presiedute da mullah e anziani dei villaggi, trattate al di fuori di qualsiasi struttura giuridica.
La vita della popolazione è regolata dai continui decreti emanati con effetto di legge. Ce ne sono stati più di duecento di cui cento riguardano proprio le donne. “C’è solo la sharia -racconta Soheila, militante di Rawa, l’Associazione rivoluzionaria delle donne afghane-. Non abbiamo leggi e non abbiamo un Parlamento che possa discutere delle leggi, o altre istituzioni. L’Afghanistan è un Paese che non ha Costituzione, non ha sistema legale, ha solo la sharia. Non ti serve altro, secondo i Talebani. Ogni tipo di problema, in qualsiasi campo, istruzione, famiglia, giustizia, può essere risolto in base alle leggi della sharia. Chiunque conosce, o pensa di conoscere, il Corano e la sharia può essere un giudice, specialmente se è armato e ha potere. Tutto è completamente arbitrario”.
Nel corso del 2023 la vita delle donne si è ulteriormente deteriorata. Al peggio non c’è limite. Ce lo racconta l’ultimo report di Rawadari. I nuovi divieti per le donne sono aumentati di numero, peggiorati dalla frequenza di arresti e punizioni pubbliche. C’è chi è stata arrestata e detenuta per aver preso un taxi senza il guardiano maschio, il mahram. Uccisioni extragiudiziali, torture, uccisioni di detenuti, sparizioni forzate, aumento delle punizioni crudeli e degradanti, sono queste le testimonianze raccolte. L’intimidazione e la paura paralizzano le persone, soprattutto le donne, che, sempre di meno, si ribellano. La prigione sempre più stretta.
Anche l’ospedale diventa un miraggio. L’accesso alle cure mediche è limitato da 14 misure specifiche. In ospedale, da sola, non ci vai. Nessuno ti fa entrare e vieni maltrattata. È obbligatorio avere accanto un mahram. Ma gli uomini della famiglia spesso non sono interessati a far curare le loro donne. L’ulteriore ostacolo è la mancanza di personale femminile. Un dottore maschio non può nemmeno vederti.
Negli ospedali il mahram non è richiesto solo alle pazienti. “Il 24 ottobre 2023 -secondo il report di Rawadar- ufficiali del dipartimento per la salute pubblica di Bamyan hanno proibito alle donne impiegate all’ospedale, infermiere, farmaciste, dottoresse, di continuare il loro servizio senza un mahram che le sorvegliasse per tutto il tempo di lavoro. A Nimruz invece, cento donne professioniste della salute sono state espulse e sostituite da altrettanti parenti maschi dei Talebani”.
Di chi è stato rapito, arrestato, punito, poco si riesce a sapere, i media sono controllati. Intimidazioni e minacce verso testimoni, vittime degli abusi e giornalisti sono quotidiane. In alcune province, come nel Panshir, sono stati vietati i cellulari, perché non si possano diffondere video e testimonianze.
Una prigioniera, riporta il Guardian il 3 luglio, è vittima di uno stupro di gruppo da parte dei Talebani, suoi carcerieri. Gli uomini girano un video sulla violenza e lo mandano alla ragazza, minacciando di renderlo pubblico se lei non terrà la bocca chiusa su quanto successo. Ma la ragazza li sfida e manda il video alla stampa locale e internazionale. Non sappiamo se sia sopravvissuta al suo coraggio.
È dai social che arriva quel poco che si riesce a sapere. Non solo dalle vittime ma anche dai Talebani stessi, molto attivi sulle piattaforme. Su Twitter (ora X) si possono trovare sentenze, condanne e punizioni decise dalle corti talebane. Riguardano soprattutto le donne e le persone Lgbtq+. Sostengono la propaganda della paura.
Di tutto questo non si è parlato alla recente conferenza di Doha tra fine giugno e inizio luglio. La Missione di assistenza delle Nazioni Unite in Afghanistan (Unama) pubblica ottimi report sulla situazione delle donne, si parla di persecuzione di genere e crimini contro l’umanità, con conseguenti raccomandazioni ad agire. Che cadono nel vuoto delle lussuose sale di Doha dove i ricatti dei Talebani, che vincolavano la loro partecipazione al silenzio sui diritti delle donne, sono stati accettati dall’Onu senza battere ciglio.
Così donne, ragazze e bambine continuano a percorrere, giorno dopo giorno, il loro labirinto di divieti, con l’ansia nella gola, la paura annidata stabilmente nei pensieri. Che cosa resta alle donne? Poco, oltre alla tenacia e al coraggio di chi si ostina a non lasciarsi schiacciare, a non far incenerire i propri sogni. Ragazze che continuano, ad esempio, nonostante l’alto rischio, a studiare nelle scuole segrete, proteggendo il prezioso sapere delle donne come un tesoro.
Dice Samia, allieva di una scuola clandestina di Rawa: “Non ho nulla per realizzare i miei scopi, tranne una penna”.
Pubblicato su Altreconomia
L’immagine è di repertorio e si riferisce a una lapidazione eseguita in Afghanistan per mano dei talebani nel 2015
Cristiana Cella, giornalista, scrittrice, sceneggiatrice. Segue le vicende afghane dal 1980, quando entrò clandestinamente a Kabul, vietata ai giornalisti, per documentare la resistenza della città contro l’invasione russa. Dal 2009 fa parte del Direttivo dell’Associazione Cisda (Coordinamento Italiano Sostegno donne afghane), ha partecipato a diverse delegazioni in Afghanistan. Ha pubblicato un libro: ‘Sotto un cielo di stoffa. Avvocate a Kabul’, edito da Città del Sole Edizioni.