8 Novembre 2024
“Ci vorrà tempo ma il cambiamento per le donne afghane arriverà”
Mentre i governi (occidentali e non solo) sostengono i vari gruppi armati presenti nel Paese, l’associazione Rawa continua a lavorare per creare una nuova consapevolezza politica. Il racconto di una delle attiviste
Ci incontriamo con Maryam, alle quattro del mattino, Kabul è ancora vuota e buia, lucida di pioggia. Ci aspetta una lunga giornata. Viaggiamo per ore tra le montagne, infagottate in abiti neri che ci nascondono, sulle strade polverose del suo Paese per scoprire piccole realtà preziose nel deserto di pietre e di ingiustizia che circonda le donne. Lungo il percorso troviamo spazi di libertà, impegno, speranza e un’attività costante e combattiva. Un lavoro tenace, che continua da quarant’anni anche ora sotto i Talebani. Era il novembre 2019.
Le cose sono diventate più difficili, adesso. Ma il lavoro, per le donne della Revolutionary association of the women of Afghanistan (RAWA) non si ferma e Maryam (nome di fantasia) ce lo racconta, qui, in Italia. Il cammino che l’ha portata in Europa a ottobre non è stato facile né privo di rischi. È venuta qui per essere la voce delle donne sprofondate nel silenzio dei Talebani. Per mostrare a tutti noi che in quel Paese, dimenticato dai media e dai governi occidentali, le donne vivono una condizione infernale ma ognuna di loro combatte per mantenere viva la propria dignità. Una particolare forza di resistenza, anche all’orrore.
Difficile immaginare un futuro per l’Afghanistan. Quali sono le pedine e i giocatori in campo?
MR L’analisi è complicata e ancor di più le previsioni. Ai destini dell’Afghanistan sono intrecciati quelli di molti governi esteri e ciascuno di loro sta lavorando per i propri interessi e per contrastare i rivali. Cina e Russia si avvicinano ai Talebani per proteggere i loro affari economici e gli Usa non lo possono permettere. Così, attraverso i loro servizi segreti, sostengono lo Stato islamico (Isis) e altri gruppi di fascisti religiosi. Anche i Paesi confinanti, come Iran e Pakistan, fanno lo stesso da sempre sostenendo e usando i terroristi. Altri li accolgono con tutti gli onori come la Turchia. La divisione interna dei Talebani facilita il compito delle intelligence straniere, a caccia delle pedine più convenienti. Finché i terroristi saranno sostenuti dall’estero con denaro, armi e complicità, non saranno sconfitti. Quello che è sicuro è che i civili saranno le vittime e i fondamentalisti i vincitori. È un film che abbiamo già visto.
In Occidente si parla di resistenza armata, di opposizione ai Talebani. Chi sono?
MR La cosiddetta “resistenza” è formata da gruppi che conosciamo bene, fondamentalisti quanto i Talebani -come l’Alleanza del Nord- che hanno commesso crimini di guerra contro la popolazione nei decenni passati. Non sono diversi da chi governa oggi a Kabul, hanno solo un buon maquillage e un po’ di cultura, ma sono altrettanto oscurantisti e feroci soprattutto contro le donne. Anche il giovane Massud, che vuole essere un eroe nazionale come il padre (Ahmad Shāh Massud, assassinato nel 2001, ndr) è un burattino degli americani. Fa parte del loro gioco che, da una parte, lascia il Paese ai Talebani e li rifornisce di materiale bellico, e dall’altra sostiene personaggi come Massud, presentandolo come l’unico argine ai nuovi padroni. Puntano su due cavalli, come abbiamo già visto negli scorsi vent’anni.
Un gioco che potrebbe finire male.
MR Se i governi occidentali continuano ad armare e sostenere questi gruppi per usarli uno contro l’altro per i propri fini e bilanciare le loro influenze possiamo aspettarci una guerra civile su base etnica, come negli anni Novanta. Non vogliono liberare il Paese, vogliono solo una condivisione del potere con i Talebani. Massud all’inizio aveva trattato: aveva chiesto il 50% dei posti nel governo per i suoi. E quando ha ricevuto un rifiuto dai Talebani, ha detto che si sarebbe accontentato anche del 30%.
“Finché questi terroristi saranno sostenuti dall’estero con denaro, armi e complicità, non saranno sconfitti. Quello che è sicuro è che i civili saranno le vittime”
La nuova guardia dei war lords che si spendono in Occidente ha anche un progetto politico preciso? Quale?
MR Si tratta di un progetto federale che si propone di dividere l’Afghanistan secondo le diverse etnie. Le influenze straniere si sono concentrate su un territorio specifico o su una particolare etnia. Ognuno, protettori stranieri e gruppi fondamentalisti, avrebbe così la sua zona di influenza e il suo regno personale.
Un Afghanistan fatto a pezzi, lontano dai vostri scopi, immagino.
MR Sì, molto lontano. Noi non possiamo accettare questa prospettiva e siamo molto preoccupate. Rawa ha sempre combattuto per conquistare la giustizia sociale per tutti gli afghani, per annullare le divisioni etniche, che portano solo ad altri conflitti e rendono il Paese sempre più debole. Del resto quaranta o cinquant’anni fa l’appartenenza etnica non era importante. Adesso l’Afghanistan sta diventando una casa sicura per tutti i gruppi terroristi.
Ma la popolazione non ci sta, le giovani donne trovano il coraggio di scendere per le strade, sfidando le rappresaglie. Alzano cartelli per reclamare i loro diritti, allo studio, al lavoro, alla libertà, alla vita. Gli stessi slogan delle loro sorelle iraniane e delle donne in lotta in tutto il mondo. Quanto è diffusa l’opposizione ai Talebani?
MR Ovunque. Anche nelle zone più arretrate e conservatrici la gente vuole godere dei minimi standard umanitari, sono richieste di base, istruzione, salute, lavoro. Ormai hanno capito che non possono aspettarsi niente di tutto ciò dai Talebani. La sicurezza promessa non c’è, gli attentati continuano, le persone muoiono di fame e non possono lavorare. È insopportabile per chiunque.
Un sentimento di sfida, fatto di gesti semplici: così la piccola resistenza si nasconde nelle pieghe del quotidiano, nell’ombra della dignità ferita. Come si manifesta?
MR Con la musica ad esempio. È molto importante per noi, specialmente quella tradizionale. Alcuni musicisti sono stati arrestati e uccisi ma la gente continua a suonare dentro le case, in segreto. Quando riesci a sentirla ti apre il cuore alla speranza. Ragazze e ragazzi non hanno rinunciato ai loro interessi. Si riuniscono in piccoli gruppi leggono, dipingono, suonano, non si lasciano abbrutire. Ci sono giovani donne che hanno il coraggio di uscire tra loro e senza uomini, indossando solo un velo, senza burqa o hijab nero.
E poi ci sono le ragazze che frequentano le scuole segrete di Rawa. Rischiano, si impegnano e imparano, acquisendo armi per il futuro. Qual ruolo hanno i social media?
MR Sono diventati importanti, anche se pericolosi: è necessario proteggersi, essere attenti a nascondere le proprie tracce. Sono un luogo dove la gente può dire che cosa pensa, mostrare la propria rabbia contro i Talebani, coinvolgere gli altri. Quando il ministro dell’Educazione talebano ha dichiarato che sono le famiglie afghane a non voler mandare a scuola le bambine, è nata spontaneamente una campagna sui social media che si è diffusa molto velocemente. Piccoli messaggi e slogan a favore dell’istruzione delle donne che si sono diffusi in tutto il Paese, in qualsiasi provincia e tra le persone di tutte le etnie.
Il rischio è alto, soprattutto per il lavoro di Rawa. Quali sono gli ostacoli?
MR Anche un piccolo evento, diventa un miracolo. È complicato portare persone sotto lo stesso tetto, non insospettire i vicini, non far sentire le proprie voci da fuori, preparare un piano, una scusa plausibile per la riunione, nel caso in cui i Talebani facessero irruzione. Viaggiare per seguire i nostri progetti nelle province, è difficile: i check points talebani sono ovunque e controllano tutto. Come sempre, ci muoviamo con un basso profilo e molta cautela.
Il racconto delle messinscene che le attiviste di Rawa sono costrette a recitare per ingannare i Talebani è sorprendente. Non possiamo raccontarlo, per ovvi motivi di sicurezza. Ma come fate a portare avanti le vostre attività in queste condizioni?
MR Abbiamo una lunga esperienza della clandestinità, maturata in decenni di lavoro e di sopravvivenza, anche sotto i Talebani, e una solida rete di relazioni e sostenitori. E poi c’è l’esperienza delle lotte delle altre donne e degli altri uomini che, accanto a noi e prima di noi, hanno resistito all’oppressione.
La vostra battaglia si combatte anche nella mente delle donne, è così?
MR Molte donne pensano che non ci sia niente da fare, che la vita prigioniera che stanno vivendo sia il loro destino e che non possano fare altro se non ricorrere a quella atavica e spaventosa forza di sopportazione che fa parte della loro storia. La rassegnazione è il nemico più insidioso. Lo scopo del nostro lavoro -in questo momento in gran parte di soccorso alle prime e più urgenti necessità- è quello di creare una nuova consapevolezza politica, la fiducia e la certezza di poter cambiare le cose. Cerchiamo di spiegare che ognuna di loro può fare qualcosa. Che la politica -di cui non vogliono occuparsi- è importante e che se il governo cambiasse anche molti aspetti della loro vita quotidiana potrebbero mutare. Che potrebbero godere dei diritti che spettano loro, che la vita che fanno si può e si deve trasformare, un passo alla volta. Ci vorrà molto tempo ma il cambiamento ci sarà. E ci sarà solo se le donne ci crederanno.
Pubblicato su Altreconomia, n. 253
Cristiana Cella, giornalista, scrittrice, sceneggiatrice. Segue le vicende afghane dal 1980, quando entrò clandestinamente a Kabul, vietata ai giornalisti, per documentare la resistenza della città contro l’invasione russa. Dal 2009 fa parte del Direttivo dell’Associazione Cisda (Coordinamento Italiano Sostegno donne afghane), ha partecipato a diverse delegazioni in Afghanistan. Ha pubblicato un libro: ‘Sotto un cielo di stoffa. Avvocate a Kabul’, edito da Città del Sole Edizioni.
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