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Autore: Patrizia Fabbri

Contro l’apartheid di genere

In occasione della Giornata internazionale della donna dell’8 marzo di quest’anno le istituzioni internazionali impegnate nella difesa dei diritti umani si sono premurate di confermare il loro sostegno alle donne afghane oppresse dal regime dei Talebani, usando il termine “apartheid di genere” per definire la discriminazione esistente in Afghanistan e in Iran.

Ma l’ex parlamentare indipendente afghana Belquis Roshan, nell’incontro con il Coordinamento italiano a sostegno delle donne afghane avvenuto in occasione della sua visita in Italia ad aprile, ha raccomandato di non farsi “rubare la battaglia per il riconoscimento dell’apartheid di genere dalle organizzazioni internazionali e neanche dall’Onu”. Perché questa presa di posizione? Che cosa intende?

Da un paio d’anni i Talebani, proibendo l’istruzione alle ragazze e il lavoro alle donne e dando il via a un susseguirsi sempre più misogino e violento di proibizioni e limitazioni, hanno mostrato chiaramente non solo di non essere cambiati rispetto al loro passato governo -come avevano voluto credere gli Stati Uniti nell’ambito degli Accordi di Doha del 2020- ma anzi di fare della discriminazione delle donne un aspetto cardine del loro dominio. Da più parti si è cominciato a parlare allora di “apartheid di genere” e dell’opportunità che sia riconosciuto dalla legislazione internazionale come un crimine contro l’umanità.

Dato che appare sempre più illusoria la possibilità di ottenere dai Talebani il rispetto dei diritti delle donne in cambio di aiuti economici, si pensa di fare pressione su di loro attraverso i tribunali e il diritto internazionale.

Sistematica e istituzionalizzata segregazione delle donne

Se tutti gli attivisti e i sostenitori dei diritti delle donne afghane sono concordi nel definire il sistema di oppressione dei Talebani come un “apartheid di genere” in quanto non siamo di fronte a violazioni occasionali ma alla sistematica e istituzionalizzata segregazione delle donne e alla privazione dei loro diritti proprio in quanto genere considerato inferiore, diversi sono gli approcci che si possono avere per affrontare il problema.

Considerata l’entità e la gravità dell’oppressione che operano sulle donne, i Talebani potrebbero già essere perseguiti dalla Corte penale internazionale (Cpi) per il reato di persecuzione di genere. Lo Statuto di Roma della Cpi considera infatti il reato di persecuzione di genere come un crimine contro l’umanità, dove “persecuzione” si ha con “la privazione intenzionale e grave dei diritti fondamentali a causa dell’identità del gruppo o della collettività” e con “genere” si intende “i due sessi, maschile e femminile, nel contesto della società”. Coglie quindi la specificità di questo crimine, ma come atti individuali e compiuti su individui, non come azioni di un governo che opera consapevolmente e sistematicamente contro un gruppo in quanto genere distinto.

Come sostengono molti esperti, però, la definizione di persecuzione di genere non coglie pienamente la natura dell’oppressione subita dalle donne e dalle ragazze in Afghanistan e Iran. Il reato di apartheid, invece, affronta le cause più profonde. La Convenzione internazionale sulla repressione e la punizione dell’apartheid lo definisce come segregazione e discriminazione razziale in un contesto di regime istituzionalizzato di dominio da parte di un gruppo razziale su qualsiasi altro, attuato con l’intenzione di mantenere quel regime.

Quindi nel reato di apartheid si ipotizza la responsabilità dello Stato, ma non si contempla il genere come motivo di discriminazione, solo l’etnia. D’altra parte la Cpi può giudicare e condannare solo le singole persone, ai sensi del diritto penale internazionale che considera responsabili i soggetti, anche per i crimini di gruppo, come è stato ad esempio nel processo di Norimberga. La Cpi sta indagando dal 2006 sulle atrocità commesse in Afghanistan, esaminando i crimini commessi da tutte le parti coinvolte nella guerra del ventennio di occupazione, a cominciare dagli Stati Uniti e dai suoi alleati. E che, però, potrebbe includere anche i crimini commessi dai Talebani dal 2021. Un procedimento molto lungo, troppo secondo alcuni attivisti.

Per accelerare i tempi la Cpi ha scelto allora di stralciare i reati precedenti per potersi concentrare solo su quelli dei Talebani, suscitando contestazioni in chi non è d’accordo nel “dimenticare” i crimini occidentali. Comunque, a oggi, il procuratore della Corte non ha presentato alcuna accusa contro i Talebani, né vi sono procedimenti avviati dagli Stati presso la Corte internazionale di giustizia.

Nonostante la naturale lentezza del procedimento, Human rights watch, Amnesty international e la Commissione internazionale dei giuristi sono tra coloro che ritengono che la Procura della Cpi dovrebbe aggiungere il crimine di persecuzione di genere all’indagine in corso e che gli Stati, attraverso la giurisdizione universale o altre vie giudiziarie, dovrebbero processare i Talebani sospettati di crimini di diritto internazionale.

Sottoporre gli abusi dei Talebani al controllo giudiziario

Dall’altro lato, la Corte internazionale di giustizia è responsabile della risoluzione delle controversie tra Stati su questioni di diritto internazionale. Questa Corte può esaminare le cause intentate da uno Stato contro un altro Paese membro per violazioni della Convenzione delle Nazioni Unite sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (Cedaw), a cui anche l’Afghanistan ha aderito. Basterebbe la richiesta di un solo Stato per sottoporre gli abusi dei Talebani sotto il controllo giudiziario, come recentemente ha fatto il Sudafrica nei confronti di Israele a proposito del “plausibile genocidio” perpetrato a Gaza.

Quindi fin da subito uno Stato parte della Cedaw potrebbe portare i Talebani in tribunale e la Corte internazionale di giustizia potrebbe avere un ruolo importante. Ma nessuno ha finora fatto un passo del genere, sebbene tutti si dichiarino ogni giorno preoccupati per la situazione delle donne in Afghanistan.

Le divergenze non sono poche. Ad esempio, gli Stati Uniti non hanno ratificato la Convenzione perché Democratici e Repubblicani non sono d’accordo sui costi del trattato e non condividono le stesse norme sulla condizione delle donne. Inoltre la Cedaw è stata criticata per la sua prospettiva eteronormativa sul genere e sulla sessualità e per la mancanza del pieno riconoscimento di coloro che non rientrano nelle tradizionali identità di genere.

Altri invece puntano a far riconoscere a livello legislativo internazionale l’apartheid di genere come nuovo crimine contro l’umanità. Al momento è all’esame delle Nazioni Unite una revisione del Trattato sui crimini contro l’umanità e quindi alcuni chiedono che l’apartheid di genere sia inserito tra questi. Mentre in questo periodo è stata istituita presso l’Onu una commissione specifica che ha il compito di rivedere i criteri con cui viene definita la prevenzione e persecuzione dei crimini contro l’umanità. Da più parti si fa pressione e si sollecita il movimento per i diritti ad approfittare di questa finestra istituzionale per ottenere la modifica del Trattato.

Questa terza strada è preferita e fortemente caldeggiata dalle istituzioni internazionali e dalle donne afghane espatriate che vi lavorano all’interno, spesso utilizzate per mostrare il lato “buono” e democratico dei Paesi occidentali quando vogliono addolcire le loro politiche fondamentalmente aggressive, per mantenere l’opinione pubblica fiduciosa e dormiente.

In testa c’è il segretario generale dell’Onu, António Guterres, che fin dal 2022 ha dichiarato che l’oppressione che si accanisce sulle donne in Afghanistan deve essere considerata apartheid di genere perché la sua natura non è occasionale e limitata ma strutturale, dichiaratamente fondante l’ideologia dei Talebani, che mantengono in stato di inferiorità una parte della popolazione, in quanto genere, così rispondendo a tutte le caratteristiche necessarie per definire l’apartheid come tale.

Anche il Gruppo di Lavoro sulla discriminazione contro le donne delle Nazioni Unite il 20 febbraio del 2024 si è espresso per l’inclusione di queste azioni come crimine contro l’umanità ai sensi dell’Articolo 2 del progetto di revisione del Trattato sulla prevenzione e la punizione dei crimini contro l’umanità attualmente all’esame del Sesta Commissione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite.

Già a settembre 2023 le Osservazioni fornite dal sottosegretario generale delle Nazioni Unite e dal direttore esecutivo delle Nazioni Unite Sima Bahous alla riunione del Consiglio di sicurezza delle Onu sulla situazione in Afghanistan chiedevano ai governi “di prestare pieno sostegno a un processo intergovernativo per codificare esplicitamente l’apartheid di genere nel diritto internazionale”.

Il Parlamento europeo il 14 marzo ha affermato poi che “l’applicazione da parte dei Talebani della legge della shari’a e l’esclusione di donne e ragazze dalla vita pubblica equivalgono a persecuzioni di genere e apartheid” e che vanno sostenute “le richieste della società civile afghana di ritenere le autorità di fatto responsabili delle loro azioni, un’indagine da parte della Corte penale internazionale, l’istituzione di un meccanismo investigativo indipendente delle Nazioni Unite e l’espansione delle misure restrittive dell’Ue”. Anche l’Italia a marzo è intervenuta in difesa delle donne afghane, nell’evento organizzato dalla Rappresentanza permanente d’Italia all’Onu “No Poverty eradication without the empowerment of women and girls – next steps for the future of Afghanistan”, ma non è andata oltre un generico appoggio e aiuto economico.

gennaio un gruppo di parlamentari britannici ha dato il via a un’indagine sull’apartheid di genere, la prima al mondo di questo tipo, per analizzare la situazione delle donne e delle ragazze in Iran e Afghanistan rispetto alle definizioni legali esistenti sui crimini internazionali e le possibilità di inserirlo nel quadro giuridico internazionale esistente. Dando vita poi a un rapporto che è stato presentato al Parlamento del Regno Unito il 4 marzo 2024 in cui si dice espressamente che “questa grave questione può essere descritta solo come il crimine di apartheid: sostituendo ‘razza’ con ‘genere’, diventa evidente che la definizione legale riflette la situazione delle donne e delle ragazze in Afghanistan e Iran”.

La campagna “End gender apartheid today” è stata forse la prima richiesta rivolta espressamente ai governi per il riconoscimento di questo crimine. Decine di eminenti giuristi, studiosi e rappresentanti della società civile di tutto il mondo hanno pubblicato una lettera in cui esortano gli Stati membri delle Nazioni Unite a codificare l’apartheid di genere nel progetto di Convenzione sui crimini contro l’umanità.

Anche il Consiglio atlantico degli Stati uniti e il Global justice center, nell’ottobre 2023”, “hanno pubblicato una lettera congiunta e una memoria legale per sollecitare gli Stati membri delle Nazioni Unite a codificare specificamente questo crimine nella bozza di trattato sui crimini contro l’umanità attualmente all’esame della Sesta commissione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite”. Richiesta ribadita dal Consiglio atlantico l’8 marzo di quest’anno e ancora recentemente il 14 marzo.

L’Istituto internazionale per la pace (Ipi) -fondato dall’Onu- ha organizzato un panel sull’argomento. Tra le intervenute, Dorothy Estrada-Tanck ha individuato nella codificazione esplicita dell’apartheid di genere in Afghanistan una priorità per il Gruppo di lavoro delle Nazioni Unite sulla discriminazione contro le donne e le ragazze, di cui è presidente. “Riconoscere e codificare questo come un crimine contro l’umanità è necessario per nominare e comprendere con precisione l’intera portata degli elementi di questo regime e, soprattutto, per innescare l’azione della comunità internazionale”, ha detto. L’evento è stato co-sponsorizzato dal Global justice center, Rawadari, dal Georgetown institute for women, Peace and security e dalle missioni permanenti di Messico e Malta.

La Federazione internazionale per i diritti umani, composta da difensori dei diritti umani provenienti da tutto il mondo, ha aderito ufficialmente alla campagna adottando una risoluzione per riconoscere “l’apartheid di genere”.

L’Alleanza per i diritti umani in Afghanistan, che include Amnesty international, Front Line defenders, Freedom house, Freedom now, Human rights watch, Madre, Organizzazione mondiale contro la tortura (Omct), la Federazione internazionale per i diritti umani (Fidh) e la Lega internazionale per la pace e la libertà delle donne (Wilpf), esprime richieste più generiche ma comunque sollecita vengano stabilite le responsabilità attraverso “meccanismi che includono la Corte penale internazionale e la Corte internazionale di giustizia”.

Così come il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite riunito nella sessione del 22 febbraio del 2024, che nel Rapporto afferma che la situazione delle donne afghane può configurarsi come apartheid di genere e raccomanda agli Stati di “sostenere i meccanismi internazionali di indagine e di responsabilità e avviare o collaborare con i processi di responsabilità nelle giurisdizioni nazionali per le violazioni passate e attuali da parte di tutte le parti in conflitto in Afghanistan, anche per quanto riguarda la giustizia di genere e gli attacchi alle comunità etniche e religiose”.

Prevarranno le considerazioni opportunistiche?

Tante e autorevoli, come si vede, sono le voci che spingono nella direzione dell’identificazione dell’apartheid di genere, e quelle riportate sono solo una parte. Ciò potrebbe far pensare che la strada sia in discesa, dato il gran numero di Paesi nel mondo che si definiscono democratici o che comunque sono contrari alle politiche ultrareazionarie e ultrafondamentaliste dei Talebani.

Ma non è così. Alla fine sono i singoli Stati che decidono all’interno dell’Onu, compresi ovviamente gli Usa e gli alleati occidentali, cioè quelli che prima hanno occupato l’Afghanistan e poi sono stati i promotori dell’accordo che ha riportato al potere i Talebani perché considerati più “affidabili” dei governi da loro stessi confezionati e sostenuti nei vent’anni di occupazione.

Mentre sostengono che le donne afghane non debbano essere abbandonate, è l’Onu stessa a incentivare un percorso di avvicinamento nei confronti del governo talebano con il dichiarato intento di arrivare al suo riconoscimento completo nel più breve tempo possibile, come hanno dimostrato la Valutazione indipendente sull’Afghanistan che ha portato al Forum di Doha del febbraio scorso e i successivi incontri.

Perciò c’è il rischio che prevalgano le preoccupazioni opportunistiche di inimicarsi tutti quei Paesi, e sono tanti, che per affinità culturale o religiosa con i Talebani o per interessi economico-politici nella regione non vogliono l’isolamento dell’Afghanistan e la conseguente limitazione dei contatti commerciali e politici; quelli che hanno di fatto già riconosciuto più o meno apertamente il governo talebano e quindi preferiscano non prendere una posizione chiara e potenzialmente gravida di reazioni negative per loro. Quanto possono essere credibili nel loro proposito di condannare i Talebani?

Certo il riconoscimento dell’apartheid di genere come crimine contro l’umanità non sarebbe di per sé sufficiente a dare il via all’incriminazione dei Talebani perché comunque è indispensabile, come detto, l’azione di uno Stato per mettere in moto il tribunale internazionale, ma sarebbe un enorme aiuto per tutte quelle organizzazioni che come il Cisda e la Coalizione euroafghana sostengono le donne e le organizzazioni afghane come l’Associazione rivoluzionaria delle donne dell’Afghanistan (Rawa) che coraggiosamente si oppongono quotidianamente ai Talebani e chiedono agli stati democratici di non riconoscere il loro governo.

L’apertura di un processo internazionale al governo talebano con l’accusa di apartheid di genere sarebbe un procedimento lungo che non avrebbe effetti immediati sulla vita delle donne afghane, ma renderebbe loro giustizia e rafforzerebbe la loro resistenza.

Le battaglie per accrescere la democrazia e per il riconoscimento dei diritti a livello istituzionale e legislativo non sono mai state vinte per merito delle istituzioni stesse ma per la spinta che hanno avuto dal basso, da chi premeva per ottenere i cambiamenti.

“Non facciamoci strappare questa battaglia”

Come ha detto Belquis Roshan, il riconoscimento che in Afghanistan vi è un sistema di apartheid di genere è una battaglia molto importante e non dobbiamo farcela strappare dai politici di professione. E nemmeno dalle donne che sono state leader politiche in Afghanistan, condividendo responsabilità di governo, e che ora, scappate dopo l’arrivo dei Talebani, riempiendosi la bocca di parole di democrazia, si sono riciclate in Occidente come rappresentanti del popolo e delle donne rimaste invece a soffrire nel Paese. Donne che appaiono nei media e che sono letteralmente usate negli incontri internazionali ufficiali quando i leader e gli Stati più potenti hanno bisogno di mostrare che ascoltano anche la popolazione civile e non solo i Talebani.

Sono le donne che resistono in Afghanistan e che ogni giorno devono affrontare gli attacchi dei decreti dei Talebani le vere rappresentanti di loro stesse. È a loro che dobbiamo dare voce e a chi continua, anche dall’esilio, a darsi da fare senza farsi fagocitare dalle istituzioni e dagli apparati che danno loro maggior prestigio. È grazie alla resistenza e alla resilienza delle donne afghane che l’argomento dell’apartheid di genere è ora all’ordine del giorno. Non possiamo lasciare che a farne una bandiera siano coloro che hanno portato la guerra in Afghanistan e poi hanno voluto lasciare il Paese in mano ai Talebani.

Pubblicato su Altreconomia, 9 maggio 2024

Against Gender Apartheid

On the occasion of International Women’s Day on 8 March this year, the international institutions involved in the defense of human rights took care to confirm their support for the Afghan women oppressed by the Taliban regime, using the term “gender apartheid” to define the discrimination that exists in Afghanistan and Iran.

But the former independent Afghan parliamentarian Belquis Roshan, in the meeting with the Italian Coordination in support of Afghan women which took place during her visit to Italy in April, recommended not to let “the battle for the recognition of gender apartheid be stolen by international organizations and not even by the UN”. Why this stance? What does he mean?

For a couple of years the Taliban, by prohibiting education for girls and work for women and giving rise to an increasingly misogynistic and violent succession of prohibitions and limitations, have clearly shown not only that they have not changed compared to their past government – as the United States had wanted to believe in the context of the 2020 Doha Agreements – but rather to make discrimination against women a key aspect of their domination. From many quarters we then began to talk about “gender apartheid” and the opportunity for it to be recognized by international legislation as a crime against humanity.

Given that the possibility of obtaining respect for women’s rights from the Taliban in exchange for economic aid appears increasingly illusory, the idea is to put pressure on them through the courts and international law.

Systematic and institutionalized segregation of women

If all activists and supporters of Afghan women’s rights agree in defining the Taliban’s system of oppression as “gender apartheid” since we are not faced with occasional violations but with the systematic and institutionalized segregation of women and the deprivation of their rights precisely as a gender considered inferior, there are different approaches that can be taken to address the problem.

Given the extent and severity of their oppression of women, the Taliban could already be prosecuted by the International Criminal Court (ICC) for the crime of gender persecution. The Rome Statute of the ICC in fact considers the crime of gender persecution as a crime against humanity, where “persecution” occurs with “the intentional and serious deprivation of fundamental rights due to the identity of the group or community” and by “gender” we mean “the two sexes, male and female, in the context of society”. It therefore captures the specificity of this crime, but as individual acts carried out on individuals, not as actions of a government knowingly and systematically working against a group as a distinct gender.

As many experts argue, however, the definition of gender persecution does not fully capture the nature of the oppression suffered by women and girls in Afghanistan and Iran. The crime of apartheid, however, addresses the deeper causes. The International Convention on the Suppression and Punishment of Apartheid defines it as racial segregation and discrimination in the context of an institutionalized regime of domination by one racial group over any other, implemented with the intention of maintaining that regime.

Therefore, in the crime of apartheid the responsibility of the State is assumed, but gender is not considered as a reason for discrimination, only ethnicity. On the other hand, the ICC can only judge and condemn individual people, in accordance with international criminal law which holds individuals responsible, even for group crimes, as was the case for example in the Nuremberg trial. The ICC has been investigating the atrocities committed in Afghanistan since 2006, examining the crimes committed by all parties involved in the war of the twenty-year occupation, starting with the United States and its allies. And which, however, could also include the crimes committed by the Taliban since 2021. A very long process, too long according to some activists.

To speed up the process, the ICC then chose to remove the previous crimes in order to focus only on those of the Taliban, arousing protests from those who disagree with “forgetting” Western crimes. However, to date, the Court Prosecutor has not filed any charges against the Taliban, nor are there any proceedings initiated by States at the International Court of Justice.

Despite the natural slowness of the proceedings, Human Rights Watch, Amnesty International and the International Commission of Jurists are among those who believe that the Prosecutor of the ICC should add the crime of gender persecution to the ongoing investigation and that States, through universal jurisdiction or other judicial avenues, should try Taliban suspects of crimes under international law.

Bring Taliban abuses to judicial review

On the other hand, the International Court of Justice is responsible for resolving disputes between states on issues of international law. This Court can hear cases brought by a state against another member country for violations of the United Nations Convention on the Elimination of All Forms of Discrimination against Women (Cedaw), to which Afghanistan is also a party. The request of a single state would be enough to subject the Taliban’s abuses to judicial control, as South Africa recently did against Israel regarding the “plausible genocide” perpetrated in Gaza.

So right away a state party to Cedaw could take the Taliban to court and the International Court of Justice could play an important role. But no one has so far taken such a step, although everyone declares themselves worried every day about the situation of women in Afghanistan.

The differences are not few. For example, the United States has not ratified the Convention because Democrats and Republicans disagree on the costs of the treaty and do not share the same standards on the status of women. Furthermore, Cedaw has been criticized for its heteronormative perspective on gender and sexuality and for its lack of full recognition of those who do not fit traditional gender identities.

Others, however, aim to have gender apartheid recognized at an international legislative level as a new crime against humanity. A revision of the Crimes Against Humanity Treaty is currently being considered by the United Nations and so some are calling for gender apartheid to be included among these. While in this period a specific commission was established at the UN with the task of reviewing the criteria with which the prevention and prosecution of crimes against humanity is defined. The rights movement is being pressured and urged from many quarters to take advantage of this institutional window to obtain modification of the Treaty.

This third path is preferred and strongly supported by international institutions and by the expatriate Afghan women who work within them, often used to show the “good” and democratic side of Western countries when they want to soften their fundamentally aggressive policies, to maintain the confident and dormant public opinion.

In the lead is the UN Secretary General, António Guterres, who since 2022 has declared that the oppression that is raging against women in Afghanistan must be considered gender apartheid because its nature is not occasional and limited but structural, declaredly founding the ideology of the Taliban, who keep a part of the population in a state of inferiority, as a gender, thus responding to all the characteristics necessary to define apartheid as such.

The United Nations Working Group on Discrimination against Women also voted on 20 February 2024 for the inclusion of these actions as crimes against humanity under Article 2 of the draft revision of the Treaty on Prevention and Prevention. punishment of crimes against humanity currently under consideration by the Sixth Committee of the United Nations General Assembly.

Already in September 2023, the Remarks provided by the UN Under-Secretary-General and the UN Executive Director Sima Bahous at the UN Security Council meeting on the situation in Afghanistan called on governments “to lend full support to an intergovernmental process to explicitly codify the ‘gender apartheid in international law’.

On March 14, the European Parliament then stated that “the Taliban’s application of shari’a law and the exclusion of women and girls from public life amount to gender persecution and apartheid” and that “the demands of Afghan civil society to hold the authorities de facto accountable for their actions, an investigation by the International Criminal Court, the establishment of an independent UN investigative mechanism and the expansion of EU restrictive measures”. In March, Italy also intervened in defense of Afghan women, in the event organized by the Permanent Representation of Italy to the UN “No Poverty eradication without the empowerment of women and girls – next steps for the future of Afghanistan”, but not it went beyond generic support and economic help.

In January a group of British parliamentarians launched an investigation into apartheid, the first of its kind in the world, to analyze the situation of women and girls in Iran and Afghanistan in relation to existing legal definitions of international crimes and the possibilities of incorporating it into the existing international legal framework. Then giving rise to a report that was presented to the United Kingdom Parliament on 4 March 2024 which expressly says that “this serious issue can only be described as the crime of apartheid: by replacing ‘race’ with ‘gender’, it becomes evident that the legal definition reflects the situation of women and girls in Afghanistan and Iran.”

The “End gender apartheid today” campaign was perhaps the first request expressly addressed to governments for the recognition of this crime. Dozens of eminent jurists, scholars and civil society representatives from around the world have published a letter urging United Nations member states to codify gender apartheid in the draft Convention on Crimes against Humanity.

The US Atlantic Council and the Global Justice Center also published a joint letter and legal brief in October 2023 urging UN Member States to specifically codify this crime in the draft Crimes Against Human Rights Treaty. humanity currently being examined by the Sixth Committee of the United Nations General Assembly”. Request reiterated by the Atlantic Council on 8 March this year and again recently on 14 March.

The International Peace Institute (IPI) – founded by the UN – organized a panel on the topic. Among those who spoke, Dorothy Estrada-Tanck identified the explicit codification of gender apartheid in Afghanistan as a priority for the United Nations Working Group on Discrimination against Women and Girls, of which she is president. “Recognizing and codifying this as a crime against humanity is necessary to accurately name and understand the full scope of the elements of this regime and, above all, to trigger action by the international community,” she said. The event was co-sponsored by the Global justice center, Rawadari, the Georgetown institute for women, Peace and security and the permanent missions of Mexico and Malta.

The International Federation for Human Rights, made up of human rights defenders from all over the world, officially joined the campaign by adopting a resolution to recognize “gender apartheid”.

The Alliance for Human Rights in Afghanistan, which includes Amnesty International, Front Line Defenders, Freedom House, Freedom Now, Human Rights Watch, Madre, World Organization against Torture (OMCT), the International Federation for Human Rights (FIDH) and the Women’s International League for Peace and Freedom (WILPF), expresses more general requests but still urges that responsibilities be established through “mechanisms that include the International Criminal Court and the International Court of Justice”.

As well as the United Nations Human Rights Council meeting in its session on 22 February 2024, which in the Report states that the situation of Afghan women can amount to gender apartheid and recommends that States “support international mechanisms of investigation and accountability and initiate or collaborate with accountability processes in national jurisdictions for past and current violations by all parties to the conflict in Afghanistan, including with respect to gender justice and attacks on ethnic and religious communities.”

Will opportunistic considerations prevail?

As can be seen, there are many authoritative voices pushing in the direction of identifying gender apartheid, and those reported are only a part. This could lead one to think that the road is downhill, given the large number of countries in the world that define themselves as democratic or that are in any case against the ultra-reactionary and ultra-fundamentalist policies of the Taliban.

But is not so. In the end, it is the individual states that decide within the UN, obviously including the USA and the Western allies, i.e. those who first occupied Afghanistan and then were the promoters of the agreement that brought the Taliban back to power because considered more “reliable” than the governments they themselves created and supported over the twenty years of occupation.

While they maintain that Afghan women should not be abandoned, it is the UN itself that is encouraging a process of rapprochement towards the Taliban government with the declared intent of achieving its complete recognition in the shortest possible time, as demonstrated by the independent evaluation on Afghanistan which led to the Doha Forum last February and subsequent meetings.

Therefore there is the risk that opportunistic considerations will prevail to antagonize all those countries, and there are many, which due to cultural or religious affinity with the Taliban or for economic-political interests in the region do not want the isolation of Afghanistan and the consequent limitation commercial and political contacts; those who have in fact already more or less openly recognized the Taliban government and therefore prefer not to take a clear position potentially fraught with negative reactions for them. How credible can they be in their aim to condemn the Taliban?

Of course, the recognition of gender apartheid as a crime against humanity would not in itself be sufficient to initiate the indictment of the Taliban because in any case, as mentioned, the action of a State is essential to set the international tribunal in motion , but it would be an enormous help for all those organizations that like Cisda and the Euro-Afghan Coalition support women and Afghan organizations like the Revolutionary Association of Women of Afghanistan (Rawa) that courageously oppose the Taliban on a daily basis and ask democratic states not to recognize their government.

The opening of an international trial against the Taliban government on charges of gender apartheid would be a long process that would not have immediate effects on the lives of Afghan women, but it would bring them justice and strengthen their resistance.

The battles to increase democracy and for the recognition of rights at an institutional and legislative level have never been won thanks to the institutions themselves but to the push they received from below, from those who were pushing to obtain changes.

“Let’s not let this battle tear us away”

As Belquis Roshan said, the recognition that there is a system of gender apartheid in Afghanistan is a very important fight and we must not let it be taken away from us by professional politicians. And not even by the women who were political leaders in Afghanistan, sharing government responsibilities, and who now, having fled after the arrival of the Taliban, filling their mouths with words of democracy, have recycled themselves in the West as representatives of the people and women who remained instead to suffer in the country. Women who appear in the media and who are literally used in official international meetings when leaders and the most powerful states need to show that they also listen to the civilian population and not just the Taliban.

The women who resist in Afghanistan and who every day have to face the attacks of the Taliban decrees are the true representatives of themselves. It is to them that we must give voice and to those who continue, even from exile, to get busy without being swallowed up by the institutions and apparatuses that give them greater prestige. It is thanks to the resistance and resilience of Afghan women that the topic of gender apartheid is now on the agenda. We cannot let those who brought the war to Afghanistan and then wanted to leave the country in the hands of the Taliban make a flag of it.

Report CENTRO EDUCATIVO nell’Ovest dell’Afghanistan

Negli ultimi mesi il lavoro del Centro educativo, realizzato da una delle associazioni afghane che CISDA sostiene, è aumentato in modo significativo. Siamo partite con 50 studenti e studentesse, che ora è una comunità fiorente formata da circa 350 ragazzi e ragazze volenterosi. I nostri corsi includono lo studio di inglese, dari, e disegno, e offrono un’esperienza educativa a tutto tondo. Operativo sei giorni alla settimana dalle 8 alle 17, il Centro offre un ambiente di apprendimento coerente e accessibile a tutte e tutti.

Il Centro educativo, un faro di speranza

Durante i tre mesi di vacanza nel rigido inverno afghano, spesso i bambini rimangono a casa. In quei mesi sono poche le famiglie che possono permettersi di mandare i loro figli in centri di apprendimento privati. Per venire incontro a questa necessità, abbiamo organizzato corsi speciali e attività durante la pausa invernale, che sono stati ben accolti dai nostri studenti e studentesse e dalle loro famiglie. In Afghanistan, le sfide poste dalla presenza dei talebani hanno reso estremamente difficoltoso per le ragazze accedere all’istruzione. Molti centri educativi che fornivano opportunità educative per ragazze più adulte sono stati costretti a chiudere. Nell’Ovest, così come in altre parti del paese, le regole dei talebani sono ferree riguardo al modo in cui le donne si devono vestire, alla limitazione della loro libertà di circolazione e alle opportunità educative.

Nonostante questi ostacoli, il nostro Centro educativo rimane un faro di speranza per i nostri studenti e studentesse. Le riunioni regolari tra gli insegnanti e i genitori favoriscono la collaborazione e il feedback, e le preziose informazioni che ci vengono direttamente dalla comunità consentono di arricchire i nostri programmi.

Recentemente è stato organizzato un concorso di disegno che ha messo in luce la creatività dei nostri studenti e delle nostre studentesse, e le opere più meritevoli sono state esposte in modo ben visibile all’interno del Centro.

Nell’ottobre 2023, i nostri studenti e le nostre studentesse si sono riuniti per celebrare la Giornata degli insegnanti e onorare la dedizione e il duro lavoro dei nostri educatori ed educatrici. Sono stati condivisi poesie, articoli e canzoni, e gli insegnanti hanno ricevuto segni di apprezzamento. Un sentito discorso ha sottolineato il potere trasformativo dell’educazione e dell’apprendimento per creare un futuro migliore.

I nostri studenti e le nostre studentesse sono spinti a eccellere anche attraverso esami settimanali e mensili; chi raggiunge i migliori risultati riceve un premio. Al termine di ogni ciclo di studi, vengono consegnati certificati e schede di valutazione, così che i ragazzi e le ragazze siano consapevoli dei loro progressi.

Oltre alle attività curricolari, i nostri studenti e studentesse hanno accesso a proiezioni settimanali di film educativi; i più gettonati sono stati i documentari di geografia.

Le donne raccontano

A., una studentessa di 12 anni, riflette sul lavoro del Centro, e sugli ostacoli che deve superare per coltivare la sua passione per l’inglese. “Sono entusiasta di aver trovato questo centro vicino a casa mia”, condivide. “Ho già ampliato il mio vocabolario di inglese e sono ansiosa di continuare ad imparare.”

Oltre che continuare a incoraggiare e a dare forza ai nostri studenti e studentesse attraverso l’istruzione, il Centro educativo è impegnato per promuovere un ambiente di apprendimento solidale e inclusivo per tutti e tutte.

Il lavoro del Centro educativo ha un forte impatto sulla vita dei suoi studenti e delle sue studentesse, in particolare quelli provenienti da contesti più svantaggiati.

S., che fa parte di una famiglia povera di 10 persone, condivide la sua gratitudine per il Centro, che offre i corsi quasi gratuitamente. Suo padre, pur essendo analfabeta, apprezza l’educazione e ha mandato al centro quattro dei suoi figli. S. apprezza gli insegnanti laboriosi e compassionevoli, evidenziando potenziale trasformativo del Centro per famiglie povere come la sua.

A., una studentessa di 12 anni che frequenta la quinta elementare in una scuola privata, ha paragonato i suoi lenti progressi nell’apprendimento di base con il rapido avanzamento che ha sperimentato al Centro. È partita dal primo livello di lingua dari, ora legge con sicurezza e scrive, e ha sottolineato l’efficacia del centro nel promuovere la crescita accademica.

H., una ragazza di 15 anni a cui è stata negata l’istruzione a causa della chiusura delle scuole imposta dai talebani, temeva che la sua famiglia la obbligasse a un matrimonio precoce. Determinata a continuare gli studi, ha convinto la sua famiglia e si è iscritta alle lezioni di dari e di inglese presso il Centro. H. ha parlato dell’impatto che ha avuto l’istruzione sulla sua vita, sulle sue capacità e sulla sua autostima, e ora immagina un futuro migliore grazie alle nuove opportunità di apprendimento.

R., una studentessa di 16 anni che deve percorrere una distanza considerevole per raggiungere il Centro, ha riflettuto sulla sua istruzione, interrotta al settimo anno dopo che, a partire dall’agosto 2021, è stato imposto alle ragazze il divieto di andare a scuola. Nonostante debba superare grossi ostacoli, è dedicata ai suoi studi e promuove i centri educativi come spazi vitali per le ragazze, affinché si liberino dalle regole disumane dei talebani. La resilienza e la determinazione R. dimostrano l’importanza dell’istruzione accessibile per le comunità marginalizzate.

S., una madre di 40 anni con un forte desiderio di imparare, ha sottolineato l’importanza dell’istruzione e partecipa attivamente alle lezioni del Centro insieme ai suoi figli. Il divario di età con le sue compagne di classe non le crea problemi, e la sua sete di conoscenza simboleggia il ruolo del Centro nel dare a individui di tutte le età la possibilità di avere opportunità di apprendimento.

Grazie dagli organizzatori

L’Organizzazione afghana che promuove questi corsi è grata ai suoi sostenitori e sostenitrici per averle consentito di continuare la sua missione in circostanze difficili per le donne afghane.

L’Organizzazione è impegnata in diversi progetti umanitari, ma ritiene che i progetti educativi, che comprendono corsi clandestini, centri educativi, scuole e programmi di alfabetizzazione, siano un pilastro fondamentale.

L’Organizzazione è impegnata contro l’estremismo religioso e l’oppressione, ma rimane dedicata alla promozione di consapevolezza e all’educazione come strumenti essenziali nella lotta contro ingiustizie sociali portate avanti da gruppi fondamentalisti come i talebani

Bilquis Roshan in Italia per alcuni importanti incontri

Bilquis Roshan è una nostra compagna afghana. L’abbiamo incontrata più volte nel suo Paese, dove viveva costantemente sotto scorta a causa delle sue continue denunce nei confronti dei signori della guerra al potere, della corruzione e dell’ingiustizia dilaganti, dell’occupazione NATO che portava solo più guerra e insicurezza. Nel suo programma c’erano pace, giustizia per tutti coloro che avevano subito gravi perdite durante i troppi anni di guerre e invasioni dell’Afghanistan (dall’invasione sovietica, alla guerra civile scatenata dai signori della guerra, dai talebani al periodo dell’invasione NATO), giustizia sociale, liberazione delle donne.

Ci hanno sempre colpito la sua forza, il suo coraggio, la sua ironia e le sue risate contagiose; gli incontri con lei sono sempre stati un momento importante delle nostre delegazioni.

Lo scorso marzo Bilquis è stata in Italia.

A Roma ha incontrato alcune parlamentari, che hanno promesso di mantenere alta l’attenzione sull’Afghanistan e soprattutto sulla condizione delle donne, ora costrette a subire un’apartheid di genere. È stata poi accolta nella sede dell’ANPI provinciale, dove si è riunita con le donne della commissione femminile; il suo intervento, centrato sulla resistenza delle donne, è stato seguito con molto interesse.

La visita a Roma si è conclusa con un incontro con le ragazze e i ragazzi della comunità afghana locale che volevano avere informazioni sulla situazione del paese e sulla diffusione delle scuole coraniche.

A Milano ha avuto un incontro con le donne del CADMI (Casa di accoglienza per le donne maltrattate), con cui ha parlato della sistematica violenza nei confronti delle donne.

Un ultimo incontro pubblico prima della sua partenza ha avuto luogo sempre a Milano, in un evento su donne e guerra organizzato in occasione delle celebrazioni per i 10 anni della Casa delle donne. Prima di lasciare l’Italia, Belquis ha fatto un incontro online molto partecipato con le associazioni della Rete euro-afghana; ha illustrato quello che vorrebbe fare, dall’Europa, per mantenere l’attenzione sul suo paese.

La biografia di Belquis

Nata nel 1973 nella provincia di Farah (sud-ovest dell’Afghanistan); negli anni dell’invasione sovietica Bilquis va in esilio con la sua famiglia prima in Iran e, poi, in Pakistan, dove studia in una scuola per rifugiati cercando modi per acquisire consapevolezza politica; questo percorso la porta a decidere di mettersi al servizio delle donne del suo paese.

Nel 2001, Dopo l’occupazione dell’Afghanistan da parte della NATO, Bilquis torna a Farah e inizia a lavorare come direttrice di un centro medico per donne.

Nel 2005 si candida e viene eletta elezioni nel consiglio provinciale di Farah, ma continua a lavorare nel suo territorio.

Nel 2009 viene nuovamente eletta nel consiglio provinciale di Farah e va a Kabul come rappresentante del consiglio alla Mishrano Jirga, la Camera Alta del Parlamento (Senato) dove si adopera per smascherare i crimini dei signori della guerra. In quel periodo frequenta la Facoltà di legge all’Università di Kabul.

Nel 2018 si candida alle elezioni parlamentari e viene eletta alla Wolesi Jirga (Camera Bassa del Parlamento), sempre per la provincia di Farah. Nonostante le continue minacce di morte continua a denunciare crimini e corruzione di ministri e parlamentari.

Alla Loya Jirga (tradizionale Grande Assemblea) del 13 ottobre 2013 è l’unica rappresentante a opporsi alla firma di un patto di sicurezza con gli Stati Uniti e decide di lasciare l’Assemblea con lo slogan “Il patto con gli USA è un tradimento della nostra patria” dichiarando ai media che la presenza militare americana in Afghanistan rappresenta un pericolo per il futuro del suo Paese.

Roshan fa ancora sentire la sua voce durante la Loya Jirga del 7 agosto 2020, quando il governo fantoccio di Ashraf Ghani decide di liberare dalla prigione oltre 5000 terroristi talebani, un accordo che lei considera ‘tradimento della nazione’. In quella occasione è stata buttata a terra e picchiata da una donna del personale di sicurezza. Questo incidente ha avuto un’enorme copertura mediatica ed è stato condannato in tutto l’Afghanistan, mettendo in ombra l’intera Loya Jirga”.

Il suo nome è stato inserito nella lista nera dei talebani e dell’ISIS, ma Bilquis non ha mai fatto marcia indietro.

Dopo il ritorno al potere dei talebani il team che si occupava della sua sicurezza suggerisce a Bilquis di non apparire più in pubblico perché troppo rischioso. Successivamente è costretta a lasciare il paese: “Non avrei mai pensato di lasciare l’Afghanistan, il mio amato Paese, ma dall’agosto 2021, con la caduta del governo fantoccio di Kabul, mi è stato impossibile continuare le mie attività e la mia vita è ad alto rischio. Oggi voglio continuare la mia missione, voglio far conoscere in tutto il mondo il destino del mio sfortunato popolo”.

Belquis Roshan vive attualmente in Germania dove è presente una grande comunità di afghani, ma continua a portare in giro per il mondo la voce delle donne afghane.

RAWA celebra la Giornata internazionale della donna

L’Associazione Rivoluzionaria delle donne Afghane (RAWA) ha organizzato un’iniziativa per l’8 marzo in Afghanistan. Questo incontro si è svolto nonostante le imposizioni dei talebani mirate a vietare le attività delle donne con minacce, pressioni e repressione, mettere a tacere le loro voci di protesta e reprimere il loro spirito combattivo. Tuttavia, le nostre donne resilienti hanno svolto un ruolo significativo nella lotta contro il fascismo e il fondamentalismo, con coraggio e consapevolezza.

È stata espressa gratitudine nei confronti delle ragazze, delle donne e delle madri che hanno partecipato nonostante la nevicata e altre difficoltà logistiche. All’inizio è stata recitata una poesia:

Combattiamo contro la tirannia e le tenebre,
Mano nella mano, marciamo verso la vittoria.
Finché ogni anima assaggerà la dolcezza della libertà,
Cantiamo l’inno della libertà.
Odiamo i veli forzati che avvolgono i nostri volti,
Pugni e acido sui nostri volti, nel dominio della schiavitù.

Dobbiamo ribellarci a povertà, oppressione e discriminazione
Costruiamo un mondo uguale insieme
Sii una donna e insorgi come una donna
Alzati e corri forte
Sii donna e ribellati con forza!

La sala è stata decorata con slogan e immagini sulla lotta e sul sacrificio delle donne in Afghanistan e nel mondo. Questo il discorso iniziale.

L’8 marzo è il giorno simbolico della solidarietà globale delle donne oppresse in tutto il mondo e un’opportunità per continuare insieme la nostra lotta per la liberazione e l’uguaglianza. Purtroppo nella nostra terra governano forze reazionarie che considerano le donne il nemico principale; tutte le loro politiche sono basate su restrizioni e intimidazioni nei confronti delle donne. In questi giorni, l’ondata di repressione, arresti e torture da parte dei talebani addestrati dalla CIA e dall’ISI, in particolare da parte del Ministero per la Propagazione della Virtù e la Prevenzione del Vizio, ha colpito tutto il paese. Questi fondamentalisti religiosi e fascisti hanno imparato dai loro predecessori a mantenere la società chiusa e arretrata, a reprimere le donne, uno dei pilastri principali della rivoluzione, chiudendole in casa, tagliando loro le ali, e distruggendo i loro sogni.”

Le giovani donne di RAWA hanno poi cantato l’inno, Donne insorgete, che incita alla rivolta contro la violenza e l’oppressione.

RAWA 8 marzo 2024 
 
Zarlasht, una rappresentante di RAWA, ha descritto in dettaglio le nostre attività politiche del prossimo futuro.

RAWA è vicina alle sofferenze delle donne in cerca di giustizia e alle combattenti di tutto il mondo. L’8 marzo è il giorno in cui chiedere giustizia e uguaglianza e rinnovare l’impegno a organizzare un movimento delle donne forte e unito, capace di sradicare l’oppressione e le discriminazioni della società patriarcale. Non permettiamo alle forze reazionarie e all’imperialismo di svuotare di significato a questa giornata militante e rivoluzionaria per trasformarla in un giorno in cui si regalano fiori e si promette falso amore alle donne per nascondere la misoginia.

Commemorare l’8 marzo ha per noi un valore molto più alto, perché qui, sotto il soffocante terrore dei criminali fondamentalisti talebani, le donne che soffrono sono più che in qualsiasi altra regione del mondo. Le donne afghane sono private dei loro diritti fondamentali: la libertà, l’istruzione e il lavoro, l’imposizione dell’hijab. Gli Stati Uniti e i loro alleati non hanno riconosciuto ufficialmente i talebani, ma in segreto stanno cercando di rafforzarli e sostenerli e, in questo modo, impedire il crollo di questo Emirato di assassini. Anche se le truppe degli Stati Uniti e della NATO si sono ritirate dall’Afghanistan, gli interventi dei paesi occidentali per trasformare l’Afghanistan in un centro di terrorismo continuano e negli ultimi anni l’ISIS e altre bande di terroristi qui si sono potuti organizzare liberamente. Il terrorismo islamico e l’imperialismo sono due facce della stessa medaglia”.

RAWA 8 marzo 2024 
 
Analizzando la situazione corrente e il tradimento dei governi occidentali, Zarlasht ha affermato:

“Per decenni, gli Stati Uniti hanno sostenuto e alimentato fondamentalisti mujahdeen, i talebani, l’ISIS come tattica per imporre le loro politiche coloniali e predatorie in Afghanistan e continuare a dominare la regione. Con questo scopo li hanno sempre armati fino ai denti e, dopo vent’anni di spargimento di sangue, grazie al sostegno finanziario e diplomatico aperto e clandestino, lasciano che il regime talebano vada avanti. L’auspicio e gli sforzi dell’Occidente e delle Nazioni Unite è quello di creare un ‘governo inclusivo’. Ciò che intendono per ‘inclusivo’ non è altro che tenere insieme un numero di intellettuali pro USA/NATO e di fondamentalisti fidati dell’amministrazione talebana; questo, naturalmente, non porterà il minimo cambiamento nelle politiche criminali degli attuali governanti.

Le politiche disumane del governo imperialista degli Stati Uniti dimostrano ciò che RAWA ha sempre sostenuto: gli USA sono in guerra con il popolo afghano e in pace con i criminali. La storia vergognosa e criminale degli Stati Uniti dimostra che hanno sempre sostenuto i regimi, gli elementi e le istituzioni più odiati e hanno cospirato per rovesciare governi e movimenti popolari. Alla Casa Bianca non importa come funziona il governo in Afghanistan e per quale motivo la nostra gente muore. Zalmi Khalilzad ha dichiarato chiaramente che gli Stati Uniti sono soddisfatti dei talebani e ha detto senza mezzi termini che se le ragazze non possono andare a scuola, è il problema del popolo afgano, non degli Stati Uniti! Ciò che conta per gli Stati Uniti e la CIA è che questo regime fantoccio resti sotto il loro controllo in modo che possano costituire una minaccia per la Russia, la Cina, l’Iran e altri paesi rivali”.

RAWA 8 marzo 2024 
 
Zarlasht si è appellata agli uomini e alle donne che soffrono perché si preparino ad una battaglia vincente.

Dobbiamo sapere che senza acquisire consapevolezza e combattere con le nostre armi, non sarà possibile vedere il benessere e il successo o assistere a miglioramenti della nostra tragica situazione. Ancora una volta, in occasione dell’8 marzo, chiediamo a tutte le donne dell’Afghanistan di mobilitarsi e lottare per liberarsi dalla morsa dell’imperialismo e dei suoi lacché jihadisti e talebani e dalle tradizioni della società patriarcale. Porre fine alla violenza domestica, alla violenza sessuale, agli abusi e alla violenza contro le donne non sarà possibile solo organizzando seminari con le ONG. Se vogliamo cambiare la situazione, specialmente per noi donne, dobbiamo lavorare per formare un movimento composto da tutte le etnie e gruppi regionali afghani contro il fondamentalismo e l’occupazione…. In un momento in cui le donne afghane sono prigioniere del peggior fondamentalismo, RAWA è solidale con le donne che combattono in Iran, Palestina, Kurdistan, Tunisia, India e in tutto il mondo. Impariamo dal loro coraggio e dalla loro fermezza.”

RAWA 8 marzo 2024 
 
Con il ritorno dei talebani, un gran numero di intellettuali e di donne sono andate in Occidente, ma RAWA è rimasta accanto al suo popolo e si impegna a continuare a lavorare e organizzare le donne nelle condizioni più difficili. Durante l’evento sono state proiettate immagini e video delle più recenti attività politiche di RAWA, della distribuzione di cibo ai bisognosi, dei servizi offerti dai team medici nelle zone più remote, della distribuzione di aiuti in situazioni di emergenza, dei corsi di alfabetizzazione e politici clandestini.

In omaggio alla memoria delle donne rivoluzionarie e alla rivolta delle Donne, Vita, Libertà in Iran sono stati presentati una poesia (La primavera sta arrivando) di Marzia Ahmadi Oskuee, una delle famose martiri dell’organizzazione iraniana dei guerriglieri Fedai del Popolo, e un cortometraggio su Sepideh Qolian, una manifestante iraniana che ha creato un’epica nelle terribili prigioni del regime sanguinario dell’Iran.

RAWA è orgogliosa di essere in contatto con diverse attiviste, movimenti progressisti e organizzazioni nel mondo fin dalla sua istituzione e ha sempre ricevuto da loro solidarietà, consenso e sostegno politico. La maggior parte di queste forze hanno raccolto donazioni e ci hanno aiutato con il loro impegno e le loro iniziative. Anche quest’anno, in occasione dell’8 marzo, abbiamo ricevuto molti messaggi di solidarietà e Mursal ne ha condivisi alcuni con l’assemblea.

RAWA 8 marzo 2024 
 
Anche nelle peggiori condizioni, le sostenitrici straniere di RAWA, con grande coraggio, sono state al nostro fianco contro le politiche dei loro governi guerrafondai e in difesa del nostro popolo oppresso. Quest’anno, un gruppo di loro ha partecipato al nostro incontro e ha espresso la sua solidarietà. Alla fine dell’evento, tutte le partecipanti si sono alzate e hanno cantato l’inno Il Sole della Libertà, basato sulla famosa canzone El pueblo unido jamas serà vencido! di Victor Jara, un cantante rivoluzionario cileno assassinato dalla dittatura di Pinochet.

RAWA 8 marzo 2024 
 
RAWA 8 marzo 2024 
 
RAWA 8 marzo 2024

Vite preziose

Il progetto ‘Vite Preziose’ promosso da CISDA e una delle associazioni che sosteniamo prevede il sostegno a distanza di donne e bambine vittime di violenza.

Come è nato il progetto

Nel giugno 2011, sul quotidiano I’Unità, venivano raccontate le storie di alcune donne, incontrate a Kabul e altre, raccolte dalle operatrici dell’associazione afghana, nelle ‘case protette’ e nei Centri di Aiuto Legale che gestivano, tra i pochissimi luoghi sicuri, dove le vittime di violenza potevano trovare aiuto.

Sono storie di madri di famiglia, di ragazzine, di bambine, che ci aprono la porta su una quotidianità devastata, per noi inimmaginabile: la violenza feroce, la povertà estrema, il pregiudizio, l’abbandono, l’ingiustizia, la totale esclusione da ogni elementare diritto umano.

Ci raccontano come sono state vendute le loro vite, la prigione delle loro case, la crudeltà di padri, mariti, suoceri e cognati; l’impossibilità di essere curate e rispettate, di lavorare, di istruirsi, di vivere con dignità e di ottenere giustizia per i crimini commessi contro di loro. E ci parlano anche dei loro sogni, vivere una vita normale, quella che noi viviamo ogni giorno.

Furono gli stessi lettori a chiedere come poter entrare nella tormentata vita di queste donne e aiutarle a cambiarla.

Abbiamo fatto una scommessa: trasformare l’informazione in solidarietà concreta. Crediamo che i media possano essere davvero un mezzo, un ponte tra due parti di una stessa umanità. Perché, a volte, raccontare non basta. Il nostro progetto nasce da qui. Una scommessa vinta, grazie alla partecipazione dei nostri sponsor, che continuano a sostenere economicamente le amiche lontane e a far sentire loro il calore dell’affetto, la vicinanza per cercare, contro mille ostacoli, di realizzare i sogni a cui hanno diritto.

Come funziona il progetto

Sono tante le donne sostenute dal progetto. Alcune di loro hanno combattuto e vinto. Hanno percorso tutta la strada verso la loro libertà e autonomia, stanno bene e cedono, volontariamente, il posto a chi sta peggio di loro. Altre continuano a lottare in una realtà sempre più drammatica.

Questo progetto è un aiuto fondamentale per le ragazze e le donne afghane costrette ancora a subire ogni tipo di abuso, Il contributo di uno sponsor è in grado di cambiare l’esistenza di ognuna di loro in modo radicale. Può salvare una bambina da un matrimonio forzato, una donna dal suicidio, dal mendicare nelle strade, dalla prostituzione forzata, dall’analfabetismo, dalla morte per percosse o per malattie che non vengono curate, o dall’essere vendute per un pezzo di pane per la famiglia. La sponsorizzazione di chi si batte al nostro fianco per i diritti delle donne è più valida perfino di un progetto da milioni di dollari perché interviene direttamente sulle condizioni di chi ha bisogno di aiuto e produce effetti immediati anche da un punto di vista psicologico.

Al progetto e alle storie di vita raccolte è ispirato il libro di Cristiana Cella: ‘Sotto un cielo di stoffa’, Avvocate a Kabul. Città del Sole Edizioni

Come contribuire al progetto vite preziose

Modalità di partecipazione:

  • 50 euro mensili, sostegno completo per una donna
  • 25 euro mensili, condivisione di due sponsor per una donna
  • Donazione “una tantum”

Chi è interessato a sostenere il progetto può scrivere alla mail indicata su Contatti.

Potrete sostenere una donna, conoscere la sua storia e seguire il suo percorso verso la dignità. Vi manderemo regolarmente gli aggiornamenti sulla loro situazione.