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Autore: Patrizia Fabbri

Sguardo da un granello di sabbia

Nel 2001 si è improvvisamente risvegliato l’interesse internazionale per la vita delle donne afghane sotto il regime dei talebani. Con la caduta dei talebani alla fine dello stesso anno gli USA hanno annunciato che l’Afghanistan avrebbe vissuto una nuova era di pace, democrazia e liberazione delle donne. Diversi anni dopo questo “annuncio” l’Afghanistan è ancora nelle prime pagine dei giornali, non per parlare del successo della ricostruzione ma della violenza crescente e della insorgenza dei talebani. E le donne? Dal 2001 i riflettori dei media su di loro si sono spenti e di conseguenza anche la conoscenza del pubblico sulla tragica situazione attuale. Come sono ora le loro vite? Sono davvero migliorate da quando il nuovo governo ha preso il potere? Hanno davvero conquistato i loro diritti o vivono ancora nel terrore e in un clima di repressione?

Sguardo da un granello di sabbia cerca di dare risposta a queste domande attraverso gli occhi di tre donne afghane: una dottoressa, un’insegnante e una attivista per i diritti umani. Illustrate con immagini in presa diretta, interviste e materiale d’archivio le tre storie ci portano attraverso il terreno minato della complessa storia afghana e forniscono un quadro illuminante della situazione attuale dell’Afghanistan e della battaglia che le donne stanno portando avanti per ottenere anche i più elementari diritti umani.

Girato nel corso di quattro anni nei campi profughi del Pakistan del nord-ovest e nella città di Kabul devastata dalla guerra il documentario costruisce un tagliente e provocatorio ritratto della lotta delle donne afghane negli ultimi 30 anni, dal periodo del re Zahir Shah fino al governo attuale di Hamid Karzai. Le donne si stanno mobilitando per fronteggiare le sfide di oggi, e danno un’immagine viscerale di un paese diviso e brutalizzato. Mentre l’attenzione del mondo si è spostata su altri luoghi in crisi questo progetto riaccende i riflettori sull’Afghanistan facendo sentire le voci di coloro che sono più vulnerabili e più colpite nei conflitti: le donne.

Scheda tecnica

Titolo originale: View From A Grain Of Sand

Un film di Meena Nanji

Documentario USA

Durata: 58 minuti

Anno di produzione: 2006

Lingua: In dari, pashto con sottotitoli in italiano

 

Premi

  • International film festival for Documentary di Mumbai; silver conch, International documentary feature 2008
  • Canada International film festival: miglior documentario 2007
  • Seattle South Asian Festival: premio del pubblico, miglior documentario 2007

Enemies of Happiness

In Afghanistan nel 2005 si sono svolte le prime elezioni parlamentari. La regista ha seguito la campagna elettorale di Malalai Joya che ha puntato il dito contro i signori della guerra chiedendo per loro l’istituzione di un tribunale internazionale. Per questo Malalai ha subito diverse minacce di morte e ha vissuto nascosta e sotto protezione. In Afghanistan è considerata un’eroina e gode di grande sostegno per il suo coraggio politico.

Scheda tecnica

Diretto da Eva Mulvad

Prodotto da Helle Faber

Starring Mardina Parmach

Musica di Thomas Knak, Jesper Skaaning, Anders Remmer

Cinematografia Zillah Bowes

Studio: Bastard Film

Distribuito da Women Make Movies – The Danish Film Institute

Anno di produzione: 2006

Durata: 58 m

Paese: Denmark

Lingua: Sottotitolato in italiano

 

Premi ricevuti

2006, Silver Wolf Award, IDFA, Amsterdam

2007, World Cinema Jury Prize: Documentary, Sundance Film Festival

2007, Special Jury Mention, Silverdocs 2007

2007, Best long documentary, Festival Films De Femmes, High School Jury, Creteil

2007, International Premier Award, One World Media Awards, London

2007, Nestor Almendros Prize, Human Rights Watch Film Festival, New York

2007, Special Mention, One World Human Rights Film Festival

2007, Audience Mention Best Documentary, 15 Mostra Internacional de film de dones, Barcelona

 

2006 – Ritiro esercito italiano da “Enduring Freedom”

AFGHANISTAN: RITIRARE IL CONTINGENTE MILITARE ITALIANO DALLA MISSIONE “ENDURING FREEDOM” E RIPORTARE L’ISAF SOTTO IL COMANDO DELL’ONU

“Nessuno Stato può portare libertà e democrazia a un altro Stato, ma può aiutare un popolo a lottare contro i suoi nemici.”
(RAWA – Rivolutionary Association of the Women of Afghanistan)

1. Quale democrazia in Afghanistan

Imposta con la guerra dalla coalizione guidata dagli Stati Uniti, la democrazia in Afghanistan si sta rivelando una mostruosa caricatura:
il governo presieduto da Karzai è colluso con i fondamentalisti signori della guerra, responsabili accertati di crimini di guerra e contro l’umanità (vedi “Human Rights Watch del 2005 – Blood Stained Hands); costoro occupano i ministeri più importanti, amministrandoli come feudi personali e spartendosi il denaro destinato alla ricostruzione del Paese, inoltre controllano il territorio con le loro milizie private, spadroneggiando impunemente e gestendo il traffico di oppio, la cui produzione è cresciuta enormemente dopo la caduta dei taleban;
il Parlamento eletto in un clima di intimidazione e di brogli elettorali, è composto per il 85% da signori della guerra, taleban “moderati”, trafficanti di droga, religiosi conservatori, che soffocano la voce dell’opposizione democratica, come dimostra il caso della deputata Malalai Joya, aggredita fisicamente nella stessa aula parlamentare e continuamente minacciata di morte per aver denunciato in più occasioni i molti criminali che siedono indegnamente in parlamento e al governo;
la Costituzione che pur riconosce i diritti umani, politici e civili e la parità tra uomini e donne, è ostaggio dell’interpretazione restrittiva di mullah tradizionalisti e di presunti esperti di diritto islamico conservatori che ne impediscono l’attuazione, anteponendole la sharia (le donne infatti continuano a essere lapidate per “reati” come l’adulterio e considerate criminali quando fuggono di casa per sottrarsi alla violenza domestica e ai matrimoni forzati);
la ricostruzione non decolla a causa della corruzione della classe politica e la popolazione continua a non disporre di acqua potabile, elettricità, scuole, ospedali, casa, lavoro e a vivere in condizioni di estrema miseria;
i taleban si sono riorganizzati e hanno ripreso il controllo delle aree extraurbane delle province sud-orientali, da dove sferrano attacchi terroristici contro le truppe straniere e governative.

2. Le missioni internazionali Enduring Freedom e Isaf

Gli abusi degli Stati Uniti. La missione di guerra “Enduring Freedom”, guidata dagli Stati Uniti con l’obiettivo dichiarato di abbattere il regime dei taleban per portare la democrazia in Afghanistan, catturare bin Laden e smantellare la struttura di al Qaeda, si è rivelata subito come guerra globale al terrorismo, combattuta con ogni mezzo e nella continua violazione delle leggi internazionali in materia di diritti umani.
Human Rights Watch ha documentato gli abusi degli Stati Uniti in Afghanistan ( vedi “Enduring Freedom” – Abuses by U.S. Forces in Afghanistan – marzo 2004; Rapporto annuale 2005; Rapporto annuale 2006), denunciando arresti arbitrari di civili, brutali rastrellamenti dei villaggi, violenze e abusi sulle donne, bombardamenti che colpiscono indiscriminatamente la popolazione, torture e uccisioni di detenuti, cui è negata l’assistenza legale nelle strutture di detenzione presso le basi militari di Bagram, Kandahar, Jalalabad, Asadabad.
A causa del loro comportamento sprezzante, gli Stati Uniti sono visti da gran parte della popolazione come forze di occupazione unicamente interessate a costruire basi militari sul territorio afghano per realizzare la loro politica imperiale nell’Asia centrale.
Intanto gli attacchi terroristici si fanno sempre più frequenti e brutali, un numero crescente di civili perde la vita, la rabbia e la delusione spinge molti afghani a vedere nei taleban una forza di
liberazione dal nemico e una garanzia di stabilità per il futuro e quindi li appoggiano.
Lo snaturamento dell’Isaf
La missione Isaf, autorizzata dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu, nel dicembre 2001, con il compito di assistenza al governo Karzai per il mantenimento della sicurezza, ha fallito il suo obiettivo, diventando sempre più subalterna alla politica americana.
Il territorio è ancora controllato dalle milizie dei signori della guerra, protetti dagli Stati Uniti perché loro alleati nella guerra contro il regime dei taleban.
L’Isaf, che nel 2003 è passata sotto il comando della Nato senza alcuna autorizzazione dell’Onu, è oggi chiamata ad estendere il suo raggio d’azione nel sud-est del paese, dal quale le truppe
americane stanno per ritirarsi, e ad assumersi la responsabilità di continuare la guerra contro i taleban e i terroristi infiltrati in Afghanistan.
In questo modo l’Isaf cambia natura. Sovrapponendosi a Enduring Freedom e ereditando le sue funzioni, la missione Isaf diventa una missione di guerra; per questo la Nato sta chiedendo ai
paesi della coalizione di aumentare i loro contingenti, di inviare forze speciali e mezzi militari, tipo cacciabombardieri, al fine di poter assolvere adeguatamente i nuovi compiti.

3. Che cosa chiediamo

È ormai chiaro che la democrazia in Afghanistan è un miraggio, che il territorio non è stato pacificato e che il paese rischia nuovamente di precipitare nel caos.
È arrivato il momento di fare chiarezza e di ascoltare la voce dei democratici afghani.
Malalai Joya e molti democratici, che in lei si riconoscono, chiedono espressamente che l’Isaf ritorni sotto il comando dell’Onu per svolgere una più incisiva azione di peace keeping, il cui obiettivo primario deve essere il disarmo delle milizie dei signori della guerra, vera causa dell’instabilità del paese, e la consegna alla giustizia dei criminali che hanno compiuto abusi contro i diritti umani, molti dei quali siedono in parlamento e svolgono funzioni di governo.
Chiedono cioè un radicale cambiamento nel modo di operare dell’Isaf, non il suo ritiro, perché temono che possa nuovamente scatenarsi una guerra civile.
Chiedono anche che l’Europa si smarchi dalla politica americana, impegnandosi sul versante della giustizia, sostenendo cioè un programma giudiziario nell’ambito della cosiddetta “transitional justice”, programma già applicato in paesi dove sono stati compiuti crimini contro l’umanità e che prevede l’istituzione di tribunali speciali per individuare e punire i responsabili di tutti gli abusi, consentendo di chiudere i conti con il passato e il ritorno alla normalità.
Ristabilire la giustizia è infatti il primo passo per dare il dovuto riconoscimento alle vittime, garantire la sicurezza e la pace, costruire istituzioni democratiche in grado di durare nel tempo.
Come donne di pace, da anni impegnate a fianco delle donne afghane contro tutti i fondamentalismi e per la democrazia, sosteniamo queste richieste e in più chiediamo al governo italiano di ritirare, nel rispetto dell’art. 11 della nostra Costituzione, il contingente militare dalla missione di guerra Enduring freedom, combattuta violando le leggi internazionali sui diritti umani e di farsi promotore, a livello europeo, di una politica che rilanci il ruolo dell’Onu e riporti l’Isaf alla sua missione originaria di peace keeping, liberando la coalizione dal pesante condizionamento della Nato che la rende completamentesubalterna agli Stati Uniti.
CISDA – CORDINAMENTO ITALIANO A SOSTEGNO DELLE DONNE AFGHANE – giugno 2006

Mai tornerò indietro

Nuova edizione a cura del CISDA del libro sulla storia di Meena, fondatrice di RAWA, l’Associazione Rivoluzionaria delle Donne Afghane, una giovane che ha lottato fino alla morte per difendere un popolo oppresso e soprattutto la sua componente più inerme e calpestata, le donne e i bambini.

Per l’acquisto scrivere a: vedi Contatti  (offerta libera a partire da 12 € più spese di spedizione).
Sono disponibili copie per la diffusione.

Subito dopo l’edizione originale americana del 2003, Mai tornerò indietro di Melody Ermachild Chavis fu tradotto e pubblicato in diversi Paesi, tra cui l’Italia, dove le copie sono andate esaurite in pochi anni. Oggi il CISDA (Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane onlus), che da lungo tempo sostiene RAWA in Italia, ha deciso di farne una nuova edizione.

Il libro racconta la storia di Meena, la fondatrice di RAWA (Associazione Rivoluzionaria delle Donne Afghane), una donna che ha lottato fino alla morte per difendere un popolo oppresso e soprattutto le sue componenti più inermi e calpestate: le donne e i bambini.

Nata a Kabul nel 1956, Meena è una studentessa universitaria quando inizia a battersi contro l’occupazione sovietica e il suo governo fantoccio, e a denunciare le violazioni dei più elementari diritti umani.

Fonda RAWA e con le attiviste che via via si uniscono a lei promuove marce di protesta e incontri pubblici, fonda una rivista, organizza un ospedale, scuole e laboratori di cucito per donne e bambini rifugiati in Pakistan.

Oggi, a trent’anni dal suo assassinio, Meena vive ancora in ogni azione e in ogni battaglia di RAWA, che continua a lottare contro il fondamentalismo, la misoginia, l’oscurantismo religioso, la povertà e l’ignoranza come strumenti di sopraffazione, attraverso un’instancabile opera di denuncia politica e di educazione ai diritti.

La prefazione al libro è scritta da RAWA.

Zoya la mia storia

Afghanistan: un paese a lungo martoriato dalle occupazioni straniere, dalle lotte intestine, dal governo fondamentalista. In questo inferno, una ragazza ha giurato sul cadavere di un’altra di combattere i soprusi e la violenza, in ogni loro forma. Zoya, questo è il suo nome, è la meno romantica e più vera delle eroine: nata nel 1978 a Kabul, è infatti una militante della Rawa, l’associazione rivoluzionaria delle donne afghane che ha sempre cercato di strappare la popolazione all’analfabetismo, alle malattie, alla morte. Questa è la sua testimonianza: il resoconto lucido, consapevole e sofferto delle sopraffazioni e degli abusi perpetrati per anni nel suo paese.

Se non avessi conosciuto Zoya in un campo di profughi afghani in Pakistan, se non avessi incontrato tante militanti della Rawa (Revolutionary association of women of Afghanistan), se non avessi visto il lavoro da loro svolto nei campi o anche nelle scuole per i rifugiati a Islamabad o Peshawar, se non avessi visitato i loro orfanotrofi, se non avessi vissuto alcuni dei momenti che vengono raccontati nel libro Zoya la mia storia, difficilmente potrei ritenerlo una testimonianza vera”. (recensione di Giuliana Sgrena)

Zoya la mia storia. Una donna afgana racconta la sua battaglia per la libertà

di Zoya con John Follain e Rita Cristofari
 Sperling
Sperling & Kupfer, 2004, pp. 224

Storie da Kabul

In brevi, scarni e lucidi racconti la tragedia di una guerra ramificata e incessante, il dramma delle mine, della miseria, dei signori della guerra. Ma anche, e forse soprattutto, la dignità dei pazienti, la dedizione di medici e infermieri afghani, le piccole storie di vita quotidiana. Una prosa essenziale come può esserlo quella di chi vive in prima persona gli avvenimenti. La testimonianza di un volontario in servizio presso la Croce Rossa Internazionale di Kabul.

Storie da Kabul. Fotografie di Sebastião Salgado

di Alberto Cairo

Einaudi, 2003, VII-269