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Autore: Patrizia Fabbri

Comunicato stampa di Malalai Joya

dalla pagina facebook di Malalai Joya

Il nostro popolo è stanco di sentire parole di “condoglianza”, “dolore” e “condanna”, specialmente perché queste parole arrivano proprio dai principali sospetti dell’attuale situazione di miseria del paese. Invece di esprimere parole di condoglianza, dobbiamo unire le nostre forze e lottare per uscire da questo orrore, non abbiamo altro modo per uscire da questa situazione disastrosa!

Con l’annuncio della “Nuova Strategia Americana per l’Afghanistan”, il cui messaggio principale è solo una escalation della guerra e del crimine nel nostro paese, siamo stati testimoni di uno spargimento di sangue senza precedenti in Afghanistan, le cui vittime sono solo poveri e miserabili civili.

Non un solo soldato dell’occupante USA, nessuno dei loro burattini e nessuno dei loro parenti è stato ucciso. Il sangue di centinaia di nostri connazionali innocenti non ha turbato le coscienze dei funzionari governativi, degli intellettuali che dormono, di tutti coloro che accolgono e accettano questa strategia. I sanguinari attentati degli ultimi giorni a Ghazni, Paktia, Kandahar, Kabul, Ghor e altre province, hanno dimostrato mille volte che i sanguinari talebani, questi burattini in mano a forze straniere, faranno di tutto per realizzare i piani dei loro padroni e non ci risparmieranno orrore e oppressione.
Chiamarli “fratelli”, dividerli tra “moderati” ed “estremisti”, invitarli a “colloqui di pace” porterà peggiori conseguenze, quelle che si possono aspettare da elementi disonesti, sporchi e impopolari.

Gli attacchi brutali alle moschee sciite sono il frutto delle politiche diaboliche del Pakistan, dell’Arabia Saudita, degli Stati Uniti, per alimentare le divisioni religiose nel nostro paese e spingerlo ulteriormente verso l’instabilità. Con la solidarietà tra le religioni e tutti i gruppi etnici possiamo colpire i nostri nemici nazionali e fare fallire le loro politiche diaboliche. E fortunatamente la solidarietà del nostro popolo con le vittime di questi tragici eventi, dimostrano la consapevolezza dei nostri compatrioti.

Jinwar – Free Women’s Village Rojava

Jinwar – Free Womens Village Rojava è il cortometraggio che documenta la vita e la sopravvivenza autonoma dell’eco-villaggio costruito nella Siria del nord, in Rojava. Questa piccola oasi è aperta a chiunque desideri approdarvi per conoscere e comprendere l’esperimento di una comunità fondata dalle donne, autosufficiente, ecologica, che protegge e afferma i diritti dell’uguaglianza e della convivenza pacifica senza alcuna differenza di genere o nazionalità.

A Jinwar, in Rojava, Siria del nord, un pugnale di luce dirada l’oscurità di un’abitazione spoglia, i suoi tappeti tradizionali, e il cibo disposto in tavola. La quotidianità catturata dalla videocamera incornicia le ore dedite al lavoro, il gioco dei bambini, e alcuni volti dai tratti europei, la musica di una chitarra, e racconta la messa in opera di una comunità libera e autogestita dalle donne. Jinwar, che in lingua locale significa terra delle donne, nasce dal bisogno di concretizzare il cambiamento che le sue fondatrici immaginavano fin dal 2016, a cui sono seguiti due anni di gestazione e progettazione prima dell’ufficiale inaugurazione il 25 Novembre 2018, nella giornata internazionale contro la violenza sulle donne.

Non è l’unica prova a testimonianza del coraggio e della determinazione delle donne curde, vittime nel loro paese, tra le mura domestiche, dove il patriarcato ne depreda con violenza diritti e libertà. Quando fuggono alla ricerca di una vita diversa, lo ricordiamo, scelgono di difendere la loro patria dall’Isis arruolandosi nell’esercito femminile delle YPJ, Unità di Protezione delle Donne. Scelgono, ancora, di ricostruire, accogliere le donne rimaste vedove e senza futuro, erigere nuovi ponti interpersonali laddove la sicurezza è stata smantellata dai continui soprusi di una vita domestica oppressiva e maschilista.

In Difesa Di, fare rete per i diritti. Incontro con Malalai Joya

Nel 2016, sono stati uccisi 282 difensori e difensore dei irriti umani in 22 Paesi nel mondo. E gli omicidi sono solo la punta dell’iceberg.

Per portare al centro del dibattito questo tema si è di recente costituita la rete “In Difesa Di – Per i diritti umani e chi li difende”, alla quale aderiscono oltre 30 organizzazioni, tra cui Radicali Italiani.

Tra gli obiettivi dell’iniziativa quello di fare pressione sulla Farnesina affinché si doti di strumenti di protezione degli attivisti e delle attiviste minacciate, sulla scia di quanto fatto da altri paesi dell’Unione Europea, dando così seguito agli orientamenti della stessa Ue in materia.  L’idea è anche quella di mettere a punto diverse modalità di concessione di visti temporanei per gli attivisti che sentono la necessità di lasciare momentaneamente il proprio paese. La rete italiana, inoltre, sta lavorando per coinvolgere gli Enti locali nella creazione di “città rifugio”, che possano dare protezione e accoglienza temporanea ad attiviste e attivisti.

A questo proposito “In Difesa Di” ha invitato in Italia Michel Forst, relatore speciale Onu sui difensori e le difensore dei diritti umani, per una visita accademica dal 7 al 9 maggio e per una serie di incontri con la società civile, il settore privato, il ministero degli Affari esteri e il Parlamento.

L’8 maggio il relatore speciale è stato a Roma, per un incontro pubblico nella sede della Federazione nazionale della stampa italiana. Durante l’evento, Michel Forst ha parlato del suo mandato, della situazione dei difensori e delle difensore dei diritti umani, dei rischi che corrono e di quali sono gli strumenti per proteggerli e proteggerle.

All’iniziativa hanno partecipato, tra gli altri, la difensora dei diritti umani afgana Malalai Joya, il presidente del Tribunale permanente dei popoli Franco Ippolito e il portavoce della rete “In Difesa Di” Francesco Martone. Con loro anche il presidente della Fnsi, Giuseppe Giulietti.

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Attivisti e difensori dei diritti umani egiziani seguiti e spiati a Roma

Come associazione aderente alla rete “In Difesa Di – per i diritti  umani e chi li difende” esprimiamo la nostra massima solidarietà agli attivisti egiziani che a Roma sono stati oggetto di sorveglianza e diffamazione da parte di agenti di sicurezza e giornalisti filo-governativi egiziani.  Il nostro Governo e le istituzioni competenti devono chiedere conto al Cairo di quanto accaduto affinchè un simile episodio non si ripeta più e soprattutto per scongiurare ulteriori ritorsioni sulle persone colpite per le quali siamo sinceramente preoccupate.

Il 20 e 21 maggio si è tenuta a Roma una riunione di lavoro organizzata da Euromed Rights, un’autorevole rete euro-mediterranea per i diritti che riunisce 70 organizzazioni di società civile europee, del Maghreb e del Mashrek, impegnata per rafforzare il ruolo della società civile e promuovere i diritti umani nell’ambito della Partnership euro-mediterranea e della Politica europea di vicinato.

Il workshop era dedicato alle opportunità di cooperazione nella regione euro-mediterranea, riguardo la situazione dei diritti umani, civili, politici, economici, sociali e culturali nella regione e dunque anche in Egitto.

Erano presenti accademici, ricercatori e rappresentanti di organizzazioni di società civile impegnate sui diritti umani di Italia, Danimarca, Tunisia, Palestina, Germania e Belgio, fra i quali alcune figure autorevoli come Kamel Jendoubi, presidente onorario di EuroMed RightsBahey el-Din Hassan, direttore del Cairo Institute for Human Rights StudiesMarc Schade-Poulsen, direttore esecutivo di EuroMed Rights; l’avvocato Khaled Ali; l’accademico in scienze politiche Amr HamzawyMohamed Zaree, avvocato dei diritti umani e presidente della Arab Organisation for Criminal ReformAhmed Samih, direttore esecutivo dell’Andalus Institute for Tolerance and Anti-Violence StudiesNancy Okail, direttore esecutivo del Tahrir Institute for Middle East Policy; e Moataz El Fegiery, Coordinatore di Front Line Defenders MENA Protection.

La riunione era parte del programma di lavoro interno di Euromed Rights e non era stata dunque pubblicizzata se non fra le persone che vi hanno preso parte.

 

Al suo arrivo a Fiumicino un partecipante ha trovato una persona qualificatasi come giornalista egiziano ad aspettarlo, il quale ha insistito pesantemente per accompagnarlo in albergo. Di fronte al cortese rifiuto oppostogli, il sedicente giornalista è riuscito a interloquire con il tassista, riuscendo forse così ad avere l’indirizzo dell’hotel dove la persona era diretta.

Il sedicente giornalista accompagnato da un fotografo e da un’altra persona hanno poi raggiunto l’albergo dove era in corso la riunione, convincendo con una bugia la reception a mostrare la lista dei partecipanti, stazionando per ore nella lobby e nei bar adiacenti, seguendoli nei loro movimenti dentro e fuori l’albergo, riuscendo così a prendere foto dei partecipanti e introducendosi nella sala della riunione.

Il 22 maggio articoli diffamatori sono apparsi su numerosi quotidiani egiziani, accompagnati dalle foto prese a Roma. Accusano fra l’altro i partecipanti egiziani di aver preso parte a un incontro teso a “pianificare uno stato di caos e di instabilità in Egitto nel prossimo periodo, prima delle elezioni presidenziali“.

Sono menzogne gravi, che in Egitto possono costare la libertà, se non peggio. Amnesty International Italia, ArciArticolo 21 e Un ponte per… sono preoccupate per gli attivisti e i difensori dei diritti umani egiziani, cui esprimono vicinanza e solidarietà, mentre gli attacchi contro di loro proseguono: agenti di sicurezza e giornalisti filo-governativi hanno pesantemente insultato e minacciato su Facebook Nancy Okail (accademica e direttore del Tahir Institute for Middle East Policy) per aver denunciato i fatti di Roma. La mattina del 23 maggio uno dei partecipanti sarebbe stato convocato al Cairo per interrogatori.

È necessario che il governo italiano e tutte le istituzioni competenti intervengano presso le autorità egiziane per chieder loro conto di quanto accaduto in territorio italiano e pretendere che episodi del genere non si ripetano più. L’Italia deve essere un paese sicuro per gli attivisti e i difensori dei diritti umani egiziani.

2007 – Conferenza Stampa contro legge immunità Warlord

il Coordinamento ItaliaRawa e le Donne in Nero di Milano impegnati dal 1999 a fianco di delle donne della Revolutionary Association of the Women of Afghanistan

il giorno 15 febbraio 2007, dalle ore 11.30 alle ore 13.00

promuovono una

CONFERENZA STAMPA

Interverranno: Donne in nero ItaliaRawa

CGIL internazionale

Amnesty International

presso la Casa Internazionale delle Donne

Via della Lungara, 19 – 00165 Roma

Non c’è pace senza giustizia

No all’impunità per i criminali afghani

In occasione della visita in Italia del Presidente afghano Hamid Karzai con una delegazione femminile e alla vigilia del voto parlamentare sul rifinanziamento della missione ISAF

Il  31  gennaio  2007  la  Camera  bassa  del  Parlamento  afghano  (Wolesi  Jirga)  ha approvato quasi all’unanimità una risoluzione che garantisce l’immunità (e quindi l’impunità) a tutti gli afghani coinvolti negli ultimi 25 anni di conflitti, inclusi il leader dei talebani Mullah Omar, l’ex primo ministro Gulbuddin Hekmatyar, leader del partito fondamentalista  Hezb-e  Islami  (e  citato nel  rapporto  di  Human  Rights  Watch  Blood Stained Hands – Past atrocities in Kabul and Afghnistan’s legacy of impunity http://hrw.org/reports/2005/afghanistan0605/– 2005 – come uno dei maggiori responsabili di crimini di guerra commessi soprattutto negli anni della guerra civile tra il 1992 e il 1996), e molti membri del parlamento e del governo in carica, anch’essi macchiatisi di efferati crimini di guerra.

Nonostante Karzai abbia rigettato la risoluzione, questo tentato colpo di mano del Parlamento impone di porsi alcune domande su quale tipo di processo democratico si sia avviato in Afghanistan.

Il  parlamento  afghano,  legittimato  e  sostenuto  da  tutta  la  comunità  internazionale  e salutato come una grande conquista per la democrazia in quel paese, è composto per il 6% da trafficanti di droga, per il 4% da taleban “moderati”, per il 72% da signori della guerra,  per  il  3%  da  religiosi  conservatori  e  per  il  restante  15%  da  un’opposizione democratica e non compromessa con i signori della guerra fondamentalisti.

Molti afghani, e in particolare gli abitanti di Kabul, pensano che, per gli abusi commessi, questi leader non siano idonei alle posizioni che rivestono. Noi concordiamo con questa tesi. Human Rights Watch ha lavorato in zone di conflitto e post conflitto in quattro continenti per oltre 25 anni. Abbiamo osservato i successi e i fallimenti di numerosi processi per la costruzione della pace e documentato di volta in volta come leader incaricati nel periodo di post conflitto con un passato di abusi […] abbiano continuato a commettere abusi o consentito che l’illegalità continuasse o ritornasse.

Dal rapporto Blood stainded hands di Human Rights Watch – 2005