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Autore: Patrizia Fabbri

Homa

Mio marito è stato ucciso nella guerra civile e io e mia figlia siamo rimaste sole. Non abbiamo una famiglia che ci possa aiutare.
Un parente di mio marito ci affitta una stanza nella sua casa e, per sopravvivere, io vado a pulire una scuola. Quello che mi danno mi basta appena per pagare la stanza, mangiare e far andare mia figlia a scuola.
Il problema è che sono malata, ho una grave forma di epatite e non ho i soldi per curarmi. Ho paura per mia figlia, per il suo futuro. Ho paura che si ammali anche lei. Se si ammalasse non avrei altra scelta che mendicare per trovare i soldi per le medicine. Ho paura di non farcela più a lavorare, o di lasciarla sola.
Senza di me, che farebbe della sua vita? Tanto vale farla finita subito. Io e lei insieme. Questo pensiero non mi abbandona mai. Un attimo e tutto sarebbe finito. Ma poi qualcosa mi spinge ad andare avanti. Adesso sono riuscita a chiedere aiuto. È già qualcosa.

Aggiornamenti

Con Giovanna accanto la speranza ritorna. Homa si cura, segue le regole igieniche che mettono al riparo la figlia dal contagio. Smettono entrambe di mendicare, sta meglio e la ragazza va a scuola. La figlia è seguita con diverse dosi di vaccino per non ammalarsi e scopre che lo studio è meraviglioso. Passa gli esami con ottimi voti e cerca di studiare anche l’inglese, cosa che le permetterà di trovare, forse, un lavoro dignitoso.
Dallo scorso anno di lei si occupano Chiara e Vito. Recentemente la salute di Homa è peggiorata ed è stata ricoverata in ospedale. Il loro sostegno è diventato la sua unica salvezza.

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Una storia del progetto Vite preziose.

La fotografia è di solo carattere grafico e non rappresenta la donna protagonista della storia. Data la attuale situazione in Afghanistan, per evitare l’identificazione delle donne i nomi sono stati modificati, così come i luoghi dove si svolgono i fatti.

Hayra, Bamjan

Ho 45 anni e sono di Bamjan. Sono stati i bombardamenti americani sul nostro paese, nel 2001, a portar via i piedi a mio marito. Gli hanno danneggiato gravemente anche le gambe e non può più camminare. Si sente inutile e ha sempre bisogno di medicine.
Da allora sono io a mantenere la famiglia. Faccio il pane per il mio quartiere, il nan, è molto buono. Ma i soldi se ne vanno quasi tutti per le cure di mio marito.
Non ne ho più abbastanza per mandare a scuola le mie due figlie.
Ho dovuto ritirarle, con la morte nel cuore. So bene che l’istruzione è la sola porta che hanno per entrare in un futuro migliore. Mi sento in colpa verso di loro, vorrebbero tanto andare a scuola. E invece devono aiutarmi nel lavoro, da sola non ce la faccio. Sono molto stanca di questa vita, a volte sono disperata e mi viene il pensiero di farla finita.
Ma poi vedo il sorriso delle mie ragazze e dimentico tutta la fatica. Avrei bisogno di un aiuto perché potessero finire i loro studi. Vorrei vederle ogni giorno con i libri sotto braccio, avviarsi verso il loro futuro, migliore del mio. Ne sarei davvero felice, nonostante tutto.

Aggiornamenti

La speranza ritorna con l’aiuto di Christiane che la segue per molti anni. Da sola non ce la farebbe, con il pane guadagna due dollari al giorno. Non può cercare un lavoro lontano da casa per non lasciare solo il marito disabile. Le figlie ora possono tornare a scuola, ’per noi donne, l’unica strada verso la libertà’ così dice Hayra.
È molto orgogliosa dell’aiuto di Christiane. La sua vita continua a essere difficile. Prova a vendere anche uova bollite perché il prezzo della farina è salito e guadagna troppo poco con il pane. Ha spesso momenti di sconforto ma continua a combattere giorno dopo giorno per il futuro delle sue figlie.
Poi, decidono una svolta nella loro vita. Hayra lascia Kabul con i figli e il marito disabile e torna nella sua città natale, Bamyan. Ecco come lo racconta: ‘Quando abbiamo preso la decisione di lasciare Kabul abbiamo condiviso il progetto con i nostri figli. All’inizio erano molto tristi di partire. Ma io gli ho spiegato che era necessario, per i problemi economici della nostra vita, per la disabilità del padre e, soprattutto, per le terribili condizioni di sicurezza della capitale. Eravamo molto spaventati dai quotidiani attentati.
Così, alla fine, hanno capito. Adesso, qui a Bamyan, siamo felici.
Viviamo vicino ai nostri parenti e lontano da Talebani e Isis e dai loro continui sanguinosi attacchi. Ho trovato anche qui un lavoro simile a quello che avevo a Kabul. E anche se quello che guadagno non è sufficiente, è poco, io sono ok moralmente, affronto le difficoltà con l’aiuto della mia sponsor e sorella e non sono preoccupata per il futuro dei miei figli.’
Ma la zona di Bamyan è una delle più povere del paese anche se relativamente sicura. Le condizioni economiche sono difficili. Anche qui cuoce il pane ma lo fanno tutti e non ha i mezzi per proporsi agli alberghi. Sta cercando un lavoro migliore. Ma intanto i figli continuano la scuola e questo è la parte più importante del suo sogno.

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Una storia del progetto Vite preziose.

La fotografia è di solo carattere grafico e non rappresenta la donna protagonista della storia. Data la attuale situazione in Afghanistan, per evitare l’identificazione delle donne i nomi sono stati modificati, così come i luoghi dove si svolgono i fatti.

 

 

 

 

Habeba, Kabul

Ho 35 anni e sono di Kabul. 12 anni. È a questa età che l’infanzia finisce per le donne. Non si può dire “una vita nuova” quando ci sposano. Non si può chiamare vita. È un’altra cosa, una guerra forse, ma disarmate. Lui aveva 22 anni. L’ha scelto mio padre, naturalmente. Ha scelto proprio bene. Non era normale, di testa. Malato di mente, così si dice.
La furia sempre dietro agli occhi. Dovevo stare molto attenta, spiare i gesti, i segni premonitori della sua rabbia. Mi picchiava, ogni giorno, per sciocchezze, una ragione la trovava sempre. Non lavorava, non faceva niente. Quando gli chiedevo di cercare un lavoro, perdeva proprio la testa.
Ma non c’era soltanto lui. Mia suocera e le cognate si inventavano sempre qualche colpa, qualche cosa di sbagliato che avevo fatto. Anche loro trovavano sempre un motivo per picchiarmi. Forse così si sfogavano di quello che avevano subito. Quattro anni sono passati così e due figli sono arrivati. So cucire bene, facevo questo per trovare un po’ di soldi per i bambini. Un giorno, a furia di botte, mi ha cacciato fuori di casa.
Mi ha lasciato lì in mezzo alla strada. Sono andata da mio padre, ho pensato che mi avrebbe protetto, che avrebbe capito. Forse perfino si sarebbe pentito di avermi dato a quell’uomo.
Mi sbagliavo. Non mi ha fatto nemmeno entrare. Mi ha detto che quella ormai non era più la mia casa, che io appartenevo alla famiglia di mio marito e che dovevo restare con lui, qualunque cosa mi facessero. Mi ha riportato nella mia prigione. Ma mio marito, regolarmente, mi cacciava di nuovo. A volte ero io a scappare. Andavo dai parenti, ma il più delle volte restavo in strada.
È un posto pericoloso ma è meglio di casa mia. Alla fine tornavo da lui, lì c’erano i miei figli. Col tempo, mio marito è diventato completamente pazzo e mio cognato lo ha internato in un ospedale. Non c’è stato molto, è scappato, sparito da tre anni. Io intanto sono scappata di nuovo ma questa volta sapevo dove andare. Una vicina mi ha parlato della casa protetta. Adesso vivo qui con il mio bambino più piccolo. Il maggiore me lo ha preso mio cognato.
Lui e mio padre vanno spesso da Hawca per convincermi a tornare a casa. Adesso promettono che nessuno mi farà del male ma io ho paura e ascolto la mia paura. Non lo farò mai. Tutto sarebbe di sicuro come prima. Intanto voglio guarire, stare bene. Ho molti problemi fisici per quello che mi hanno fatto. Poi vorrei vivere per conto mio con mio figlio, lavorare per me e per lui, farlo studiare. Perché diventi un uomo migliore di suo padre e del mio.

Aggiornamenti

Habeba trova rifugio nello Shelter di Hawca portandosi dietro tutte le sue ferite.
È di Kabul, ma anche qui, nella capitale, le vite di molte donne sono nelle mani di uomini, violenti, drogati o pazzi che ne fanno quello che vogliono. Sotto i burka azzurri, che scivolano silenziosi per le strade della città, si nascondono storie come la sua. Al sicuro, la paura, pian piano sbiadisce. Il piccolo va a scuola ma Habeba vorrebbe con sé anche il maggiore, rimasto ostaggio dello zio. Vengono tutti, cognati, padre, fratelli, tutti a chiedere che torni a casa a promettere pace.
Ma Habeba non varcherà mai più la porta di casa sua, conosce l’incubo. Fiorenza e un gruppo di amiche di Pavia si prendono cura di lei per anni. Ora se ne occupa Beatrice, di Milano. Sta meglio, va a vivere con il fratello, adesso che può mantenersi, e combatte, insieme alle sue avvocate, per ottenere il divorzio, fronteggiando le minacce della famiglia.
Il fratello la sostiene e questa è una grande fortuna qui. Il figlio è bravo a scuola e molto affettuoso. Ma il maggiore non l’ha mai più rivisto.
Finalmente, dopo tante battaglie, arriva il sospirato divorzio. Continua a vivere con il fratello che l’aiuta e cuce vestiti per tutto il quartiere. È una brava sarta.

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Una storia del progetto Vite preziose.

La fotografia è di solo carattere grafico e non rappresenta la donna protagonista della storia. Data la attuale situazione in Afghanistan, per evitare l’identificazione delle donne i nomi sono stati modificati, così come i luoghi dove si svolgono i fatti.

 

 

Fatoma, Herat

Ho 12 anni e vivo ad Herat. La mia famiglia è povera ma ci vogliamo bene.
Mio padre ha un piccolo negozio e mia madre è casalinga. Il problema sono io, o meglio il mio cuore. Pare che abbia un buco. Mi fa stare male e non mi fa crescere come gli altri.
Mio padre le ha provate tutte. Mi ha portato da molti medici ma ognuno diceva il contrario dell’altro.
Alla fine, con l’aiuto dei miei parenti, è riuscito a portarmi al FMC Hospital. Lì hanno capito di che malattia si trattava, appunto il buco nel cuore. Serve un’operazione ma costa molto.
Mio padre mi ha anche registrato alla Croce Rossa. Ma in due anni nessuno si è fatto vivo. Così era sempre più disperato.
Ha saputo del centro legale di Hawca e si è presentato a raccontare la mia storia. Certo non era il posto giusto, non è di questo che si occupano. Ma proveranno ad aiutarci lo stesso a trovare i soldi per l’operazione. Mio padre intanto, che ha la testa molto dura, continua a sperare di risparmiare abbastanza per portarmi all’estero a operarmi. Per questo, a volte, mangiamo solo un po’ di pane secco per tutto il giorno. Ma anche con questi sacrifici non credo che ce la possa fare.
Così aspettiamo quello che succederà…

Aggiornamenti

Quando Fatoma entra nel progetto ritrova la speranza. Con alcune donazioni comincia a curarsi e a mangiare meglio.
Poi, nella sua vita, entrano Luciana e Giovanni che continuano a seguirla per molti anni, fino ad ora, con il loro sostegno economico e con il grande affetto di cui sono ricchissimi.
‘Con il loro sostegno economico e la loro presenza nella mia vita, dice Fatoma, una porta si è aperta, per me e per i miei genitori, sul mio futuro, e la speranza di guarire e di vivere come le altre ragazze.’ Riescono a raccogliere perfino, tra i loro amici, 2500 euro per l’operazione.
La sua malattia è grave e difficile da guarire e Fatoma è curata da diversi medici. Va spesso in Pakistan, come fanno tutti qui, data la scarsa efficienza degli ospedali afghani. Pian piano, tra alterne vicende, sta meglio, può mangiare cibi sani, cosa importante per lei, e può scaldarsi nei gelidi inverni di Kabul. Cresce e va a scuola È molto brava ma fa fatica per la sua debolezza.
Quando deve stare a casa studia privatamente con molto impegno. Non vuole restare indietro. Quando i suoi sponsor sanno che le farebbe bene fare dello sport, la sostengono anche per la palestra che le dà molta energia.
È curata adesso nel nuovo Centro Cardiologico appena aperto a Kabul, un ospedale più moderno e affidabile.

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Una storia del progetto Vite preziose.

La fotografia è di solo carattere grafico e non rappresenta la donna protagonista della storia. Data la attuale situazione in Afghanistan, per evitare l’identificazione delle donne i nomi sono stati modificati, così come i luoghi dove si svolgono i fatti.

 

Il CISDA e i migranti

Il Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane promuove il rispetto dei diritti umani e l’affermazione di diritti civili e sociali universali in un Paese in guerra da decenni.
Il nostro sostegno continua nella consapevolezza che la difesa di queste donne lontane è la stessa a favore dei diritti di noi tutti. Il CISDA, in quanto organizzazione politica calata nel suo tempo, non può esimersi dal lavoro con e per i migranti, non solo perché sono migliaia i profughi afghani in Italia, ma perché le migrazioni nel mondo sono e sono sempre state un fenomeno centrale, essenziale nella storia dell’umanità.

Perché ci importa degli immigrati

Il nostro non è solo un interesse umanitario. In un mondo che è sempre più globalizzato e riconoscendo che i migranti sono frutto delle difficoltà economiche e politiche che l’Occidente ha contribuito a creare e continua a mantenere, dobbiamo imparare a convivere con tutti e trovare una forma economica che sia in grado di distribuire equamente risorse e ricchezze, senza arroccarci sui privilegi acquisiti. Non vediamo futuro se non in questa prospettiva.

La situazione dell’Afghanistan è un chiaro esempio di questa situazione: la popolazione fugge da uno stato di guerra permanente che dura da decenni e che ha causato miseria e migliaia di vittime.

Il continuo deteriorarsi della situazione del Paese provoca un vero e proprio esodo. Secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (IOM), gli afghani compongono il secondo più grande gruppo di richiedenti asilo in Europa, dopo i siriani. La politica europea nei confronti degli esuli è stata quella di opporre una barriera ai flussi migratori verso le nazioni europee con la firma di accordi, prima con Ankara per il respingimento dei migranti e dei profughi sulla rotta balcanica in cambio di sei miliardi di euro di aiuti alla Turchia (marzo 2016), e poi con il governo Afghano per il rimpatrio forzato in un Paese certamente non pacificato e quindi non sicuro, in cambio di sostegno economico (ottobre 2016).

Anche in Italia i governi, di qualsiasi colore, hanno cercato di tener fuori gli immigrati dal Paese attraverso leggi più o meno restrittive ma comunque non inclusive, facendone sempre un problema di ordine pubblico e non riuscendo a immaginarli come risorsa, fino ad arrivare alle posizioni apertamente razziste di Salvini.

Un’unica strategia per opporsi

Partendo da queste considerazioni, il CISDA sostiene iniziative a favore degli immigrati afghani in alcune città.

A Roma, uno spazio di incontro tra membri della comunità cristiana di base di S. Paolo e giovani afghani, ha dato vita dal maggio 2010 a “La Sosta” che si propone come un momento di pausa, di riposo per poi riprendere il cammino. In questi anni di condivisione la situazione dei profughi afghani a Roma è cambiata: se nei primi anni di attività i ragazzi partecipavano numerosi per stare insieme e fare festa, ora gli ospiti sono drasticamente diminuiti di numero e la loro permanenza nella città è caratterizzata da situazioni di estrema povertà materiale che li costringe a vivere sulla strada, anche in considerazione della chiusura dei centri di accoglienza.

Il CISDA è anche presente nel comitato promotore per l’assegnazione del Premio Nobel per la Pace 2019 a Domenico Lucano e al Comune di Riace in quanto simbolo ventennale di accoglienza solidale, di inclusione di condivisione. La campagna di comunicazione ha coinvolto oltre 1300 associazioni, 2400 docenti universitari e quasi 100 mila cittadine e cittadini da tutta Europa.

Ma il CISDA è anche in rete con numerose associazioni che si occupano di migranti a diversi livelli, dall’assistenza di base all’organizzazione per l’acquisizione dei diritti fondamentali quali la rete” No ai Cpr” che opera contro la riapertura dei Centri di espulsione voluta da Salvini e la “Rete solidarietà” partita da Milano per iniziativa della Casa della Carità di Don Virginio Colmegna ed estesa al territorio nazionale.

Quest’ultima iniziativa si propone di costituire una sorta di “stati generali” della solidarietà per far sì che la grande produzione di idee e il tesoro delle esperienze delle moltissime associazioni che operano a favore dei migranti, possano diventare patrimonio di tutti con uno stabile e aperto confronto che tenda a superare le differenze che dividono, per trovare una strategia comune che permetta di trasformare le numerose ma isolate azioni di sostegno ai migranti in un’azione politica in grado di capitalizzare gli sforzi di tutti.

 

Comunicato stampa: Nobel per la pace a Riace

Siamo una rete di organizzazioni della società civile, NGO e Comuni che vogliono promuovere una Campagna a favore dell’assegnazione del premio Nobel per la pace 2019 a Riace, il piccolo Comune calabrese che invece di rinchiudere i rifugiati in campi profughi li ha integrati nella sua vita di tutti i giorni.

Riace è conosciuta in tutta Europa per il suo modello innovativo di accoglienza e di inclusione dei rifugiati che ha ridato vita ad un territorio quasi spopolato a causa dell’emigrazione e della endemica mancanza di lavoro. Le case abbandonate sono state restaurate utilizzando fondi regionali, sono stati aperti numerosi laboratori artigianali e sono state avviate molte altre attivitàà che hanno creato lavoro sia per i rifugiati che per i residenti.

Nel 2018 il Sindaco di Riace, Domenico Lucano, è stato arrestato, poi rilasciato, sospeso dalla carica e infine esiliato dal Comune con un provvedimento di divieto di dimora per “impedire la reiterazione del reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina”. Un provvedimento che rappresenta un gesto politico preceduto dal blocco nel 2016 dell’erogazione dei fondi destinati al programma di accoglienza e inserimento degli immigrati, che lasciò Riace in condizioni precarie.

Gli atti giudiziari intrapresi nei confronti del Sindaco Lucano appaiono essere un chiaro tentativo di porre fine ad una esperienza che contrasta chiaramente con le attività dei Governi che si oppongono all’accoglienza e all’inclusione dei rifugiati e mostrano tolleranza in casi di attività fraudolente messe in atto nei centri di   accoglienza di tutta Italia e in una Regione dove il crimine organizzato – non di rado – opera impunemente.

Supportare la nomina del Comune di Riace per il Nobel della pace è un atto di impegno civile e un orizzonte di convivenza per la stessa Europa.

Le organizzazioni che volessero sostenere la nostra proposta, troveranno il modulo al seguente link:

Le persone singole che volessero aderire dovranno collegarsi al seguente link:

Il modulo va compilato in ogni sua parte e spedito cliccando su Invia.

Il Comitato promotore:

Re.Co.Sol – Rete dei Comuni SolidaliMunicipio Roma VIII; Comunità di base San Paolo; LeftArci Nazionale, Arci Roma, Comuni Virtuosi; CISDA, Noi siamo ChiesaISDEAIEA Onlus- Associazione Italiana Esposti AmiantoMedicina Democratica Onlus, Festival Villa Ada Roma Incontra Il Mondo; Tavola della Pace; Rete CinEst; Movimento Europeo Italia; Forum Italo Tunisino per la Cittadinanza Mediterranea; CBC Costituzione Beni Comuni, Scup Sport e Cultura Popolare.