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Autore: Patrizia Fabbri

Nelofar, Novabad

Sono vedova, ho 38 anni e vivo a Novabad.
Mio marito è morto di cancro 5 anni fa. Ho quattro figli, di 12, 14, 16 e 18 anni. Viviamo tutti con mio cognato, un uomo crudele. Non mi permette di lavorare.
Mi minaccia continuamente: se trovo un lavoro, anche solo se lo cerco, mi caccerà per sempre da casa sua e non potrò rivedere mai più i miei figli.
Fuori dalla loro vita per sempre. Non posso vivere senza di loro, lui lo sa, il ricatto funziona.
Quel poco che ci serve per sopravvivere lo dobbiamo chiedere sempre a lui, è questo che lo fa sentire forte e padrone della nostra vita, se così si può chiamare.
Il mio figlio maggiore soffre più degli altri per questa situazione. Non lo sopporta. Ha trovato amici cattivi. Golam Azrat si sta perdendo, ha cominciato a drogarsi e a picchiarmi, picchia sua madre, a 18 anni.
Non è un bel modo per cominciare la vita. In genere lo fa perché non voglio dargli i soldi per la droga. Sono due anni ormai che i bambini non vanno a scuola, non ce lo possiamo permettere. Vanno a mendicare, questo mio cognato non lo proibisce.
Mi serve aiuto per lasciare la casa di mio cognato, riprendermi i miei figli, trovare un lavoro per vivere insieme e liberi. E per poter curare Golam, perché smetta di drogarsi.

Aggiornamenti

Nelofar è disperata quando entra nel progetto. Vuole salvare se stessa, il figlio maggiore dalla droga e ha paura che gli altri figli, lasciati per strada, trovino anche loro la droga sul loro cammino.
L’aiuto di Laura, Martin, Stefania ed Emma le permette di mantenere i suoi figli e di rompere il ricatto del cognato.
L’autonomia economica le dà un po’ della libertà che non aveva mai conosciuto. Manda i figli a scuola, togliendoli dalla strada e fa curare il maggiore in un Centro di Recupero.
Laura e Mariella le restano accanto per molti anni permettendole di rinforzare le basi della sua nuova vita libera e di resistere alle pressioni del cognato e della famiglia.
Lavora come donna delle pulizie in una casa di gente ricca e guadagna 60 dollari il mese. Il figlio maggiore comincia a studiare l’inglese.
Purtroppo, ultimamente, ha ripreso a drogarsi, anche se non ha lasciato la scuola.
Ma Nelofar non è il tipo che si arrende. Continua a combattere per la sua libertà e per quella dei suoi figli, soprattutto del maggiore.

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Una storia del progetto Vite preziose.

La fotografia è di solo carattere grafico e non rappresenta la donna protagonista della storia. Data la attuale situazione in Afghanistan, per evitare l’identificazione delle donne i nomi sono stati modificati, così come i luoghi dove si svolgono i fatti.

Nafas Gul, Kabul

Nafas ha 45 anni, vive a Kabul, è vedova, il marito è stato ucciso durante la guerra civile
La vita delle vedove in Afghanistan è molto difficile: o vengono segregate nella famiglia del marito e costrette a sposare un cognato oppure, come Nafas, sono abbandonate a loro stesse, in una situazione in cui miseria e disoccupazione sono altissime.
Nafas  lavora come donna di servizio nelle case dei ricchi cittadini di Kabul ma quello che guadagna è insufficiente per vivere: 5000 afghani equivalenti a circa 70 euro mensili. È caduta dalle scale, tempo fa, procurandosi una frattura alla schiena, mal curata, e ha dolori che le rendono difficile il lavoro.
Il figlio, che sa leggere e scrivere ma non ha potuto frequentare la scuola, cerca un impiego ogni giorno, insieme a molti altri afghani, nelle piazze, dove i “caporali” li assumo per un giorno. Ma è raro che ci riesca. Spesso torna a mani vuote, sempre più frustrato. Vorrebbe lasciare l’Afghanistan ma non può abbandonare la madre. Così, entrambi, sono sempre in cerca di un posto dove vivere. I soldi servono per i suoi problemi di salute e non bastano per pagarsi un alloggio.
Nafas e il figlio cercano rifugio, la notte, nelle case di parenti che però li ospitano solo per pochi giorni. Dice Nafas: “Il mio più grande desiderio è quello di avere un’istruzione, per me e per mio figlio e di poter guadagnare abbastanza denaro per vivere in pace la nostra vita.”

Aggiornamenti

Accanto a Nafas arriva Angelika con il suo incondizionato affetto e la sua grande generosità. La vita di Nafas e di suo figlio cambia completamente. Abitano a Kabul e Angelika segue con attenzione ogni loro scelta. Grazie a lei adesso hanno una casa vera, due stanze, cucina e bagno, confortevole e sicura.
Il figlio apre un piccolo negozio di verdura, vicino a casa, e riesce a guadagnare 300 afghani al giorno. L’investimento per il futuro parte, per Angelika, da questo ragazzo.
Frequenta, adesso, per tre ore al giorno, un corso di inglese e computer e per il resto della giornata si occupa del negozio. Con questo diploma potrebbe, più avanti, trovare un lavoro migliore e più redditizio. Nafas è finalmente serena, senza stress, e sta meglio, anche perché non è più costretta a lavorare sodo e non ha più paura del futuro.
Ma l’inverno, gelido in Afghanistan, la fa soffrire e le sue condizioni peggiorano. Non è ancora in grado di tornare a lavorare. Il figlio è costretto a chiudere il negozio perché frutta e verdura costano troppo, adesso che le frontiere col Pakistan sono chiuse.
Un tempo questo paese era un giardino ricchissimo che produceva ogni sorta di prodotti alimentari. Ma 40 anni di guerra hanno devastato tutto e resta solo l’oppio nei campi. Così si deve comprare oltre confine. Non si danno per vinti e decidono di aprire un piccolo negozio di zuppa, a Nafas piace cucinare e il figlio l’aiuterà a vendere. Ma per ora, devono aspettare che Nafas stia meglio. Angelika, per lei, è una sorella e vorrebbe tanto poterla abbracciare.

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Una storia del progetto Vite preziose.

La fotografia è di solo carattere grafico e non rappresenta la donna protagonista della storia. Data la attuale situazione in Afghanistan, per evitare l’identificazione delle donne i nomi sono stati modificati, così come i luoghi dove si svolgono i fatti.

 

Manizha, Moqor

Manizha è uscita dal progetto, dopo molti anni, ma la sua è una bellissima storia, cominciata all’inferno e la voglio raccontare.

Ci sono entrata spontaneamente in casa loro, due anni fa. Mio padre mi vuole bene, non mi aveva costretto. Ho accettato io di sposare quell’uomo. È il figlio maggiore di mio zio, ripara motociclette. Lo fa con cura, con delicatezza, è bravo. La sorpresa era dietro quella porta. Sono arrivata nella sua famiglia con le migliori intenzioni. Volevo essere una brava moglie e fare del mio meglio perché tutti stessero bene. Mi sono sforzata di renderli felici. Non me lo hanno permesso.

Ho capito subito che non ero una moglie, né una nuora, nemmeno una donna, solo una schiava. Mi facevano fare i lavori più pesanti, fuori, al freddo, sotto la neve. Ma il peggio doveva ancora arrivare. La mia condanna è cominciata presto.
Un giorno, ha visto un video in tv. Un uomo teneva la moglie segregata in cantina, la torturava, le strappava le unghie. L’idea gli è piaciuta, ha detto che lo avrebbe fatto anche lui.
È lì che tutto è cominciato. La stanza, dedicata a me, era la cantina.
Buia, fredda. Ci ho passato settimane intere con le mani e i piedi legati. Non c’è nemmeno una piccola parte del mio corpo che sia sana. Mio marito usava bastoni, catene, fruste. Pugni e calci sul viso che non posso più guardare. Ho perso le unghie delle mani e i miei piedi non sono più in grado di muoversi. Sua madre era d’accordo. Erano tutti d’accordo.

Humayoun, padre di Manizha.

Spingo un carretto di legno per le strade della città, trasporto qualsiasi cosa, è questo il mio lavoro. Non ho soldi per ottenere giustizia in qualche tribunale.
Non posso correre di qua e di là, tanto lo so, se non puoi pagare, non hai giustizia. Ma difenderò mia figlia a qualsiasi costo. Seguirò il suo caso a mani vuote e la terrò lontana da quel criminale di suo marito.

Quando ho saputo che Manizha in quella famiglia veniva torturata, sono corso a Moqor, (Ghazni) dove abitano e l’ho portata via, con la scusa di una visita a sua madre.
L’ho portata a Kabul, in salvo. Ora è in ospedale. Ho contattato la famiglia di suo marito, ho chiesto che venissero a Kabul a testimoniare, perché quell’uomo sia punito, deve pagare per quello che ha fatto. Ma non si è visto nessuno. Portare via mia figlia da quell’inferno, la casa di suo marito, è, nella nostra cultura, un affronto imperdonabile.
Ora tutta la famiglia mi odia. Ho paura per Manizha, per tutta la mia famiglia, perché il marito è un commander potente e vuole vendetta.

Aggiornamenti

È il suo corpo a raccontare la sua storia, raccolta da un giornalista della BBC afghana, Wahid Paykan. Incontra Manizha nella casa di un parente, a Kabul. Lei non può vederlo, non vede più niente, gli occhi spariti, tumefatti.
È affidata ad Hawca che, prima di tutto, la fa curare all’ospedale di Aliabad. Sta meglio, dicono i medici, ma le torture subite hanno sconvolto profondamente la sua mente. Intanto le avvocate si preparano a ottenere giustizia per lei in tribunale. Il marito è stato denunciato e Hawca seguirà il suo caso, per ottenere il divorzio e la condanna del suo aguzzino. La sua storia fa il giro del web e un appello per raccogliere dei soldi per curare Manizha è pubblicato sull’Unità. Manizha ancora non lo sa, ma la sua voce, soffocata in quella cantina, è arrivata lontano.

La solidarietà è forte e, in breve, si raccoglie una bella cifra per l’emergenza. Ma, oltre l’emergenza, la strada è lunga e buia. Albalisa le starà accanto per molti anni, sostenendola con affetto, fino al lieto fine.
Sono stata a trovare, anni fa, Manizha a Kabul. Manizha è cambiata dopo le cure. È ancora fragile ma ha voglia di parlare e i suoi desideri cominciano a farsi spazio, oltre la disperazione. Discutiamo a lungo, con lei e con suo padre, seduti sui tushak, lunghi cuscini fiorati posati sul pavimento, coperto di tappeti, beviamo infinite tazze di tè.

La stanza è luminosa e ordinata, Manizha, che ha ancora sul viso le cicatrici del suo orribile passato, fisicamente si è ripresa. Ma, ancora, mentre parliamo, quando si toccano argomenti difficili, si scioglie in lacrime. Si sente in colpa per la guerra di famiglia. Si parla di divorzio, il padre l’appoggia e l’incoraggia: ‘Troverai un uomo migliore, questa volta non mi voglio sbagliare.’
Adesso Manizha scuote la testa. Lei ha altri programmi. Li spiega con decisione, muovendo in fretta le mani, parlando a raffica. Per adesso, di mariti, non vuole più saperne. Vuole riprendere a studiare, diventare capace di mantenersi. Poi si vedrà. Il suo sogno di riprendere la scuola viene discusso tra le tazze di tè. Il padre alla fine si convince, l’accompagnerà lui, il pericolo di un rapimento è sempre presente. Ma deve impegnarsi a studiare. Manizha lo rassicura tra le lacrime, questa volta di gioia.

Manizha ha ritrovato il suo bel viso, la sua forza e ha mantenuto i patti. Ha anche frequentato con profitto l’Università, con il sostegno di Albalisa, e si è laureata. L’anno scorso si è sposata con un uomo che ama e che la ama davvero. Lavora adesso, è una donna vittoriosa e, come ha chiesto lei stessa, ha lasciato il posto a un’altra donna, passandole il testimone della speranza e della lotta.

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Una storia del progetto Vite preziose.

La fotografia è di solo carattere grafico e non rappresenta la donna protagonista della storia. Data la attuale situazione in Afghanistan, per evitare l’identificazione delle donne i nomi sono stati modificati, così come i luoghi dove si svolgono i fatti.

 

Lena

Sono di Herat. Ho 45 anni, qui sono tanti. Un tempo stavamo meglio. 40 anni di guerra si sono portati via tutto quello che avevamo. Ora abitiamo in una casa diroccata per la quale paghiamo l’affitto. Mio marito è debole e malato e non è in grado di lavorare.
I miei figli, due maschi, ancora ragazzini, vanno tutto il giorno a chiedere l’elemosina e a frugare nelle discariche. È così che campiamo. Ma qualcosa di peggio può sempre succedere. Mio marito un giorno mi ha detto: ‘Non è vero che non abbiamo niente, abbiamo una figlia in età da marito.’
Ha 14 anni. Adesso ogni volta che la guardo ho paura. Ho paura che lui la venda a qualche uomo sconosciuto. Non è cattivo mio marito, lo ha deciso per farci vivere un po’ meglio. Per la famiglia bisogna sacrificarsi, dice. Lo so che da noi succede così ma non posso accettarlo. Non si vende una figlia a qualche diavolo di passaggio per campare qualche mese.
Voglio salvare la mia bambina, e convincere mio marito a costruire una vita più decente, a trovare un lavoro per smettere di mendicare e per poter mandare a scuola i nostri figli.

Aggiornamenti

Lena trova l’aiuto di Francesca che la segue per molti anni. Il denaro che riceve e le pressioni delle assistenti di Hawca convincono il marito a non vendere la bimba.
Il padre promette di lasciarle finire gli studi e anche gli altri bambini vanno a scuola invece che a mendicare. Lena lavora come donna delle pulizie ma il marito è un osso duro.
Il denaro non gli basta e la picchia perché ne trovi di più.
Manderà di nuovo i figli a mendicare, minaccia. Lena è forte e resiste con le unghie e con i denti perché lui non rovini la vita dei figli. Il denaro che riceve diventa la sua arma di ricatto. Dice al marito che, se non li lascerà andare a scuola, i soldi non arriveranno più.
Pian piano il comportamento del marito migliora, è lei a portare i soldi a casa e non può permettersi di picchiarla. Lena con forza e dignità difende le sue conquiste. Ma la salute del marito peggiora gravemente. Qualche mese fa muore e Lena è convinta che sia a causa di medicine sbagliate.
Il giorno del funerale non va a lavorare e il datore di lavoro la licenzia. Nuovi problemi dunque. Ma non deve affrontarli da sola.

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Una storia del progetto Vite preziose.

La fotografia è di solo carattere grafico e non rappresenta la donna protagonista della storia. Data la attuale situazione in Afghanistan, per evitare l’identificazione delle donne i nomi sono stati modificati, così come i luoghi dove si svolgono i fatti.

 

 

 

 

 

Kareema, Jozjan

Kareema è la maggiore di una vasta famiglia, due sorelle e quattro fratelli. Perde i genitori quando è ancora una ragazzina e avrebbe lei stessa bisogno di cure. Ma le condizioni economiche sono disastrose e deve per forza diventare il capofamiglia e trovare di che vivere per tutti. Quello che sa fare è cuocere il pane e cucire. Con queste due attività riesce a malapena a nutrire i fratelli e le sorelle, spesso solo con un po’ di pane. Oltre a sostenere e nutrire la famiglia Kareema cerca di mandare i suoi fratelli a scuola perché abbiano un futuro migliore e più opportunità di lavoro. Passano gli anni e i suoi fratelli e sorelle crescono e si sposano. La sua vita cade in balìa delle sue cognate che si comportano come ospiti mentre lei deve lavorare ancora per tutti, comprese le cognate. Kareema si ricorda quando ha rifiutato diverse proposte di matrimonio solo per non abbandonare la sua famiglia. Passa il tempo e Kareema non ne può più di quella vita e dell’ingratitudine dei suoi fratelli. Così si sposa con un uomo che ha già una moglie ma non ha figli. Lo fa solo per scappare dalla tortura delle cognate.

Kareema non resta incinta, anche dopo 5 anni di matrimonio. La famiglia del marito la insulta spesso perché lei è stata pagata per fare figli e invece non riesce ad averne. È continuamente minacciata e insultata dal marito e dalla famiglia ma sopporta. Lo fa perché non ha mezzi di sussistenza al di fuori della famiglia e spera sempre di restare incinta. Il marito, che voleva assolutamente avere un figlio, prende una terza moglie che, presto, diventa vittima della violenza di tutta la famiglia come Kareema. È la più vecchia delle tre mogli, crede di non essere bella e quindi non si aspetta le attenzioni del marito. Lavora più duramente di tutte nella casa. I fratelli e le sorelle di Kareema sono presi dalla loro vita e l’hanno completamente dimenticata.

Kareema pensa che se avesse la possibilità economica di vivere per conto suo e non essere più dipendente dal marito, chiederebbe il divorzio.

Dice Kareema: ’Se avessi qualche piccola speranza di essere in grado di vivere per conto mio, chiederei il divorzio e lascerei la casa di mio marito per sempre. Spesso immagino di potermi sbarazzare di questa vita e di poter aiutare le altre due mogli di mio marito a fare lo stesso. Sono sicura che , dopo il divorzio da me, lui si sposerebbe per la quarta volta. Continuo a pensare a una strada per poter uscire da questa situazione insieme alle altre due mogli ma, in pratica, non riesco a fare nemmeno un passo in questa direzione. Riesco solo a sognare che un giorno come questo possa arrivare davvero. Mio marito è un ufficiale del Governo e abbiamo una economia molto debole, ha molti debiti per le spese dei suoi numerosi matrimoni e spesso la gente viene a casa a chiedere il denaro prestato. Naturalmente non è in grado di restituire in tempo il denaro. Qualche volta ho paura che noi tre possiamo diventare le vittime dei suoi debiti e prestiti.

Aggiornamenti

Kareema pensa di essere dentro una prigione che ha costruito lei stessa. Se avesse un aiuto finanziario per superare questi ostacoli potrebbe fare qualcosa per cambiare in meglio la sua vita.

Il sostegno a Kareema le permetterebbe di superare i primi ostacoli, uscire da quella casa e cercare, con l’aiuto di Hawca, un lavoro , costruendo così la sua indipendenza economica. Potrebbe divorziare e vivere finalmente per se stessa, un sogno.

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Una storia del progetto Vite preziose.

La fotografia è di solo carattere grafico e non rappresenta la donna protagonista della storia. Data la attuale situazione in Afghanistan, per evitare l’identificazione delle donne i nomi sono stati modificati, così come i luoghi dove si svolgono i fatti.

 

Humaira

Ho 21 anni. La scuola era la cosa più bella della mia vita. L’ho seguita fino all’8° classe, ero brava. Poi tutto è finito.
Mio padre mi ha dato in moglie a un uomo di 49 anni. Vedovo, la moglie morta in gravidanza, forse, penso, per colpa sua. Aveva già 4 figli, poi, un anno fa, è nato anche il mio.
Uno dei suoi figli ha la mia età. È il più feroce con me. Io non mi sono rassegnata a perdere la scuola, continuo a chiedere che mi ci lascino andare.
Ogni volta mi picchiano, soprattutto lui, il figlio, che è giovane e forte. Mi ha picchiato così tanto che non riesco più a muovermi bene.
Così sto in casa, sto seduta e cucio i vestiti per le persone del quartiere. Guadagno qualcosa, per me, quando riesco a non farmelo portar via.
Ma non basta per cambiare vita. Vorrei il divorzio da quest’uomo, avere un po’ di libertà, un’autonomia economica, vivere con il mio bambino, magari a casa dei miei o di qualche parente.
Ci credo ancora che possa succedere.

Aggiornamenti

L’aiuto mensile di Maurizio è il suo tesoro, finalmente Humaira riesce a curarsi. Va dal medico di nascosto, ora può pagarsi le cure da sola. Vorrebbe il divorzio, lasciare quella casa prigione e vivere da sola con il suo bambino, la normalità, il sogno di tutte. Il primo passo, difficilissimo, non riesce ancora a farlo. Ha paura di dire alla famiglia che vuole divorziare. Non glielo permetterebbero mai e la violenza della loro reazione, che può facilmente immaginare, la spaventa.
Per fortuna, a un certo punto, i due figli maggiori del marito si sposano e se ne vanno. Un sollievo, erano i suoi peggiori nemici. Il comportamento del marito migliora, le assistenti di Hawca non lo perdono d’occhio. Pian piano il marito si convince dei suoi errori e la lascia uscire per andare a curarsi all’ospedale e le dà anche il permesso di lavorare.
Ora sta molto meglio, la sua salute è rifiorita e ha trovato anche un buon lavoro.
“Non dimenticherò mai il mio sponsor, la persona migliore che abbia mai incontrato nella mia vita e un simbolo della speranza e della possibilità di cambiamenti positivi. Adesso posso stare in piedi da sola e provvedere alle spese per la mia famiglia.
Chiedo al mio sponsor di continuare a sostenere un’altra donna in difficoltà come ero io. Sono sicura che questo sostegno sia in grado di cambiare la sua vita come ha cambiato la mia. Grazie a questa persona io ho potuto rinascere a una vita nuova. Grazie, carissimo sponsor, per il generoso aiuto di tutti questi anni, sei sempre nei miei pensieri e nel mio cuore,”
Humaira dunque, esce dal progetto per lasciare il posto a un’altra donna: Nazbo.

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Una storia del progetto Vite preziose.

La fotografia è di solo carattere grafico e non rappresenta la donna protagonista della storia. Data la attuale situazione in Afghanistan, per evitare l’identificazione delle donne i nomi sono stati modificati, così come i luoghi dove si svolgono i fatti.