Manizha è uscita dal progetto, dopo molti anni, ma la sua è una bellissima storia, cominciata all’inferno e la voglio raccontare.
Ci sono entrata spontaneamente in casa loro, due anni fa. Mio padre mi vuole bene, non mi aveva costretto. Ho accettato io di sposare quell’uomo. È il figlio maggiore di mio zio, ripara motociclette. Lo fa con cura, con delicatezza, è bravo. La sorpresa era dietro quella porta. Sono arrivata nella sua famiglia con le migliori intenzioni. Volevo essere una brava moglie e fare del mio meglio perché tutti stessero bene. Mi sono sforzata di renderli felici. Non me lo hanno permesso.
Ho capito subito che non ero una moglie, né una nuora, nemmeno una donna, solo una schiava. Mi facevano fare i lavori più pesanti, fuori, al freddo, sotto la neve. Ma il peggio doveva ancora arrivare. La mia condanna è cominciata presto.
Un giorno, ha visto un video in tv. Un uomo teneva la moglie segregata in cantina, la torturava, le strappava le unghie. L’idea gli è piaciuta, ha detto che lo avrebbe fatto anche lui.
È lì che tutto è cominciato. La stanza, dedicata a me, era la cantina.
Buia, fredda. Ci ho passato settimane intere con le mani e i piedi legati. Non c’è nemmeno una piccola parte del mio corpo che sia sana. Mio marito usava bastoni, catene, fruste. Pugni e calci sul viso che non posso più guardare. Ho perso le unghie delle mani e i miei piedi non sono più in grado di muoversi. Sua madre era d’accordo. Erano tutti d’accordo.
Humayoun, padre di Manizha.
Spingo un carretto di legno per le strade della città, trasporto qualsiasi cosa, è questo il mio lavoro. Non ho soldi per ottenere giustizia in qualche tribunale.
Non posso correre di qua e di là, tanto lo so, se non puoi pagare, non hai giustizia. Ma difenderò mia figlia a qualsiasi costo. Seguirò il suo caso a mani vuote e la terrò lontana da quel criminale di suo marito.
Quando ho saputo che Manizha in quella famiglia veniva torturata, sono corso a Moqor, (Ghazni) dove abitano e l’ho portata via, con la scusa di una visita a sua madre.
L’ho portata a Kabul, in salvo. Ora è in ospedale. Ho contattato la famiglia di suo marito, ho chiesto che venissero a Kabul a testimoniare, perché quell’uomo sia punito, deve pagare per quello che ha fatto. Ma non si è visto nessuno. Portare via mia figlia da quell’inferno, la casa di suo marito, è, nella nostra cultura, un affronto imperdonabile.
Ora tutta la famiglia mi odia. Ho paura per Manizha, per tutta la mia famiglia, perché il marito è un commander potente e vuole vendetta.
Aggiornamenti
È il suo corpo a raccontare la sua storia, raccolta da un giornalista della BBC afghana, Wahid Paykan. Incontra Manizha nella casa di un parente, a Kabul. Lei non può vederlo, non vede più niente, gli occhi spariti, tumefatti.
È affidata ad Hawca che, prima di tutto, la fa curare all’ospedale di Aliabad. Sta meglio, dicono i medici, ma le torture subite hanno sconvolto profondamente la sua mente. Intanto le avvocate si preparano a ottenere giustizia per lei in tribunale. Il marito è stato denunciato e Hawca seguirà il suo caso, per ottenere il divorzio e la condanna del suo aguzzino. La sua storia fa il giro del web e un appello per raccogliere dei soldi per curare Manizha è pubblicato sull’Unità. Manizha ancora non lo sa, ma la sua voce, soffocata in quella cantina, è arrivata lontano.
La solidarietà è forte e, in breve, si raccoglie una bella cifra per l’emergenza. Ma, oltre l’emergenza, la strada è lunga e buia. Albalisa le starà accanto per molti anni, sostenendola con affetto, fino al lieto fine.
Sono stata a trovare, anni fa, Manizha a Kabul. Manizha è cambiata dopo le cure. È ancora fragile ma ha voglia di parlare e i suoi desideri cominciano a farsi spazio, oltre la disperazione. Discutiamo a lungo, con lei e con suo padre, seduti sui tushak, lunghi cuscini fiorati posati sul pavimento, coperto di tappeti, beviamo infinite tazze di tè.
La stanza è luminosa e ordinata, Manizha, che ha ancora sul viso le cicatrici del suo orribile passato, fisicamente si è ripresa. Ma, ancora, mentre parliamo, quando si toccano argomenti difficili, si scioglie in lacrime. Si sente in colpa per la guerra di famiglia. Si parla di divorzio, il padre l’appoggia e l’incoraggia: ‘Troverai un uomo migliore, questa volta non mi voglio sbagliare.’
Adesso Manizha scuote la testa. Lei ha altri programmi. Li spiega con decisione, muovendo in fretta le mani, parlando a raffica. Per adesso, di mariti, non vuole più saperne. Vuole riprendere a studiare, diventare capace di mantenersi. Poi si vedrà. Il suo sogno di riprendere la scuola viene discusso tra le tazze di tè. Il padre alla fine si convince, l’accompagnerà lui, il pericolo di un rapimento è sempre presente. Ma deve impegnarsi a studiare. Manizha lo rassicura tra le lacrime, questa volta di gioia.
Manizha ha ritrovato il suo bel viso, la sua forza e ha mantenuto i patti. Ha anche frequentato con profitto l’Università, con il sostegno di Albalisa, e si è laureata. L’anno scorso si è sposata con un uomo che ama e che la ama davvero. Lavora adesso, è una donna vittoriosa e, come ha chiesto lei stessa, ha lasciato il posto a un’altra donna, passandole il testimone della speranza e della lotta.
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Una storia del progetto Vite preziose.
La fotografia è di solo carattere grafico e non rappresenta la donna protagonista della storia. Data la attuale situazione in Afghanistan, per evitare l’identificazione delle donne i nomi sono stati modificati, così come i luoghi dove si svolgono i fatti.