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Autore: Patrizia Fabbri

Saniya

Mi chiamo Saniya e vengo dalla provincia di Laghman. È il giorno del mio matrimonio, ho 13 anni. Mio padre mi ha promessa da tempo e devo fare il mio dovere. Mia madre cerca di consolarmi ma le viene da piangere: tuo marito non è brutto, è sano. Può bastare, dice. L’ho visto, da uno spiraglio della porta. No, non è brutto e almeno non è vecchio come quello di mia sorella. L’aria sa di nuovo, è quasi primavera. Aspetto qui, nella stanza dove sono cresciuta. La famiglia è arrivata, il cibo pronto.
Ma la festa non comincia. ‘Che succede, perché?’.
Le voci si alzano, le porte sbattono. Il mio “fiancé”, come lo chiamavo con le mie sorelle, non è arrivato. Suo padre ha detto che non mi vuole più. Litiga con mio padre.
La mamma si dispera. Ma a me non importa, improvvisamente respiro di nuovo. Il mio fiancé non mi vuole, e non lo voglio nemmeno io.
Tutto è sistemato, rimango a casa mia. Ma l’illusione dura poco. Non si può sprecare tutto quel cibo, e bisogna riparare l’offesa. I padri si mettono d’accordo. Il suocero pagherà di più, ha altri figli. Il fiancé non brutto è sostituito dal fratello maggiore.
Gli uomini sono contenti, il matrimonio si fa. L’onore è salvo e il riso si mangerà. Questo marito di riserva è brutto, strano, silenzioso. Sordomuto. Adesso sono proprietà della sua famiglia. Di tutti. E’ così che funziona? Il primo fiancé che non mi voleva, adesso mi vuole, tutte le notti, e mi vuole anche suo padre. Non dico niente se no mi picchiano. Devo essere sorda e muta, come il mio sposo.
Quattro figli, tre maschi, una femmina sola, per fortuna. Nessuno è di mio marito. Ma sono miei, tutto quello che ho. Un giorno il fiancé e suo padre portano a casa altri uomini, sconosciuti. È una bella notizia, dicono. Finalmente servirai a qualcosa. ‘Vedi? Pagano per te!’, dice mio suocero mettendo in tasca i soldi. C’è un limite che non si deve superare. Basta. Sono di nuovo incinta, non so di chi.
Prendo i bambini più piccoli e scappo via, via dal fiancé che non era brutto e dagli uomini che mi hanno resa brutta.

Ho avuto fortuna, in fondo. Mio figlio è nato nella casa protetta, nella vita protetta. Non sono più sola. Voglio il divorzio da mio marito. E poi? Il sogno: vivere da sola con i miei bambini, un piccolo lavoro, così la vita avrà davvero quell’odore di nuovo.

Aggiornamenti

Saniya rimane a lungo nello Shelter di Hawca, partorisce il suo ultimo bimbo, viene curata per i suoi numerosi problemi fisici e mentali che 15 anni di matrimonio hanno lasciato nella sua anima e nella sua pelle. Elisa la sostiene dall’inizio e, con il suo piccolo gruzzolo, torna a vivere a casa del padre. Il marito la minaccia ma lei tiene duro.
Le avvocate di Hawca riescono a ottenere il sospirato divorzio, dopo anni di battaglie e, cosa ancora più difficile, la custodia dei figli. Ma anche vivere con i genitori non è facile, il divorzio è una grave colpa in Afghanistan. Riesce a trovare una piccola sistemazione dove può vivere con i figli e mandarli a scuola, libera dalla paura, dai ricatti, dalla violenza. Il suo sogno, lentamente, passo dopo passo, tra enormi difficoltà, si realizza.
Trova lavoro in un salone di bellezza, le parrucchiere sono molto richieste a Kabul. Lavora sodo, impara in fretta per realizzare un giorno il suo sogno di aprire un suo salone e guadagnare abbastanza da mantenere la sua famiglia. È contenta, anche se, per ora, da sola non ce la farebbe. Intanto anche Serenella e Alessandra le stanno accanto, dandole la fiducia e la serenità di cui ha bisogno.

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Una storia del progetto Vite preziose.

La fotografia è di solo carattere grafico e non rappresenta la donna protagonista della storia. Data la attuale situazione in Afghanistan, per evitare l’identificazione delle donne i nomi sono stati modificati, così come i luoghi dove si svolgono i fatti.

Sabira, Kunduz

Ho 19 anni e sono di Kunduz. Due anni fa mio padre mi ha detto che mi aveva dato in moglie.
Non c’era modo di sapere chi fosse, speravo almeno che fosse giovane. Aveva 52 anni, più vecchio di mio padre e, davvero, li portava male. L’ho visto la prima volta il giorno maledetto del mio matrimonio. L’ho sbirciato dalla porta e mi ha preso il panico.
Ho pianto e urlato così tanto da farmi venire la faccia gonfia come un melone. Tra le braccia di mia madre. Ma lei mi diceva: “Figlia mia, lo so, ci siamo passate tutte. Ma non c’è niente da fare dobbiamo accettare, non abbiamo scelta.
Lui è un uomo potente, ci ucciderà tutti se diciamo di no.” Adesso vivo con lui, sua moglie e i suoi cinque figli. Sua moglie non capisce, mi odia, dice che sono una puttana e che ho voluto io sposare quel brutto vecchio di nostro marito.
Non mi parla mai, m’insulta solo, tutto il giorno, mi fa mille dispetti, aizza i suoi cinque figli contro di me. Tutti insieme sono un esercito. Se parlo di scuola fanno a gara a picchiarmi.
Ma il dolore più grande è fuori dalla finestra. Vedo passare le ragazze della mia età, che, beate loro, non sono sposate, che vanno a scuola insieme, ridono, camminano. Le invidio tanto che mi viene voglia di morire, solo per uscire da qui. Ma poi mi dico: “Se lo vuoi davvero, Sabira, devi crederci. Devi combattere per questo.” Non posso farlo da sola, così ho chiesto aiuto ad Hawca.
Vorrei continuare a studiare e raggiungere quella vita lì, che passa fuori dalla finestra.

Aggiornamenti

Solo la libertà da quest’uomo e la scuola, tanto desiderata, potranno forse curare le sue profonde ferite. La vita di Sabira è davvero insopportabile. Ma quel barlume di speranza, dentro di lei, cresce e si rafforza da quando Costanza, Adriana e Claudia si occupano di lei. Come per altre ragazze, i bisogni elementari della sopravvivenza diventano il pretesto per la violenza. È questo il primo risultato del sostegno. Sabira ha un piccolo gruzzolo solo suo, un piccolo spazio che le appartiene in quella vita opprimente.
Può procurarsi quello che le serve senza chiedere niente. L’autonomia economica è la sua protezione dalla violenza. Non perde la speranza, non si sente più senza via d’uscita.
Vorrebbe il divorzio e, come molte, nello stesso tempo, ne ha paura. Prova a parlarne con la madre.
Spera nel suo appoggio ma resta delusa. “Guardatene bene, risponde, tuo padre non lo permetterà mai e ti ucciderà se farai una cosa del genere. Noi donne dobbiamo sopportare di essere schiave nella casa del marito. Non permetterti di portare la vergogna sulla nostra famiglia, davanti agli altri e alla tribù.” Rimane imprigionata per molto tempo in questo conflitto tra la sua sete di libertà e di riscatto e la paura. Non accetta nemmeno di rifugiarsi nello shelter.
Cerca di illudersi che le cose possano cambiare, chiede aiuto per questo. Ma le cose peggiorano: non riesce a restare incinta e questo, per il marito, è un ulteriore pretesto per la violenza.
Non potrà mai, le dicono, diventare mamma, una colpa inaccettabile. Con l’intervento ripetuto di Hawca il marito si ammorbidisce.
Ora può andare a scuola, seguire i corsi di Hawca, il suo più grande desiderio. Quelle ore passate a scuola diventano la sua ragione di vita. Il marito prende un’altra moglie e questo non migliora per nulla la sua situazione, anche perché rimane subito incinta. Sabira coltiva con tenacia quel minuscolo spazio di libertà che si è conquistata e inizia a insegnare il Corano ai bambini del quartiere. Le vogliono bene, è brava.

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Una storia del progetto Vite preziose.

La fotografia è di solo carattere grafico e non rappresenta la donna protagonista della storia. Data la attuale situazione in Afghanistan, per evitare l’identificazione delle donne i nomi sono stati modificati, così come i luoghi dove si svolgono i fatti.

Rehana, Kabul

Rehana, invece, il marito lo aveva scelto e gli voleva bene. Sono già tre anni che affronta la vita da sola. È vedova, ha 27 anni, tre figli piccoli, un maschio di 6 anni e due bambine di 3 e 4 anni. Il marito, molto giovane, è morto sul lavoro.
Un lavoro pesante e faticosissimo, senza nessuna sicurezza: trasportava pietre. Le caricava su un camion, le portava attraverso la città e le scaricava. Un giorno il camion ha avuto un problema e il ragazzo si è infilato sotto il mezzo, sollevato col crick, per aggiustarlo. Il crick ha ceduto e lui è rimasto schiacciato, colpito alla testa. Dopo una settimana di coma è morto.

È stato un terribile shock per tutta la famiglia e soprattutto per Rehana. La sua situazione economica è disastrosa. Per tirare a casa qualche soldo, lava i panni per le persone che abitano nel suo quartiere ma non basta affatto per lei e i suoi tre figli. Abitano in una piccola stanza a casa del cognato, una famiglia, come loro, molto povera e con molti figli. In Afghanistan questa situazione non può durare, Rehana deve sposare il cognato o un altro membro della famiglia.

Subisce molte pressioni e minacce. Ma Rehana non vuole nessun marito imposto ed è molto decisa a rifiutare questa soluzione. Vorrebbe invece riuscire a badare da sola ai suoi figli e poter vivere in pace.

Aggiornamenti

Entrare nel progetto e avere dei soldi suoi la mette al riparo dalle pressioni della famiglia, permettendole di nutrire se stessa e i suoi figli, di mandarli a scuola, e di cercarsi un lavoro migliore.

L’autonomia economica sposta le carte in gioco e permette alle donne di sottrarsi al ricatto della famiglia e alle violente pressioni dei parenti del marito. Prima Rehana ha avuto l’aiuto di Gianna e ha cominciato a sperare di decidere lei stessa quale vita vuole vivere, una conquista enorme in Afghanistan

Oggi sono Rita e Luigi a starle accanto. I suoi bambini vanno a scuola ed è molto fiera di loro, sono studiosi, intelligenti e dolci. Ha avuto fortuna, ha trovato lavoro come bidella, nella stessa scuola dei suoi bimbi. Ora vive da sola con loro. Guadagna poco, non ce la farebbe senza aiuto, ma è fiera della strada che ha percorso.

Spende i soldi soprattutto per la scuola dei piccoli. Vuole che crescano in un ambiente sicuro, che possano diventare dei buoni esseri umani, uomini e donne degni di rispetto.

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Una storia del progetto Vite preziose.

La fotografia è di solo carattere grafico e non rappresenta la donna protagonista della storia. Data la attuale situazione in Afghanistan, per evitare l’identificazione delle donne i nomi sono stati modificati, così come i luoghi dove si svolgono i fatti.

Noshin

Noshin è una ragazzina di 14 anni e vive nella provincia afghana di Takar, con la famiglia, in un villaggio sperduto e pericoloso. Noshin è la figlia più piccola e il padre, Hossein, è un contadino che lavora un pezzo di terra non suo, per il quale paga un affitto.
Per molti anni, con il ricavato di quel pezzo di terra, riesce a mantenere la sua famiglia, nei bisogni essenziali, e a pagare il dovuto. Una famiglia considerata tra le più povere della zona. Non possiedono niente, nemmeno la terra sulla quale lavorano e dalla quale dipende la sopravvivenza di tutti. Sopravvivenza sempre più difficile perché i talebani, che controllano la provincia, pretendono da lui una bella fetta del raccolto.
Pagare i talebani significa affamare la famiglia. Ma non ha scelta. Prova a resistere, a opporsi, ma i talebani si prendono con la forza la loro ‘tassa’. La situazione diventa insostenibile.
Il raccolto non basta per tutti e il debito con i talebani continua a crescere. La pressione è molto forte , Hossein è disperato. Sono loro, i talebani, a proporre una soluzione. Una soluzione che non si può rifiutare.
In cambio del raccolto e del denaro che non ha pagato, Hossein deve dare Noshin in sposa a uno dei loro comandanti. Ogni giorno, quando Noshin va a scuola, è minacciata, molestata, insultata, dal talebano che pretende di essere il suo sposo. Se lo trova davanti con il fucile puntato contro il suo petto, le urla di stare a casa e di non azzardarsi ad andare a scuola.
Ma Noshin non ci sta.
Nonostante queste terribili pressioni, continua a seguire le sue lezioni, con caparbio coraggio. Ma un giorno il talebano, fucile alla mano, le butta addosso una minaccia che Noshin non può sopportare. Ora ha davvero paura. Se continuerà ad andare a scuola, uccideranno suo padre in una pubblica esecuzione. La famiglia è in allarme. Sanno bene che i talebani fanno quello che dicono. Discutono a lungo. Non vogliono cedere al ricatto per niente al mondo. La soluzione è una sola: scappare.
I talebani sanno controllare bene la loro zona, soprattutto le strade. Non è facile fregarli. Tutta la famiglia parte, di notte, in silenzio, a coppie separate, con il fiato sospeso.
Ce la fanno. I talebani non si accorgono della fuga e riescono ad arrivare a Kabul. Sono liberi dalle minacce ma, anche nella capitale, la vita è piena di ostacoli per loro. Non hanno niente e il padre diventa un lavoratore a giornata, uno dei tantissimi che affollano le piazze dove i caporali assumono.
Quando riesce a lavorare, porta a casa il cibo per la famiglia, nei giorni in cui non trova niente, se ne torna a casa avvilito e a mani vuote. Nonostante queste enormi difficoltà, Noshin e il fratello continuano ad andare a scuola tutti i giorni. A questo non possono rinunciare, il padre lo sa. Devono studiare, per aprire strade diverse, per sperare in un luminoso futuro.

Aggiornamenti

Questa ragazzina tanto coraggiosa da sfidare i talebani, pur di continuare a studiare, ha, adesso accanto a sé Mara, un’insegnate italiana, che la sosterrà nel suo cammino.

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Una storia del progetto Vite preziose.

La fotografia è di solo carattere grafico e non rappresenta la donna protagonista della storia. Data la attuale situazione in Afghanistan, per evitare l’identificazione delle donne i nomi sono stati modificati, così come i luoghi dove si svolgono i fatti.

Nelofar, Novabad

Sono vedova, ho 38 anni e vivo a Novabad.
Mio marito è morto di cancro 5 anni fa. Ho quattro figli, di 12, 14, 16 e 18 anni. Viviamo tutti con mio cognato, un uomo crudele. Non mi permette di lavorare.
Mi minaccia continuamente: se trovo un lavoro, anche solo se lo cerco, mi caccerà per sempre da casa sua e non potrò rivedere mai più i miei figli.
Fuori dalla loro vita per sempre. Non posso vivere senza di loro, lui lo sa, il ricatto funziona.
Quel poco che ci serve per sopravvivere lo dobbiamo chiedere sempre a lui, è questo che lo fa sentire forte e padrone della nostra vita, se così si può chiamare.
Il mio figlio maggiore soffre più degli altri per questa situazione. Non lo sopporta. Ha trovato amici cattivi. Golam Azrat si sta perdendo, ha cominciato a drogarsi e a picchiarmi, picchia sua madre, a 18 anni.
Non è un bel modo per cominciare la vita. In genere lo fa perché non voglio dargli i soldi per la droga. Sono due anni ormai che i bambini non vanno a scuola, non ce lo possiamo permettere. Vanno a mendicare, questo mio cognato non lo proibisce.
Mi serve aiuto per lasciare la casa di mio cognato, riprendermi i miei figli, trovare un lavoro per vivere insieme e liberi. E per poter curare Golam, perché smetta di drogarsi.

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Nelofar è disperata quando entra nel progetto. Vuole salvare se stessa, il figlio maggiore dalla droga e ha paura che gli altri figli, lasciati per strada, trovino anche loro la droga sul loro cammino.
L’aiuto di Laura, Martin, Stefania ed Emma le permette di mantenere i suoi figli e di rompere il ricatto del cognato.
L’autonomia economica le dà un po’ della libertà che non aveva mai conosciuto. Manda i figli a scuola, togliendoli dalla strada e fa curare il maggiore in un Centro di Recupero.
Laura e Mariella le restano accanto per molti anni permettendole di rinforzare le basi della sua nuova vita libera e di resistere alle pressioni del cognato e della famiglia.
Lavora come donna delle pulizie in una casa di gente ricca e guadagna 60 dollari il mese. Il figlio maggiore comincia a studiare l’inglese.
Purtroppo, ultimamente, ha ripreso a drogarsi, anche se non ha lasciato la scuola.
Ma Nelofar non è il tipo che si arrende. Continua a combattere per la sua libertà e per quella dei suoi figli, soprattutto del maggiore.

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Nafas Gul, Kabul

Nafas ha 45 anni, vive a Kabul, è vedova, il marito è stato ucciso durante la guerra civile
La vita delle vedove in Afghanistan è molto difficile: o vengono segregate nella famiglia del marito e costrette a sposare un cognato oppure, come Nafas, sono abbandonate a loro stesse, in una situazione in cui miseria e disoccupazione sono altissime.
Nafas  lavora come donna di servizio nelle case dei ricchi cittadini di Kabul ma quello che guadagna è insufficiente per vivere: 5000 afghani equivalenti a circa 70 euro mensili. È caduta dalle scale, tempo fa, procurandosi una frattura alla schiena, mal curata, e ha dolori che le rendono difficile il lavoro.
Il figlio, che sa leggere e scrivere ma non ha potuto frequentare la scuola, cerca un impiego ogni giorno, insieme a molti altri afghani, nelle piazze, dove i “caporali” li assumo per un giorno. Ma è raro che ci riesca. Spesso torna a mani vuote, sempre più frustrato. Vorrebbe lasciare l’Afghanistan ma non può abbandonare la madre. Così, entrambi, sono sempre in cerca di un posto dove vivere. I soldi servono per i suoi problemi di salute e non bastano per pagarsi un alloggio.
Nafas e il figlio cercano rifugio, la notte, nelle case di parenti che però li ospitano solo per pochi giorni. Dice Nafas: “Il mio più grande desiderio è quello di avere un’istruzione, per me e per mio figlio e di poter guadagnare abbastanza denaro per vivere in pace la nostra vita.”

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Accanto a Nafas arriva Angelika con il suo incondizionato affetto e la sua grande generosità. La vita di Nafas e di suo figlio cambia completamente. Abitano a Kabul e Angelika segue con attenzione ogni loro scelta. Grazie a lei adesso hanno una casa vera, due stanze, cucina e bagno, confortevole e sicura.
Il figlio apre un piccolo negozio di verdura, vicino a casa, e riesce a guadagnare 300 afghani al giorno. L’investimento per il futuro parte, per Angelika, da questo ragazzo.
Frequenta, adesso, per tre ore al giorno, un corso di inglese e computer e per il resto della giornata si occupa del negozio. Con questo diploma potrebbe, più avanti, trovare un lavoro migliore e più redditizio. Nafas è finalmente serena, senza stress, e sta meglio, anche perché non è più costretta a lavorare sodo e non ha più paura del futuro.
Ma l’inverno, gelido in Afghanistan, la fa soffrire e le sue condizioni peggiorano. Non è ancora in grado di tornare a lavorare. Il figlio è costretto a chiudere il negozio perché frutta e verdura costano troppo, adesso che le frontiere col Pakistan sono chiuse.
Un tempo questo paese era un giardino ricchissimo che produceva ogni sorta di prodotti alimentari. Ma 40 anni di guerra hanno devastato tutto e resta solo l’oppio nei campi. Così si deve comprare oltre confine. Non si danno per vinti e decidono di aprire un piccolo negozio di zuppa, a Nafas piace cucinare e il figlio l’aiuterà a vendere. Ma per ora, devono aspettare che Nafas stia meglio. Angelika, per lei, è una sorella e vorrebbe tanto poterla abbracciare.

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Una storia del progetto Vite preziose.

La fotografia è di solo carattere grafico e non rappresenta la donna protagonista della storia. Data la attuale situazione in Afghanistan, per evitare l’identificazione delle donne i nomi sono stati modificati, così come i luoghi dove si svolgono i fatti.