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Autore: Patrizia Fabbri

Meena

È il tempo del primo regime talebano e la consuetudine vuole che le ragazze hazara (l’etnia più perseguitata del paese) siano costrette al matrimonio con i loro miliziani.  Meena racconta: “Se non obbedivamo ci picchiavano o ci uccidevano. Mio padre era vecchio e debole e nonostante io avessi solo 12 anni, mi ha venduto in matrimonio a uno di loro che aveva 35 anni, per 3.000 afghani, ossia trenta dollari soltanto. Questo era il mio prezzo. Quando lui è venuto a prendermi piangevo e gridavo con tutto il fiato che avevo in corpo, chiedevo aiuto, ma nessuno è venuto ad aiutarmi. Durante la prima notte di nozze, mio marito mi ha violentato 3 volte. È stato orribile, gridavo e chiamavo mia madre. Ma mia madre non era lì per salvarmi o consolarmi. Ho sanguinato per 40 giorni. Il dolore era insopportabile.

A tre mesi dal matrimonio ho avuto le mie prime mestruazioni. Mio marito è andato a lavorare a Mazar e io ero felice, finalmente ero tranquilla e avrei potuto giocare con i bambini della mia età. Purtroppo, dopo due mesi, mi sono accorta di essere incinta. Stavo molto male e al quinto mese ho iniziato a sanguinare e ho perso il bambino. Continuavo a sanguinare e a stare male quando mio marito è tornato e mi ha violentato ancora. Abbiamo vissuto 4 anni insieme e in questi 4 anni sono rimasta incinta nove volte e, ogni volta, sanguinavo e perdevo il bambino nei primi due o tre mesi. Mio marito non mi ha mai portato da un medico e anzi, mi picchiava e mi insultava ogni giorno. L’ultima gravidanza è andata avanti. Ero al nono mese quando mio marito mi ha buttato fuori di casa e sono andata da mio padre. Il bambino è nato lì ma è vissuto solo tre giorni. Il quarto giorno è morto tra le mie braccia. Non ho mai provato un dolore simile mentre lo tenevo stretto a me. Mai.

Dopo la morte del bambino mio marito ha divorziato e io sono rimasta a vivere con i miei fratelli e mio padre per tre anni. Poi, mi hanno obbligato a sposare un uomo che aveva 50 anni. Ho pensato che, dato che era un uomo anziano, sarebbe stato come un padre, gentile con me. Purtroppo sono stata delusa. Si è comportato bene per qualche mese poi tutto è cambiato. Sua madre che era molto vecchia continuava a aizzarlo contro di me a incitarlo a essere crudele nei miei confronti. Mi picchiava abitualmente e, a causa delle sue botte, ho perso altri due figli. L’ultima volta, ho partorito nel bagno di casa, l’emorragia era così forte che sono svenuta. Quando mi sono svegliata c’erano i nostri vicini che litigavano con mio marito e sua madre, perché volevano portarmi in ospedale. Il mio bambino morto era ancora attaccato a me. La placenta ancora non era uscita. Alla fine hanno vinto loro per fortuna e sono stata in ospedale per diversi giorni. Avevo bisogno di una trasfusione perché avevo perso molto sangue ma mio marito non ha voluto comprarmelo. Così il dottore ha chiesto ad alcune persone generose e gentili che hanno dato il loro sangue per salvare la mia vita. Durante la mia ospedalizzazione, mio marito ha venduto i miei pochi gioielli ma non mi ha comprato medicine e nemmeno un frutto. Niente. In seguito ho chiesto ai dottori di darmi una medicina per non restare più incinta.

Tornata a casa tutto è ricominciato come prima, insulti e botte. Ho chiesto aiuto ai miei fratelli e a mio padre ma nessuno mi ha aiutato. Dopo tre anni ho partorito una figlia, viva questa volta. Adesso, ho pensato, devo occuparmi di mia figlia, non possiamo più vivere qui. Così sono andata a vivere con lei in uno shelter (Casa protetta). Mentre ero lì ho realizzato di essere di nuovo incinta. Dopo qualche tempo mio marito è venuto da me pieno di promesse. Tutto sarebbe cambiato, lui sarebbe stato un buon marito, gentile, e si sarebbe preso cura di me e di sua figlia. Ero disperata e ci ho creduto. Ho accettato le sue scuse. Quando hanno realizzato che ero incinta, mio marito e i miei fratelli mi volevano in tutti i modi costringere ad abortire. Erano convinti che il bambino fosse di un altro uomo e non di mio marito. Ho gridato e pregato e giurato su Dio che il bambino era di mio marito ma loro dicevano che io ero rimasta incinta nello shelter. (nella mentalità ottusa, tribale e fondamentalista, uno shelter è paragonato ad un bordello). Mi hanno picchiato e mi hanno trascinato più volte all’ospedale per farmi abortire, ma io ho resistito e alla fine mio figlio è nato. Dopo la nascita del bambino le cose non sono migliorate. Oltre a picchiarmi, ha smesso di darci da mangiare e così mi sono messa a cucire vestiti per i vicini per poter mangiare e nutrire i miei figli. Non ce la facevo più con quella vita e sono riuscita a scappare con i miei figli e adesso vivo nello shelter di Hawca.

Voglio avere il divorzio e curare e proteggere i miei figli perché abbiano un futuro bello e diverso dal mio”.

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Una storia del progetto Vite preziose.

La fotografia è di solo carattere grafico e non rappresenta la donna protagonista della storia. Data la attuale situazione in Afghanistan, per evitare l’identificazione delle donne i nomi sono stati modificati, così come i luoghi dove si svolgono i fatti.

 

Hakima

Hakima vive attualmente a Kabul. Ha 50 anni e una vita difficile, con gravi problemi di salute. Ha due figlie di 18 e 13 anni che sono il suo grande orgoglio. La figlia maggiore è diplomata e la seconda frequenta la decima classe. Contrariamente a molti matrimoni afghani, quello di Hakima non è stato forzato né deciso dai genitori. Sposa l’uomo che ama e si costruisce una vita dignitosa e felice. Il marito lavora per diversi anni come lavoratore a giornata. Poi, più recentemente, riesce a ottenere un posto come guardia al Ministero dei Trasporti. Così la situazione economica migliora un po’. La vita è sempre ai limiti della povertà ma i due genitori mettono tutto il denaro che riescono a risparmiare nell’educazione delle due figlie. È la cosa a cui tengono di più. Vogliono che le ragazze diventino donne consapevoli, istruite e in grado di lavorare e costruirsi una vita indipendente. Sono molto brave a scuola. La più grande partecipa all’esame di ammissione all’Università e lo passa con ottimi voti. Purtroppo l’Università si trova in una zona molto insicura, è pericoloso frequentare. Hakima non ha i mezzi per mandarla a studiare altrove. Le piacerebbe che continuasse gli studi in una Università privata, più protetta, ma non se lo può permettere.

Un giorno di 4 anni fa, il marito di Hakima è al suo posto di lavoro, come sempre, davanti ai cancelli del Ministero, quando un’autobomba esplode portandolo via con sé. Sono anni molto duri per lei. Vive in una piccola casa a Kabul, in affitto. Non può lavorare, da quando il marito è morto, ha dei seri problemi di salute che glielo impediscono. Hanno una piccola entrata di 30.000 afghani l’anno, circa 350 euro, come pensione da parte del Governo. Questa pensione, naturalmente, è stata ottenuta dopo estenuanti domande e ricorsi nei meandri dei Ministeri. Averla è fondamentale per la piccola famiglia ma le permette a stento di vivere. Non può provvedere agli studi delle figlie che, anche loro, si danno da fare per integrare il magro bilancio. Nonostante tutto, Hakima non ha abbandonato la speranza di poter continuare l’istruzione delle figlie. È per questo che chiede sostegno.

Hakima ha bisogno di aiuto perché le sue figlie possano continuare e terminare il loro percorso di studi. Il suo unico sogno è quello di vederle laureate con in mano gli strumenti per cambiare il proprio destino, una professione che permetta loro di avere la dignità e l’indipendenza economica. Quello che lei non ha potuto avere.

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Una storia del progetto Vite preziose.

La fotografia è di solo carattere grafico e non rappresenta la donna protagonista della storia. Data la attuale situazione in Afghanistan, per evitare l’identificazione delle donne i nomi sono stati modificati, così come i luoghi dove si svolgono i fatti.

Shamsia

Shamsia ha solo 14 anni. Da nove mesi è ospite dello shelter di Hawca con la sorella Suhraba.

Ecco il suo racconto.

‘Non ricordo che età avessi quando mio padre è morto. Quando era vivo eravamo felici perché c’erano i nostri genitori a occuparsi di noi. Ero contenta di stare con mia sorella e passavamo molto tempo a giocare insieme. Dopo la morte di mio padre, per mia madre, la vita è diventata un inferno. Le mogli dei miei fratelli la attaccavano ogni giorno e le liti erano furibonde. Spesso la buttavano fuori di casa e lei si rifugiava dalla mia sorella maggiore, sposata. I miei fratelli e le loro mogli ci proibivano di avere contatti con mia madre. Non potevano telefonarle né incontrarla.

La prima volta che l’hanno buttata fuori di casa è stata una scenata terribile. La moglie di mio fratello mi ha picchiato e mi ha minacciato che avrebbe fatto di peggio se lo avessi detto a mia madre. Ma io gliel’ho detto lo stesso ed è scoppiata una lite molto violenta. Mia madre è stata picchiata dai miei fratelli e dalle loro mogli. Questa è stata la prima volta che l’hanno mandata via da casa. Io e mia sorella eravamo torturate e picchiate senza nessuna ragione. Penso che sia per tutta questa sofferenza che mia madre si è ammalata di cancro ed è morta. Io e mia sorella dovevamo fare tutti i lavori di casa anche quelli più pesanti senza discutere. Eravamo piccole allora e, a volte, non facevamo le cose proprio bene, come volevano loro. Allora ci picchiavano a morte, ci rinchiudevano in cantina e non ci davano più da mangiare per giorni. Ci dicevano continuamente che non avevamo il diritto di vivere. Ci facevano lavorare fino a tarda notte e ci svegliavano prestissimo per scaldare l’acqua per il loro bagno. Non avevamo mai abbastanza tempo per dormire a sufficienza né per mangiare abbastanza. La nostra vita era terribile. E piena di dolore. Non ci permettevano di andare a scuola. Ogni giorno potevamo vedere tanti bambini della nostra età che andavano a scuola con lo zaino pieno di libri, quaderni, pennarelli colorati. Per noi una vita così era soltanto un sogno. Non ci permettevano di andare a trovare nostra sorella sposata né ci portavano mai da un medico quando eravamo ammalate. Picchiarci era una loro occupazione quotidiana e a volte, lo facevano con del filo di ferro o con i cavi elettrici. A volte mio fratello prendeva un grosso chiodo e mi minacciava di farmi un buco nella testa. Era terrificante. La paura si prendeva tutta la nostra vita. Non abbiamo mai saputo quale fosse la nostra colpa. L’ultima volta, mio fratello litigava e gridava con sua moglie, noi non c’entravamo per niente. Poi, d’improvviso, si sono rivoltati contro di noi. Era tutta colpa nostra, chissà perché. Si sono messi in due a picchiarci, umiliarci, abusare di noi. Dopo questo episodio io e mia sorella abbiamo deciso che non potevamo più stare in quella casa e abbiamo deciso di scappare. Ci siamo mosse in silenzio, prima dell’alba e siamo scappate. Non sapevamo dove andare ma abbiamo corso e corso e corso ancora, finché, stanchissime, ci siamo sedute per riposare e ci siamo nascoste tra i cespugli e gli alberi. Più tardi abbiamo deciso che dovevamo rischiare e chiedere aiuto. Non potevamo farcela da sole. Abbiamo parlato con alcune persone di quel posto e abbiamo avuto fortuna. Ci hanno indicato il Ministero degli Affari Femminili e lì ci hanno portato allo shelter di Hawca. Per noi lo shelter è il paradiso. Abbiamo cibo buono e a sufficienza, vestiti, cure mediche e lo staff è meraviglioso con noi, così che ci sentiamo come se fossero loro la nostra famiglia. Avere una famiglia vera deve essere così. Adesso io voglio studiare e crescere come una persona consapevole e istruita. Voglio diventare una combattente per i diritti delle donne in modo da poter aiutare le donne e le bambine che soffrono quanto abbiamo sofferto noi, in Afghanistan. Vorrei poter incontrare mia sorella sentirmi libera e iniziare una nuova vita.

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Una storia del progetto Vite preziose.

La fotografia è di solo carattere grafico e non rappresenta la donna protagonista della storia. Data la attuale situazione in Afghanistan, per evitare l’identificazione delle donne i nomi sono stati modificati, così come i luoghi dove si svolgono i fatti.

Malalai

Non sapevo niente, avevo 7 anni. Niente di quello che succede tra marito e moglie. Conoscevo solo i giochi che facevo con i bambini della mia età, allegri, scatenati. Ma mio padre mi ha fatto sposare un uomo di 40 anni. La mia vita si è fermata lì.

Mio marito voleva avere rapporti con me ma io avevo sentito da altre donne che la prima volta fa molto male così ogni notte scappavo e mi nascondevo dove potevo. Questa situazione, lo sapevo, non poteva durare. Dopo due mesi, una notte lui mi ha preso, mi ha legato mani e piedi e mi ha violentata. Sono svenuta e quando mi sono svegliata ero piena di sangue e con un dolore terribile nel ventre. Ero terrorizzata e ho cominciato a gridare e a piangere. Nessuno è venuto a aiutarmi. Mio marito mi ha messo una mano sulla bocca e mi ha minacciato. Non devi gridare, ha detto, perché gridare così è un’azione vergognosa! Ho pianto tutta la notte e per molti giorni non sono stata in grado di camminare. Mi sentivo piena di vergogna e mi nascondevo dalle altre ragazzine. Non riuscivo a dormire la notte per paura che lui venisse a violentarmi di nuovo e anche quando mi addormentavo per un po’, mi svegliavo terrorizzata. Quando mi rifiutavo di avere rapporti con lui mi picchiava, mi legava e mi violentava. Ogni volta perdevo conoscenza. A 20 anni ho dato alla luce un bambino, ma, prima che potessi guardarlo e prenderlo tra le mie braccia, mio marito lo ha venduto, perché eravamo molto poveri.

La mia vita era un inferno ma io credevo che fosse così per tutte le donne nel mio paese. Mi vergognavo a chiedere alle altre donne e ragazze se la loro vita fosse come la mia. Si andava avanti così, un giorno dopo l’altro, e ho messo al mondo 5 figli. Non avevano abbastanza da mangiare, così sono cresciuti malnutriti. La mia figlia più grande, che ha 20 anni adesso, ha la mente di una bambina.

Dopo qualche anno mio marito ha avvelenato mia madre. Nello stesso modo mia cognata ha dato del veleno alla mia bambina di 9 mesi e l’ha uccisa. Mio marito continuava a essere violento con me e i miei figli. Un giorno ha picchiato così tanto la mia bambina più piccola che è svenuta perdendo sangue dal naso e dalla bocca. Davanti a lei, ridotta così, ho giurato a me stessa che non avremmo più tollerato tutto questo. Mai più. Così ho deciso di avere coraggio e di salvarci. Sono scappata con i miei figli e sono andata alla Commissione Indipendente per i Diritti Umani. Qui delle persone mi hanno accompagnato allo shelter di Hawca. Le avvocate mi hanno aiutato e ho fatto una denuncia contro mio marito per le violenze contro di noi e per aver ucciso mia madre. Adesso lui è in prigione, voglio avere il divorzio e la custodia dei miei figli. Devo occuparmi di loro e fare in modo che non abbiano una vita come la mia. Non potrei sopportarlo.

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Una storia del progetto Vite preziose.

La fotografia è di solo carattere grafico e non rappresenta la donna protagonista della storia. Data la attuale situazione in Afghanistan, per evitare l’identificazione delle donne i nomi sono stati modificati, così come i luoghi dove si svolgono i fatti.

Lailuma

Lailuma ha 50 anni. Ha perso le persone più care della sua famiglia durante la guerra civile nei terribili anni dal 1992 al 1996, in cui Kabul era diventata l’Inferno. Dopo tre anni di matrimonio il marito di Lailuma sparisce, inghiottito dagli orrori della guerra civile. Non ha mai saputo dove e come sia morto ma non l’ha più rivisto.

Ha due figli Lailuma, al tempo della tragedia. Piccolissimi.

Quando il marito scompare, il suocero, come prescrive la tradizione tribale, la vuole obbligare a sposare il cognato. Lailuma non accetta e viene sbattuta fuori casa con i suoi due piccoli. Va da una casa all’altra, cercando di trovare un posto nel quale vivere e crescere i figli. Lavora giorno e notte nelle case, come domestica, per poter tirare avanti con i suoi bambini. Quando la situazione politica cambia riesce ad avere un posto più sicuro, come donna delle pulizie al Ministero dei Lavori Pubblici. Tiene molto all’istruzione dei suoi figli e riesce a farli studiare. La figlia si diploma a pieni voti dalla scuola superiore e il figlio inizia a frequentare l’Università. È molto bravo e, mentre studia, lavora, con contratti a termine, come impiegato allo stesso Ministero dove lavora sua madre. Sta per laurearsi, sembra che tutto proceda per il meglio. Ma a Kabul, la vita è sempre appesa a un filo. Puoi sempre trovarti nel posto sbagliato al momento sbagliato. E quel giorno il figlio di Lailuma sta lavorando in un ufficio del Ministero.

I Ministeri sono target frequenti e un attentato devastante si porta via il ragazzo. Anche Lailuma è al lavoro, in un’altra parte dell’edificio, e sente quello spaventoso boato. Sente, e le si ferma il cuore. Sa che suo figlio lavora da quella parte del Ministero, quella esposta alla strada.

Lailuma non si riprenderà mai da questo shock spaventoso. Ha molti problemi psicologici e fisici, ma continua a lavorare per mantenere se stessa e sua figlia. Purtroppo, recentemente, è stata licenziata perché non è in grado di assolvere anche i compiti più semplici, non è abbastanza efficiente.

Lailuma e la figlia hanno bisogno di aiuto per vivere, per sostenersi dignitosamente, perché Lailuma si possa curare, possa di nuovo stare bene e riprendere a lavorare. Naturalmente il suo sogno più grande è quello che la figlia possa frequentare l’Università e laurearsi.

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Deba

Mia figlia Deba ha adesso 17 anni. Ne aveva solo cinque quando suo padre è morto.
Mio marito è stato ucciso dai talebani. Da allora le cose non sono andate bene. La vita di una vedova è molto difficile qui.
Viviamo, io e due figlie, nella casa di mio cognato, qui a Kabul. Ci affitta una stanza in casa sua ma non ha mezzi per mantenere anche noi. Così cerchiamo di arrangiarci. Io vado in giro per il quartiere, raccolgo i panni sporchi e li lavo. In questo modo posso pagare la stanza e la nostra sopravvivenza. Deba ha cercato in tutti i modi di aiutarmi ma lo zio non le permette di uscire di casa per lavorare con me o per trovare qualcos’altro che ci sostenga. Non le permette nemmeno di studiare.
È prigioniera.
Ha sofferto molto per questa clausura e per il comportamento violento dello zio e adesso ha dei grossi problemi psicologici. Spesso, in casa, per strada, dovunque si trovi, cade per terra, grida, piange. Sono due anni che ha queste crisi. Dovrebbe essere curata e prendere delle medicine ma io non posso permettermelo e non abbiamo parenti che ci possano aiutare. Devo fare qualcosa per Deba, questo me lo dico ogni giorno.
Ma cosa? Pregare, certo, questo lo faccio. E mendicare per le strade di Kabul, come molte altre vedove nelle mie condizioni. È l’unico modo per trovare i soldi per le cure di cui mia figlia ha bisogno. Ma sono ancora giovane e mi vergogno. Chiedere i soldi per la strada mi fa sentire senza dignità e poi gli uomini non ti trattano bene.
Se Deba stesse meglio, se avessimo un aiuto, potrebbe iniziare qualche lavoretto a casa e le cose andrebbero meglio. È questo il mio pensiero ogni mattina quando mi sveglio.

Aggiornamenti

Quando Deba entra nel progetto, è sull’orlo della follia, le sue condizioni sono gravi.
Sono Donatella, Monica e Luciana a prendersi cura di lei. La madre la porta dal medico che le prescrive delle medicine e la vuole rivedere regolarmente. La cura sarà lunga.
Ora possono mangiare meglio, aver cura di loro stesse e far curare Deba. Vivono in una stanza più grande e comoda.
Poi, il testimone della staffetta di solidarietà passa a Rachele che da molti anni le sta accanto con il suo aiuto. La vittoria più grande è che Deba riprende a studiare.
È una delle studentesse più brillanti della scuola e passa gli esami con ottimi voti. La loro situazione purtroppo è ultimamente peggiorata e, senza l’aiuto di Rachele, non ce la farebbero a sopravvivere. La madre ha problemi di salute e, data la sua debolezza, ha perso il lavoro e non ha più la forza per pulire e lavare nelle case altrui. Deba non si fida a fare il lavoro di sua madre.
I suoi problemi psicologici non la rendono una buona candidata come donna di servizio e ha paura che gli uomini di casa approfittino di lei e della sua malattia.
Cerca di continuare a studiare, la speranza è nutrita dalla vicinanza di Rachele. Vorrebbe poter trovare il lavoro migliore e adatto a lei.

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Una storia del progetto Vite preziose.

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