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Autore: Patrizia Fabbri

Malalai

Non sapevo niente, avevo 7 anni. Niente di quello che succede tra marito e moglie. Conoscevo solo i giochi che facevo con i bambini della mia età, allegri, scatenati. Ma mio padre mi ha fatto sposare un uomo di 40 anni. La mia vita si è fermata lì.

Mio marito voleva avere rapporti con me ma io avevo sentito da altre donne che la prima volta fa molto male così ogni notte scappavo e mi nascondevo dove potevo. Questa situazione, lo sapevo, non poteva durare. Dopo due mesi, una notte lui mi ha preso, mi ha legato mani e piedi e mi ha violentata. Sono svenuta e quando mi sono svegliata ero piena di sangue e con un dolore terribile nel ventre. Ero terrorizzata e ho cominciato a gridare e a piangere. Nessuno è venuto a aiutarmi. Mio marito mi ha messo una mano sulla bocca e mi ha minacciato. Non devi gridare, ha detto, perché gridare così è un’azione vergognosa! Ho pianto tutta la notte e per molti giorni non sono stata in grado di camminare. Mi sentivo piena di vergogna e mi nascondevo dalle altre ragazzine. Non riuscivo a dormire la notte per paura che lui venisse a violentarmi di nuovo e anche quando mi addormentavo per un po’, mi svegliavo terrorizzata. Quando mi rifiutavo di avere rapporti con lui mi picchiava, mi legava e mi violentava. Ogni volta perdevo conoscenza. A 20 anni ho dato alla luce un bambino, ma, prima che potessi guardarlo e prenderlo tra le mie braccia, mio marito lo ha venduto, perché eravamo molto poveri.

La mia vita era un inferno ma io credevo che fosse così per tutte le donne nel mio paese. Mi vergognavo a chiedere alle altre donne e ragazze se la loro vita fosse come la mia. Si andava avanti così, un giorno dopo l’altro, e ho messo al mondo 5 figli. Non avevano abbastanza da mangiare, così sono cresciuti malnutriti. La mia figlia più grande, che ha 20 anni adesso, ha la mente di una bambina.

Dopo qualche anno mio marito ha avvelenato mia madre. Nello stesso modo mia cognata ha dato del veleno alla mia bambina di 9 mesi e l’ha uccisa. Mio marito continuava a essere violento con me e i miei figli. Un giorno ha picchiato così tanto la mia bambina più piccola che è svenuta perdendo sangue dal naso e dalla bocca. Davanti a lei, ridotta così, ho giurato a me stessa che non avremmo più tollerato tutto questo. Mai più. Così ho deciso di avere coraggio e di salvarci. Sono scappata con i miei figli e sono andata alla Commissione Indipendente per i Diritti Umani. Qui delle persone mi hanno accompagnato allo shelter di Hawca. Le avvocate mi hanno aiutato e ho fatto una denuncia contro mio marito per le violenze contro di noi e per aver ucciso mia madre. Adesso lui è in prigione, voglio avere il divorzio e la custodia dei miei figli. Devo occuparmi di loro e fare in modo che non abbiano una vita come la mia. Non potrei sopportarlo.

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Una storia del progetto Vite preziose.

La fotografia è di solo carattere grafico e non rappresenta la donna protagonista della storia. Data la attuale situazione in Afghanistan, per evitare l’identificazione delle donne i nomi sono stati modificati, così come i luoghi dove si svolgono i fatti.

Lailuma

Lailuma ha 50 anni. Ha perso le persone più care della sua famiglia durante la guerra civile nei terribili anni dal 1992 al 1996, in cui Kabul era diventata l’Inferno. Dopo tre anni di matrimonio il marito di Lailuma sparisce, inghiottito dagli orrori della guerra civile. Non ha mai saputo dove e come sia morto ma non l’ha più rivisto.

Ha due figli Lailuma, al tempo della tragedia. Piccolissimi.

Quando il marito scompare, il suocero, come prescrive la tradizione tribale, la vuole obbligare a sposare il cognato. Lailuma non accetta e viene sbattuta fuori casa con i suoi due piccoli. Va da una casa all’altra, cercando di trovare un posto nel quale vivere e crescere i figli. Lavora giorno e notte nelle case, come domestica, per poter tirare avanti con i suoi bambini. Quando la situazione politica cambia riesce ad avere un posto più sicuro, come donna delle pulizie al Ministero dei Lavori Pubblici. Tiene molto all’istruzione dei suoi figli e riesce a farli studiare. La figlia si diploma a pieni voti dalla scuola superiore e il figlio inizia a frequentare l’Università. È molto bravo e, mentre studia, lavora, con contratti a termine, come impiegato allo stesso Ministero dove lavora sua madre. Sta per laurearsi, sembra che tutto proceda per il meglio. Ma a Kabul, la vita è sempre appesa a un filo. Puoi sempre trovarti nel posto sbagliato al momento sbagliato. E quel giorno il figlio di Lailuma sta lavorando in un ufficio del Ministero.

I Ministeri sono target frequenti e un attentato devastante si porta via il ragazzo. Anche Lailuma è al lavoro, in un’altra parte dell’edificio, e sente quello spaventoso boato. Sente, e le si ferma il cuore. Sa che suo figlio lavora da quella parte del Ministero, quella esposta alla strada.

Lailuma non si riprenderà mai da questo shock spaventoso. Ha molti problemi psicologici e fisici, ma continua a lavorare per mantenere se stessa e sua figlia. Purtroppo, recentemente, è stata licenziata perché non è in grado di assolvere anche i compiti più semplici, non è abbastanza efficiente.

Lailuma e la figlia hanno bisogno di aiuto per vivere, per sostenersi dignitosamente, perché Lailuma si possa curare, possa di nuovo stare bene e riprendere a lavorare. Naturalmente il suo sogno più grande è quello che la figlia possa frequentare l’Università e laurearsi.

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Una storia del progetto Vite preziose.

La fotografia è di solo carattere grafico e non rappresenta la donna protagonista della storia. Data la attuale situazione in Afghanistan, per evitare l’identificazione delle donne i nomi sono stati modificati, così come i luoghi dove si svolgono i fatti.

Deba

Mia figlia Deba ha adesso 17 anni. Ne aveva solo cinque quando suo padre è morto.
Mio marito è stato ucciso dai talebani. Da allora le cose non sono andate bene. La vita di una vedova è molto difficile qui.
Viviamo, io e due figlie, nella casa di mio cognato, qui a Kabul. Ci affitta una stanza in casa sua ma non ha mezzi per mantenere anche noi. Così cerchiamo di arrangiarci. Io vado in giro per il quartiere, raccolgo i panni sporchi e li lavo. In questo modo posso pagare la stanza e la nostra sopravvivenza. Deba ha cercato in tutti i modi di aiutarmi ma lo zio non le permette di uscire di casa per lavorare con me o per trovare qualcos’altro che ci sostenga. Non le permette nemmeno di studiare.
È prigioniera.
Ha sofferto molto per questa clausura e per il comportamento violento dello zio e adesso ha dei grossi problemi psicologici. Spesso, in casa, per strada, dovunque si trovi, cade per terra, grida, piange. Sono due anni che ha queste crisi. Dovrebbe essere curata e prendere delle medicine ma io non posso permettermelo e non abbiamo parenti che ci possano aiutare. Devo fare qualcosa per Deba, questo me lo dico ogni giorno.
Ma cosa? Pregare, certo, questo lo faccio. E mendicare per le strade di Kabul, come molte altre vedove nelle mie condizioni. È l’unico modo per trovare i soldi per le cure di cui mia figlia ha bisogno. Ma sono ancora giovane e mi vergogno. Chiedere i soldi per la strada mi fa sentire senza dignità e poi gli uomini non ti trattano bene.
Se Deba stesse meglio, se avessimo un aiuto, potrebbe iniziare qualche lavoretto a casa e le cose andrebbero meglio. È questo il mio pensiero ogni mattina quando mi sveglio.

Aggiornamenti

Quando Deba entra nel progetto, è sull’orlo della follia, le sue condizioni sono gravi.
Sono Donatella, Monica e Luciana a prendersi cura di lei. La madre la porta dal medico che le prescrive delle medicine e la vuole rivedere regolarmente. La cura sarà lunga.
Ora possono mangiare meglio, aver cura di loro stesse e far curare Deba. Vivono in una stanza più grande e comoda.
Poi, il testimone della staffetta di solidarietà passa a Rachele che da molti anni le sta accanto con il suo aiuto. La vittoria più grande è che Deba riprende a studiare.
È una delle studentesse più brillanti della scuola e passa gli esami con ottimi voti. La loro situazione purtroppo è ultimamente peggiorata e, senza l’aiuto di Rachele, non ce la farebbero a sopravvivere. La madre ha problemi di salute e, data la sua debolezza, ha perso il lavoro e non ha più la forza per pulire e lavare nelle case altrui. Deba non si fida a fare il lavoro di sua madre.
I suoi problemi psicologici non la rendono una buona candidata come donna di servizio e ha paura che gli uomini di casa approfittino di lei e della sua malattia.
Cerca di continuare a studiare, la speranza è nutrita dalla vicinanza di Rachele. Vorrebbe poter trovare il lavoro migliore e adatto a lei.

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Una storia del progetto Vite preziose.

La fotografia è di solo carattere grafico e non rappresenta la donna protagonista della storia. Data la attuale situazione in Afghanistan, per evitare l’identificazione delle donne i nomi sono stati modificati, così come i luoghi dove si svolgono i fatti.

 

 

 

 

Suhaila, Nangarhar

Sono nata in una famiglia povera, sette sorelle e nessun fratello. Mio padre era un lavoratore a giornata e lavorava giorno e notte per poterci procurare il cibo.
Avevo capito che, a quel tempo, era una vergogna per una donna lavorare nelle case di altre persone ma mia madre lo faceva lo stesso, all’insaputa di mio padre, in una casa lontana, dove era difficile che si venisse a sapere. Spesso ci portava vestiti vecchi, scarpe consumate e pane secco e altre cose così. Mi ricordo che mio padre era molto violento ma si impegnava giorno e notte per noi. Naturalmente questa era la vita di tutti in quell’area (Chitral- Pakistan).
Anche solo parlare dell’educazione delle ragazze o mandarle fuori di casa per andare a scuola era proibito. Come migliaia di altre ragazze della mia età, i miei genitori hanno deciso il mio destino e mi hanno data in sposa, in cambio di qualche merce, non mi ricordo nemmeno cosa. Non mi ricordo quanto valevo per loro. Io sono la vittima di questa oscena usanza.

Quando mi sono sposata e sono andata nella casa di mio marito io non sapevo assolutamente niente dei rapporti tra marito e moglie. Spesso mio marito dava retta ai suoi genitori che mi accusavano e mi picchiava senza nessuna ragione. Il lavoro era tutto sulle mie spalle. Dovevo occuparmi delle mucche da latte, cucinare, lavare piatti e vestiti di tutta la famiglia, andare a prendere l’acqua, pulire la casa e un grande cortile, costruire case di fango e così via.

La mia prima figlia è nata quando avevo 20 anni. Mio marito non c’era. Era andato a lavorare in un’altra provincia, lontano, e veniva a trovarci una volta ogni due mesi. Durante la sua assenza ho avuto dei giorni molto difficili. Ogni membro della sua famiglia era terribilmente crudele con me.
Mi portavano via la mia bambina e la chiudevano nella loro stanza fino che, a forza di piangere, restava senza fiato. Sono stata picchiata da mia cognata e da mio cognato spesso perché, ad esempio, non avevo preparato in tempo il cibo. Il mio naso è rotto e ho avuto profonde ferite in tutto il corpo, di cui ho ancora le cicatrici.

Dopo un po’ di tempo siamo ritornati nel Kunar, in Afghanistan, e sono nati altri figli, tutte femmine. La mia vita è stata sempre difficile ma il periodo peggiore arriva ora, quando mio marito viene operato per un tumore al cervello e rimane cieco. Fino a quel momento ero stata responsabile della famiglia, essendo madre e anche padre per i miei figli. Vivevamo e lavoravamo in una fattoria e coltivavamo la terra, tutti insieme, con le mie figlie che mi aiutavano.
Questa era l’unica fonte di sopravvivenza per noi. Ho sempre immaginato per le mie figlie un futuro brillante e luminoso, avrei voluto dargli tutto quello di cui avevano bisogno, le necessità primarie per vivere, la sicurezza, la salute, l’educazione.
Purtroppo non sono mai riuscita a mandarle a scuola. Quattro di loro si sono sposate ragazzine, come me. Recentemente il padrone della terra ci ha cacciato via dicendo che eravamo tutte donne e non c’era un uomo che fosse responsabile di noi nel lavoro. Non voleva affidare la sua terra a delle donne.
Adesso vuole sposare una delle miei figlie ma io non sono d’accordo, non voglio, soprattutto perché è molto più vecchio di lei. So che i figli che ha avuto dalla prima moglie sono più grandi di mia figlia. Non voglio che la mia piccola diventi una vittima di violenza come me.

Recentemente mio marito è morto di Covid. Io e le mie tre figlie siamo rimaste sole.

Ho cercato in tutti i modi un lavoro ma non è facile per una donna sola con tre figlie. Ho dovuto scappare da alcuni luoghi di lavoro per le minacce e i pericoli che ci circondavano.

Tutto quello che desidero è che le mie figlie possano studiare e costruirsi una vita sicura e libera.

Per me non è affatto una vergogna lavorare, ma devo trovare un lavoro che possa essere sicuro senza minacce o pericoli. In una situazione come la mia, gli uomini si sentono liberi di approfittare di noi ed è molto difficile difendersi, siamo 4 donne.

Quando ero giovane ero una donna molto forte, una contadina e lavoravo sodo, ma ora sono diventata più vecchia e debole e la mia difficile vita mi ha consumato il corpo e l’anima. Sono diventata incapace di procurare sicurezza e rifugio per i mei figli e per questo ho bisogno di aiuto.

Aggiornamenti

L’aiuto immediato le permetterà di vivere più tranquilla e rilassarsi e Hawca cercherà di trovare un lavoro per la famiglia in un posto sicuro e lontano da pericoli di violenza.

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Una storia del progetto Vite preziose.

La fotografia è di solo carattere grafico e non rappresenta la donna protagonista della storia. Data la attuale situazione in Afghanistan, per evitare l’identificazione delle donne i nomi sono stati modificati, così come i luoghi dove si svolgono i fatti.

Shogofa

Mi chiamo Shogofa, ho 18 anni e sono di Mazar-e-Sharif.
Mia madre è morta presto, non la ricordo. Sono cresciuta con due matrigne, le mogli di Rozi Bay, mio padre. Un lavoro vero non l’ha mai trovato. Il problema è mangiare tutti, tutti i giorni, almeno una volta. Non abbiamo una casa, abbiamo vissuto sempre sotto una tenda. Noi e i galli. Prima devono mangiare loro. Sono la nostra fonte di sopravvivenza. Dicono che i galli cantino. A me sembra che urlino. Sono la passione di Rozi Bay e il suo “lavoro”. Belli, superbi, rabbiosi.
Così devono essere per combattere. Penso che mio padre e gli altri uomini gli somiglino. Quasi tutti. Anwar no, è diverso. I combattimenti si fanno davanti alla nostra “casa”. Il giorno delle scommesse mio padre è nervoso. Gli uomini si riuniscono tutti insieme, urlano, incitano. I galli saltano, colpiscono, le penne volano. O uccidono o muoiono. Qualche volta sono feriti e dobbiamo curarli. Il sangue dei galli schizza, rimane nella polvere, l’odore c’è sempre.
C’è confusione. E allora io posso parlare con Anwar, dietro la “casa”. Anche noi donne dobbiamo fare qualcosa. Mio padre ci manda a mendicare per le strade. Le mie madri lo fanno da tempo, sono abituate.
A me non piace, lo odio. Sembra facile. Le madri dicono che bisogna richiamare l’attenzione, lamentarsi. Io non ci riesco, mi vergogno. Dicono anche che ogni tanto quando un uomo si ferma si deve sollevare il burka, farsi vedere. Se ti vede i soldi te li da, tu sei bella.
Ma gli uomini mi fanno paura, dicono cose brutte, pronti a beccare come i galli. Anche Anwar è arrivato con i galli, ne ha venduto uno a mio padre. Anwar è come una porta, aperta verso un’altra vita.
Perché un’altra vita può esserci. Senza galli, senza rabbia, senza fame. Lui non vuole che io vada a mendicare. Lui lavorerà, ci sposeremo. Sarà diverso. È gentile e ha il sorriso più bello del mondo. Ma mio padre non vuole. Ha dei progetti su di me, ne parla con gli uomini, tratta. Anwar dice che non si può più aspettare che mi venda, come i galli. Abbiamo deciso il giorno, il combattimento più importante del mese.
Nessuno badava a noi, ce ne siamo andati. Il burka, un fagotto, un po’ di pane e il sorriso di Anwar vicino. Siamo arrivati a Kabul. Siamo andati subito al Tribunale, per sposarci. Stava per finire tutto bene quando sono arrivati loro dal fondo del corridoio, correvano, mio padre e la matrigna più vecchia. Hanno cominciato a picchiarmi, sembravano impazziti. Dovevo ubbidire e tornare subito a casa, doveva sposarmi con chi diceva lui. Anwar non ha soldi da pagare per me.
Rozi gridava come un pazzo, agitava le braccia. Il giudice era calmo, un’altra specie di uomo. Li ha fermati. Mi ha chiesto cosa volevo fare. Ho detto che non sarei mai tornata a casa. Mai. Volevo sposare Anwar e basta. Lui li ha mandati via. Il giudice mi ha mandato allo shelter di Hawca. Aspetto la nuova vita ma non abbiamo niente per cominciare.
Vorrei sposarmi e anche aiutare la mia famiglia, che le madri e le mie sorelle non fossero più costrette a mendicare, a umiliarsi, a vivere del sangue dei galli. Aspetto.

Aggiornamenti

Shogofa rimane più di due anni nella Casa Protetta, sognando il suo amore e il giorno in cui potrà sposarlo. La famiglia la minaccia e minaccia anche il ragazzo. Sono scappati insieme e questo è un grave reato in Afghanistan. È la Corte che deve decidere se lo può sposare.
Cristina e Roberto la sostengono e lei continua a sperare. Finalmente la Corte dà il sospirato permesso e, nonostante le minacce del padre che assicura che li ucciderà entrambi, i due ragazzi, con il coraggio dell’amore, si sposano e vanno a vivere in un luogo nascosto e protetto con l’aiuto di Hawca. Il marito trova un lavoro e vivono felici insieme con due figli. La ragazza esce dal progetto per lasciare, come lei stessa chiede, il posto a chi ha più bisogno di lei.
Due anni fa, Shogofa chiede di nuovo aiuto ad Hawca. E lo trova con Rita e Luigi. È in gravi difficoltà economiche. Sono costretti a spostarsi spesso perché il padre non ha smesso di cercarli. Qualche mese fa sono scappati da un villaggio, vicino a Mazar-e-Sharif, che era diventato troppo pericoloso. In queste condizioni è difficile mantenersi un lavoro e Shogofa è di nuovo con noi.

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Una storia del progetto Vite preziose.

La fotografia è di solo carattere grafico e non rappresenta la donna protagonista della storia. Data la attuale situazione in Afghanistan, per evitare l’identificazione delle donne i nomi sono stati modificati, così come i luoghi dove si svolgono i fatti.

 

Shahzadar

Ho 55 anni, tanti, troppi. Sono di un villaggio nella provincia di Farah. Mio padre mi ha sposata a 13 anni con quest’uomo che si è preso la mia vita.
Da quando sono entrata in questa famiglia, se così si può chiamare, mi hanno sempre picchiata. Fa parte delle mie giornate da anni, a volte non mi danno da mangiare.
Ma non è questo l’importante. L’importante sono i miei figli. Sono arrivati così, come Dio li ha mandati, uno dietro l’altro.
Sono dieci adesso, la maggior parte femmine, è questo il problema. Lui è diventato violento anche con loro.
La mia figlia maggiore, a 13 anni, non ce l’ha fatta più. Non voleva sposarsi, non voleva vivere come me. Non voleva vivere. Si è uccisa.
È per questo che ho paura. Adesso, qui allo shelter, si prendono cura di me, ho molti problemi, sono malata. Qui sono al sicuro, per la prima volta in vita mia, ma non ci posso stare, non sono tranquilla. Come faccio a stare qui con le mie due figlie più piccole, sapendo che le altre sono in quella casa da sole. Senza di me, lui se la prenderà con loro. Non posso permetterlo, devo tornare. Non so davvero cosa fare…

Aggiornamenti

Shahzadar trova rifugio nella Casa Protetta di Hawca con le figlie più piccole.
Qui cercano di curare i suoi numerosi problemi di salute ma Shahzadar non vuole restarci, ha paura per le figlie rimaste a casa. Nel frattempo le avvocate di Hawca prendono accordi con la polizia locale perché sorveglino il marito. Dopo un lungo lavoro di mediazione ritorna a casa, dalle sue figlie.
Intanto arriva l’aiuto di Emiliana, Luciana e Serenella.
Shahzadar può curarsi con i suoi soldi e mandare a scuola una delle sue figlie. Come spesso succede, i soldi diventano un’arma di ricatto nelle mani delle donne. Entrare nel progetto le cambia la vita. Il marito si comporta bene perché teme di perdere il denaro che li fa vivere meglio e ha paura che le assistenti di Hawca, che la vanno a trovare regolarmente, l’aiutino a divorziare. Shahzadar racconta il suo felice stupore nel vedere delle persone che vengono da lei e s’informano della sua salute e altre amiche lontane che le danno una mano, senza nemmeno conoscerla. Non le era mai successo in vita sua. Le cose continuano a migliorare, lentamente.
Shahzadar trova un piccolo lavoro e riesce a mandare a scuola altre figlie, il suo desiderio più grande. Il piccolo lavoro cresce, ora Shahzadar è una brava sarta e tutto il quartiere si fa cucire i vestiti da lei. Tutte le figlie vanno a scuola. Il marito se ne sta buono buono, sa bene che deve la sua sussistenza alla moglie.
Decide, quindi, di uscire dal progetto.
Ecco come saluta le sue sponsor:
’Grazie con tutto il cuore per avermi aiutato per tanto tempo. Onestamente, io sarei molto felice se tu potessi aiutare un’altra donna vittima di violenza e di abbandono, invece di me.
Io, sono diventata una brava sarta e guadagno facendo vestiti per il mio quartiere, la mia vita è migliorata molto.
Grazie al tuo sostegno e alla tua generosità, ho avuto speranza e ce l’ho fatta a stare sulle mie gambe e a essere autonoma. Grazie a te sono diventata una donna forte’.

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Una storia del progetto Vite preziose.

La fotografia è di solo carattere grafico e non rappresenta la donna protagonista della storia. Data la attuale situazione in Afghanistan, per evitare l’identificazione delle donne i nomi sono stati modificati, così come i luoghi dove si svolgono i fatti.