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Autore: Patrizia Fabbri

Rompiamo l’isolamento: è il silenzio che uccide

11-12 maggio con i 7000 in sciopero della fame. Il CISDA aderisce.

In questo momento è in corso uno sciopero della fame di massa: nelle carceri della Turchia e non solo circa 7000 persone si trovano in sciopero della fame a tempo indeterminato, 8 persone hanno già posto fine alla loro vita per protesta, 7 delle quali in carcere. La richiesta è la fine dell’isolamento di Abdullah Öcalan: sequestrato in Kenia a seguito di un complotto internazionale nel febbraio del 1999, dall’aprile 2015 si trova in isolamento totale nell’isola prigione di Imrali. Questo isolamento è una tortura, una violazione dei diritti umani e delle leggi internazionali e nazionali.

La prima a iniziare lo sciopero della fame per rompere l’isolamento è stata una donna: Leyla Guven, deputata dell’HDP, in sciopero dal 7 novembre 2018; a lei dal mese di dicembre 2018 in avanti si sono unit* 14 attivist* curd* a Strasburgo, militanti in Iraq, Regno Unito, Canada, Germania, Francia. A partire dal 21 marzo, giorno del Newroz (capodanno curdo), Erol Aydemir, un giovane rifugiato curdo, ha iniziato lo stesso sciopero della fame a tempo indeterminato a Cagliari e prosegue la sua resistenza nel Centro Socio-Culturale Curdo Ararat a Roma.

All’interno del conflitto in Mesopotamia, Öcalan è una voce coerente che chiede la pace; Leyla Guven, la donna che diede inizio a questa protesta, dichiarò: “le politiche di Isolamento verso Öcalan sono imposte su un popolo intero attraverso la sua persona”.

Isolare Öcalan significa isolare colui che ha dato origine e forza al movimento di liberazione curdo, e quindi si tratta di un attacco al movimento di liberazione tutto. Isolare Öcalan significa isolare colui che ha ideato il confederalismo democratico, e quindi significa allontanare queste idee da chi in tutto il mondo le vuole mettere in pratica. Significa anche un attacco diretto alla rivoluzione del Rojava, sotto la costante minaccia delle potenze regionali e globali. Portare solidarietà a questa protesta significa combattere il fascismo di Erdoğan, significa porre le basi per costruire assieme un’alternativa sociale e globale al fascismo.
Öcalan considera essenziale la liberazione della donna per la liberazione della società, essere solidali con questa lotta significa anche schierarsi attivamente per la liberazione delle donne e dei generi oppressi.

Ricordiamo che questo movimento di protesta e resistenza è iniziato da una donna!

Per questo, lo sciopero della fame iniziato da Leyla Guven ci riguarda tutte e tutti: invitiamo tutte e tutti a una giornata di azione nazionale l’11-12 maggio. Invitiamo ciascun collettivo, gruppo, associazione, struttura, persona ecc… a prendere parola con i mezzi e modi che più considera adatti. I coinvolgimenti anche sul nostro territorio non mancano: la Turchia di Erdogan riceve fondi dall’Unione Europea per tenere lontani i migranti siriani; la Turchia si addestra nelle nostre stesse basi e acquista armi della Finmeccanica/Leonardo. I nostri media sono in silenzio – ma come si può rimanere in silenzio di fronte a 7000 persone in sciopero della fame a oltranza? Il CPT (Comitato europeo per la Prevenzione della Tortura) non interviene concretamente, né lo fanno le istituzioni nazionali ed europee. Addirittura Amnesty International, che si proclama così indipendente e in difesa dei diritti umani, resta in silenzio.

L’Italia inoltre sta mettendo sotto accusa coloro che hanno sostenuto attivamente la rivoluzione; tra Torino e Nuoro sei persone rischiano la misura di sorveglianza speciale (che comporta una grave limitazione delle libertà personali, prima tra tutte quella di movimento e di riunione) in quanto soggetti socialmente pericolosi, non perché hanno commesso crimini ma perché hanno pubblicamente dichiarato la loro partecipazione e sostegno alla rivoluzione siriana. Questo però non è solo il paese che vende elicotteri da guerra alla Turchia e mette sotto processo la solidarietà internazionale, è anche il Paese d’origine di Lorenzo Orsetti, partigiano d’oggi che per la rivoluzione confederale in Siria ha combattuto fino al 18 marzo, giorno in cui è caduto insieme ai suoi compagni in una delle ultime battaglie contro l’ISIS.
Ascoltare e diffondere la voce di chi è in sciopero oggi è uno dei tanti modi con cui vogliamo prenderci la responsabilità della sua memoria e dell’importante compito per cui ha vissuto e che oggi ci ha lasciato; sentire che ogni popolo che lotta per la libertà è il nostro popolo, scegliere da che parte stare ovunque ci troviamo.

La forma con cui aderire alla giornata dipenderà dalla fantasia di chi vive le realtà locali e da cosa ciascun gruppo considererà più efficace. Dibattiti, striscioni, foto… chi più ne ha più ne metta!

Inoltre vorremmo che l’11 maggio non fosse una data isolata ma chiediamo che si arrivi a quel giorno con un crescendo di iniziative e di prese di posizione. Tra queste, alcune iniziative sono già iniziate, tra cui per esempio lo sciopero della fame a staffetta, a cui partecipano donne e uomini in tutta Italia e nell’ambito della quale è nata un’importante iniziativa collettiva a Firenze il 23 e 24 aprile; e la campagna #7000ControLisolamento, che invita ad appendere striscioni o cartelli visibili in solidarietà con lo sciopero della fame. Vi invitiamo a partecipare ad entrambe o comunque a darne visibilità, ad andare a visitare Erol in sciopero della fame a Roma; a continuare fino all’11 e oltre, a fare pressione sulle istituzioni perché si prenda posizione; ad informare, a evidenziare contraddizioni, ad essere visibili in ogni modo.

La lotta di Leyla Guven è la nostra lotta:
ROMPIAMO L’ISOLAMENTO!
Rete jin
Uiki Onlus
Retekurdistan Italia
ex-combattenti YPG/YPJ

Per adesioni scrivere a entrambi gli indirizzi:
solidarietadonnekurde@gmail.com – jin.mediaitalia@gmail.com

Arrivederci Padre Maurizio

La luminosa vita di Padre Maurizio si è spenta ieri. Ma la sua presenza resterà accanto a chi lo ha conosciuto, come noi, nelle parole, nell’ironia, nei gesti di affetto, nell’accoglienza, nelle infinite opere che con il suo aiuto hanno reso migliore la vita di tanti afghani.

Un uomo che non doveva abbattere muri perché non ne aveva mai costruiti. Il suo discrimine non era la religione ma l’umanità. La sua legge l’amore e la generosità. Le divisioni confessionali e i pregiudizi non lo sfioravano nemmeno.

Una volta ci disse, sorridendo: “Ci sono anche persone che sono cristiane a loro insaputa.”

Andarlo a trovare, insieme alle nostre e sue amiche afghane, era sempre molto emozionante. Si faceva raccontare con gioia i progressi, le speranze, le vittorie che i progetti da lui sostenuti facevano fiorire, in mezzo alla guerra, nelle quotidiane battaglie per la vita degli afghani.

Ne condivideva gli enormi problemi, con la sua partecipazione attenta e amorevole, e sosteneva la lotta di donne, come Rawa, che combattono per i diritti umani contro la guerra e l’oscurità del fondamentalismo, permettendo la nascita di ospedali, la cura per le persone, l’istruzione.

Sempre pronto a tendere la mano, anche oltre le richieste, alle piccole e grandi esigenze di chi ha bisogno di aiuto. La sua disponibilità, che non perdeva mai, nemmeno nella malattia, la leggerezza dell’ironia, ci ha accompagnato per dieci anni.

È stato per noi un onore avere la sua amicizia e siamo fiere e felici di averlo conosciuto e di aver fatto tanta strada insieme a una persona così straordinaria.

Con affetto, CISDA (Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane).

Per Leyla Güven, una di noi

Comunicato del CISDA, (Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane) a sostegno di Leyla Guven, 12 aprile 2019

Leyla, deputata curda dell’HDP, è in sciopero della fame a tempo indeterminato dall’8 novembre 2018, per chiedere la fine dell’isolamento nel carcere di Imrali e i diritti legali per Abdullah Öcalan, leader riconosciuto e amato dal popolo curdo.
Se la richiesta di Leyla avesse una risposta, significherebbe anche la fine dell’isolamento di tutto il popolo curdo. E questo è ciò che il dittatore fascista Erdogan non vuole.

Dopo Leyla, migliaia di prigionieri curdi detenuti nelle carceri turche hanno iniziato uno sciopero della fame a tempo indeterminato. E con loro molti curdi in diverse città europee stanno compiendo lo stesso gesto estremo.

L’Unione Europea ha voltato la testa dall’altra parte. In questi ultimi giorni i prigionieri e le loro famiglie hanno fatto appelli e inviato lettere al Presidente e al Ministro della giustizia turchi, al Comitato europeo per la prevenzione della tortura, al Consiglio europeo, a diversi membri del Parlamento Europeo. Sono stati scritti migliaia di appelli e messaggi di solidarietà a Leyla e a chi ha deciso di fare il suo stesso passo da parte di associazioni e persone singole.

Nel frattempo, 8 prigionieri hanno perso la vita per chiedere giustizia. Le condizioni di chi è in sciopero della fame in carcere sono inumane: sono tenuti in isolamento, non possono comunicare con l’esterno, non possono ricevere né visite né telefonate dai loro parenti, non ricevono quantità sufficienti di sale, zucchero, limone e succo di frutta.

Chiediamo che venga posta finalmente l’attenzione dovuta alla situazione e a coloro che stanno mettendo a repentaglio la loro vita per chiedere semplicemente giustizia. Chiediamo che la Turchia, un paese membro della Nato e che l’Europa ha pagato profumatamente per fermare i profughi siriani al di là dei suoi confini, rispetti i diritti umani e smetta di praticare forme di tortura all’interno delle sue carceri.

Ci stringiamo in solidarietà con Leyla, con tutti i compagni e le compagne in sciopero della fame.

LA RESISTENZA È VITA!

Il sogno del guerriero – A Riace riparte la speranza

“Il sogno del guerriero” è il nuovo murales dipinto dall’artista peruviano Carlos Atoche sul muro della scuola primaria Istituto Comprensivo Riace Monasterace di questo piccolo borgo della Locride, noto per essere stato un modello esemplare di accoglienza e di integrazione per i rifugiati che scappavano dalle guerre. Quest’opera straordinaria di 60 metri quadrati, visibile anche dalla piazza centrale del borgo, è stata sostenuta dal Comitato Riace Premio Nobel per la Pace e portata a termine grazie all’accoglienza di Riace e ai piccoli contributi donati attraverso l’appello pubblicato sulla pagina Facebook della Campagna.

Il murales raffigura un guerriero mitologico che esprime con la forza dei suoi tratti l’idea dell’accoglienza e del rispetto per lo straniero ed il viandante propria della mitologia greca, trapiantatasi nella Magna Grecia. Un guerriero forte che ama la sua gente ed il suo paese e che si batte per non farlo cadere nell’abbandono e per non farlo morire accogliendo chi scappa dall’inferno e sogna una nuova vita.

Quel guerriero dipinto con grande forza da Carlos con le sembianze e la possanza di uno dei bronzi, riemersi a distanza di secoli dal mare di Riace come per volere e disegno del “fato”, in realtà non è mai andato via. Come l’idea di accoglienza e di ospitalità che è rimasta viva attraverso i secoli nelle popolazioni dell’ex Magna Grecia e dell’intera Calabria nonostante le sue stridenti contraddizioni.

Il dipinto è un omaggio a Mimmo Lucano che è stato capace di tradurre il sogno in realtà trasformando il comune di Riace in un’esperienza unica di accoglienza e di rispetto per gli altri. Quel sogno che un pensiero politico di segno opposto, fondato sull’egoismo, la paura e la criminalizzazione della solidarietà sta tentando di soffocare, strozzando insieme le speranze di chi fugge dall’orrore e quelle di un intero paese che ha dato vita ad un percorso di speranza e di rinascita nel nome di una nuova Umanità.

Mimmo, senza processo, è confinato in esilio, come lo sono sempre stati nella storia i combattenti della libertà, ma le sue idee non sono andate via e l’arte di Carlos ce lo ricorda. Mimmo tornerà anche materialmente alla sua Riace diventata grazie a lui di tutti quelli e quelle che a Riace e nel mondo hanno lavorato e continuano a lavorare con lui, un’esemplare costruzione collettiva, di una migliore Umanità e di un’idea di sviluppo locale rispettosa di tutti gli esseri viventi e della madre Terra.

Il paese ha accolto con grande entusiasmo il nuovo murales, in molti sono venuti a complimentarsi con Carlos per il suo dipinto e hanno lasciato un messaggio di solidarietà e di vicinanza a Mimmo Lucano. Insieme a Carlos in questi giorni c’erano anche Emanuela Robustelli, curatrice d’arte che ha seguito tutta l’operazione assistendo l’artista Atoche e Maura Crudeli, presidente di Aiea Onlus, una delle associazioni promotrici del Comitato Premio Nobel per la Pace, che ha documentato la realizzazione del murales e curato la parte produttiva e logistica dell’opera.

Carlos Atoche ha incontrato Mimmo Lucano a Caulonia e racconta così la sua breve ma intensa esperienza a Riace: “È la prima volta che visito il paese e la mia prima impressione è stata quella di un borgo molto ordinato. Nell’aria c’è la sensazione di un luogo nel quale una volta c’era tanto movimento che ormai non c’è più: le strade e le piazze sono vuote, i negozi chiusi. Avvicinando il viso alle vetrine, ho intravisto molti spazi vuoti e sale dismesse. Ma questo paese, per quelli come me, che credono nell’inclusione come risposta al fenomeno dell’immigrazione in Italia, è diventato un simbolo, una speranza. Questo murales vuole essere fuoco che tiene accesa la scintilla del cambiamento.”

Mimmo Lucano guardando la foto del murales “La letteratura, la musica, l’arte sono espressioni della nostra anima, la bellezza della vita…la prima cosa che mi ha colpito quando ho visto la foto di questo murales è la luce. Mi sono immaginato che dalla piazza di Riace, dalla ringhiera dove tante volte mi sono appoggiato per guardare il mare, adesso gli occhi andranno ad incrociare questo spazio dove c’è l’anima di qualcuno che ha concepito questa cosa. Ho pensato a come emergesse questa figura che racconta la storia della nostra comunità, la figura della Magna Grecia, i bronzi di Riace.

A Riace altri artisti hanno raccontato sui muri la loro idea di accoglienza e hanno ricordato figure importanti che hanno lottato per la pace, per i diritti umani come Peppino Impastato o le Madri di Plaza de Mayo. Credo che sia un’aspirazione di tutti gli esseri umani immaginare un mondo di pace, un mondo senza confini, senza barriere. L’attuale periodo ci mette tanta tristezza perché ci vogliono far passare come ideali esattamente le cose opposte: chiudere i porti, rafforzare i confini, mettere i fili spinati, alzare i muri…e invece io ho un’altra utopia, io vorrei che non esistessero i confini e neanche i passaporti, ma a cosa servono i passaporti?!?

Ogni essere umano deve essere libero nel mondo, perché il mondo ha uno stesso cielo, uno stesso mare, una stessa terra per tutti. Ringrazio di cuore Carlos Atoche per questo murales, il suo dipinto ha donato bellezza e speranza alla nostra Riace”. E chiude con un appello “L’arte può esser uno slancio di utopia! Tutti gli artisti che vogliono venire a Riace a lasciare ognuno un loro piccolo segno sono i benvenuti. Anche Wim Wenders mi ha promesso che tornerà e questa cosa mi riempe d’entusiasmo, sulle ali di una nuova Calabria…!”

Delegazione CISDA in Afghanistan, marzo 2019 – Report

Kabul, per chi come noi del CISDA vi si reca ogni anno, si presenta sempre allo stesso modo: caotica, polverosa, con un traffico privo di regole, le fogne a cielo aperto, tossicodipendenti a ogni angolo, attraversata da un’umanità ferita, che fatica per fare qualsiasi cosa, che esce di casa la mattina senza sapere se la sera tornerà. Ancora restano dentro la città almeno 3 campi profughi; in quello che abbiamo avuto modo di visitare, che è lì da 12 anni, vivono 7000 persone nelle case di fango o nelle tende, senza acqua né luce, dove decine di bambini malvestiti e senza scarpe giocano nel fango e nelle fogne a cielo aperto.
Persone a cui il governo non ha mai dato alcuna risposta e a cui è stato chiesto di andarsene, senza offrire alcuna alternativa.

delegazione CISDA marzo 2019

Gli attentati sul Nawroz

Gli attentati sono continui; anche durante la nostra breve permanenza ce ne sono stati due ai danni della comunità hazara, che stava festeggiando il Nawroz. Anche festeggiare il capodanno, in Afghanistan, è diventato un atto rivoluzionario, che talebani, Daesh e altri gruppi di terroristi ritengono sia giusto punire con le bombe.
E gli attentati producono molte più vittime civili di quante il governo normalmente dichiari pubblicamente, anche grazie a media completamente asserviti: il numero viene solitamente diviso per quattro, per far apparire la situazione del paese meno grave di quanto sia, per far credere che tutto sta andando in direzione di una risoluzione pacifica.
E vengono nascoste anche le perdite delle truppe afghane, che hanno raggiunto, in questo colpevole silenzio, il numero di 45.000 soltanto nello scorso anno.

A Kabul, prima dei quarant’anni di guerre che l’hanno attraversata, abitavano un milione e mezzo di persone, ora gli abitanti sono sette milioni. Scappano dai combattimenti che non cessano in ogni provincia del paese, cercano qualcosa da fare per sfamare la famiglia, un riparo.

È stato un inverno gelido, che non è ancora finito – dal fango che ricopre le strade emergono ancora mucchi di neve ghiacciati e la temperatura notturna scende alcuni gradi sotto lo zero – e le persone prive di mezzi (la gran parte) hanno bruciato qualsiasi cosa per scaldarsi, rendendo l’aria ancora più irrespirabile del solito.

 

La visita all’orfanatrofio AFCECO

Il nostro viaggio di solidarietà comincia con una visita all’orfanotrofio di AFCECO, che ha deciso di dare a 25 nuovi bambini e bambine che provengono da contesti di estrema povertà, violenza e da ogni parte del paese la possibilità di crescere in un ambiente sicuro, in cui l’istruzione e la salute siano messe al primo posto, dove si lavora per superare le divisioni etniche e linguistiche. Le bambine e le ragazze provano un attan, il ballo tradizionale afghano, nei loro costumi colorati; molte delle nuove arrivate sono prese dalla danza, mentre alcune, più timide, osservano in disparte. Tutte aspettano il rientro delle ragazze di Zohra, la prima orchestra afghana tutta femminile formatasi proprio all’orfanotrofio Mehan, in Svezia e Inghilterra per un tour di concerti.

delegazione CISDA marzo 2019

delegazione CISDA marzo 2019

La situazione politica

La situazione politica è ben diversa da come viene dipinta dai nostri media, ce la raccontano tutti i nostri interlocutori e interlocutrici: Malalai Joya, Bilquis Roshan, una senatrice di Farah che è stata eletta nelle due precedenti elezioni e che ha avuto una valanga di voti anche nella tornata elettorale dello scorso ottobre, le compagne di Rawa, Selay Ghaffar insieme ai compagni e alle compagne di Hambastagi.

Le elezioni parlamentari dello scorso ottobre non hanno portato a nulla: si sono tenute come sempre all’insegna dei brogli e dei ricatti, in un paese in guerra permanente e occupato dagli USA da quasi vent’anni, e in 15 provincie (l’equivalente delle nostre regioni) non sono stati in grado di nominare gli eletti, con il risultato che il nuovo parlamento, che doveva aprire i lavori il 12 marzo, non verrà varato. E il vecchio parlamento non è più in carica. Un buco legislativo di mesi, considerando che vorrebbero ripetere le elezioni parlamentari a luglio, quando gli afghani dovrebbero tornare alle urne per eleggere il nuovo presidente.

“Il problema”, ci dice Bilquis, “è che i governi occidentali in Afghanistan non hanno mai voluto né un governo né un parlamento forti e indipendenti e hanno interesse a mantenere il paese instabile, per poter continuare a fare i loro interessi, con la scusa della sicurezza”.

Infatti, più o meno dietro le quinte, gli USA continuano a tirare le fila dei loro burattini e presto decideranno chi sarà il nuovo presidente, che dovrà essere, naturalmente, asservito ai loro voleri… Gli USA, ci dicono tutti, hanno creato un governo mafioso e servo, grazie a cui riescono controllare un territorio per loro fondamentale dal punto di vista strategico e per le sue risorse minerarie.

delegazione CISDA marzo 2019

Le “trattative di pace” con i talebani. Più pericolose della guerra

Nessuno, nel paese, prende sul serio le “trattative di pace” con talebani, che non sono un gruppo monolitico come un tempo, ma divisi per bande: tra queste, c’è chi tratta con gli USA, chi con i russi, chi con gli iraniani, chi con il Pakistan, chi con la Cina. I sauditi hanno avviato dei progetti milionari a Farah e a Herat; un modo per tenere sotto controllo da vicino l’Iran, loro nemico giurato. Un altro tassello di questo scacchiere di guerra senza fine.

“Le trattative con i talebani sono una situazione ancora più pericolosa della guerra”, ci dice Malalai, ancora costretta in clandestinità, “perché potrebbe portare a nuove guerre civili; inoltre sull’altare della cosiddetta ‘pace’ verranno sacrificati i diritti umani e i diritti delle donne, in maniera legale. Una falsa pace senza giustizia, che non porterà ad alcun esito positivo”.

La commemorazione di Farkhunda

Con Hambastagi abbiamo partecipato a un evento di piazza per commemorare Farkhunda, barbaramente uccisa 4 anni fa davanti a una moschea nel centro di Kabul con l’accusa falsa di aver bruciato una copia del Corano. La partecipazione è alta, anche se la polizia, con il pretesto della sicurezza, impedisce a molti accedere alla zona in cui si svolge l’evento.

Abbiamo parlato con Najla Rahil, l’avvocata di Farkhunda che fa parte dell’associazione indipendente degli avvocati afghani. Il caso in questo momento è stato chiuso con la condanna a soli 16 anni di due persone, che non sono le principali responsabili dell’omicidio; a quanto pare, i 3 veri responsabili sono stati liberati, altri sono scappati. Najla ha chiesto un processo di appello, che difficilmente verrà concesso. Il processo sarà riaperto solo se verranno catturati i fuggiaschi, ma le speranze non sono molte.

Hambastagi ha ora 43.000 iscritti in tutte le provincie del paese, un numero davvero considerevole, se si pensa alle condizioni in cui sono costretti a lavorare: hanno un comitato politico, uno organizzativo, una commissione donne (a cui partecipano i maschi, anche se le donne tengono per sé degli spazi autonomi), una commissione di insegnanti. A ciascuno è chiesto di contribuire economicamente alla vita del partito e ciascuno deve mettersi al servizio della sua comunità, nell’ambito delle sue competenze; insegnanti, medici, architetti, fotografi, musicisti, ingegneri… tutti devono impegnarsi nel lavoro di base.

Parlano di voler fare una rivoluzione, specificando che per loro non significa rivoluzione armata “perché”, dicono, “la gente è stanca di guerra”. Rivoluzione per loro è usare un linguaggio diretto, che definisca i criminali di guerra, i corrotti, i trafficanti di droga per quello che sono e non persone “che hanno fatto degli errori”. Rivoluzione è anche portare scuole, cultura, consapevolezza politica tra le persone, per potersi unire all’opposizione nel paese. Rivoluzione è denuncia dei crimini e dell’occupazione, che fanno puntualmente con le loro iniziative pubbliche.

Selay Ghaffar, la portavoce, che spesso viene chiamata in televisione per confrontarsi con i peggiori figuri del paese, è seguitissima e molto amata; dopo l’evento per Farkhunda aveva 10 giornalisti intorno a sé e la sera è stata chiamata a fare delle dichiarazioni in una trasmissione. La sua vita è difficile, e le misure di sicurezza intorno a lei sono strettissime, ma ha deciso che vale la pena rischiare anche la vita per poter cambiare le cose e certamente non si lascerà intimidire dalle minacce.

Il nostro viaggio si chiude in un villaggio nel sud est del paese, dove, grazie alla volontà dei capi tribù locali e alla solidarietà internazionale stanno arrivando famiglie da diverse provincie per trovare un luogo in cui vivere, dove è sorta una scuola per 150 bambini e 40 donne che si stanno alfabetizzando e dove abbiamo posto la prima pietra per una clinica che offrirà assistenza sanitaria gratuita e parti sicuri per le donne.

La dimostrazione tangibile di come con poco sia possibile fare molto.

 

I bimbi dell’orfanotrofio di Afceco festeggiano con la delegazione del CISDA a Kabul

Ultima sera a Kabul della Delegazione CISDA in Afghanistan con le ragazze e i ragazzi dell’orfanotrofio che ci ha ospitato… canti e balli per noi. Se volete aiutare questi bambini cliccate qui.

AFCECO è un’organizzazione no-profit fondata nel 2004 e riconosciuta dal governo Afghano nel 2008.

Andeisha Farid ha fondato Afceco nei campi profughi in Pakistan con l’obbiettivo di dare una possibilità alla nuova generazione di diventare adulti propositivi e portatori di cambiamento nel panorama della politica e della società afghana. Cresciuta anch’essa durante la guerra e avendo passato l’infanzia nei campi profughi del Pakistan, ha aperto il primo orfanotrofio proprio lì, per poi rientrare e proseguire con questo progetto in Afghanistan, nel 2007.

orfanotrofio Afghanistan

Il suo sogno per il futuro dei bambini afghani non era quello di salvarne semplicemente dalla strada il più possibile bensì creare un ambiente dove i bambini potessero crescere come in una grande famiglia ed essere seguiti in tutti gli aspetti necessari alla loro crescita così da poter aspirare a divenire il futuro del loro paese.

Gli orfanotrofi offrono un luogo sicuro e sereno dove i bambini si possono esprimere liberamente e crescono educati ai valori della tolleranza, del rispetto delle reciproche differenze e dell’uguaglianza di genere. Oltre a questo, nelle intenzioni della fondatrice, dovevano essere rispettati e rafforzati i rapporti con i villaggi d’origine dei bambini ospitati, sia con la loro famiglia che con la comunità più possibile allargata.
I bambini che vivono negli orfanotrofi di Afceco, pertanto, non sono necessariamente orfani e infatti la maggior parte di loro ha dei genitori che non possono prendersi cura di loro e della loro istruzione per troppa povertà o perché vivono in aree del paese dove la vita è troppo pericolosa.

Il fatto che abbiano delle famiglie e delle comunità di riferimento è molto importante perché i bambini fanno periodicamente ritorno a casa e possono far partecipare la famiglia e la comunità circostante del cambiamento e dell’importanza dell’istruzione. Soprattutto quando il ciclo di studi terminerà, l’aver mantenuto rapporti con la famiglia di origine aiuta a poter tornare nella propria provincia e ad essere proprio lì un elemento di cambiamento del quale tutta la comunità potrà fruire. Per questo motivo i bambini che crescono negli orfanotrofi Afceco vengono da tutte le parti dell’Afghanistan, ma vivono in pace qui, senza distinzioni etniche di nessun tipo.

orfanotrofio Afghanistan

Fortunatamente Andeisha entrò in contatto con CharityHelp International, un’associazione americana non governativa che, con il suo supporto al programma delle sponsorizzazioni dei bambini accolti nell’orfanotrofio, ha permesso la fondazione di diversi orfanotrofi in tutto il paese; dopo varie vicissitudini ora ne rimangono due che ospitano circa 150 bambini.

Gli orfanotrofi Afceco mirano a creare un ambiente veramente democratico al cui centro sia l’uguaglianza e le nuove possibilità di crescita e di presa di coscienza delle ragazze in modo che un giorno possano prendere parte al miglioramento della società che le circonda. Questo passa anche attraverso la liberazione dei ragazzi dal giogo della mentalità maschilista che ha afflitto, e continua a farlo, il paese per molti anni.

Tutto questo è ottenuto principalmente creando un ambiente familiare e confortevole per i bambini e permettendo loro di seguire serenamente le lezioni scolastiche, ma anche attraverso la pratica dello sport (abbiamo programmi di calcio, karate e ginnastica, sia maschili che femminili), attraverso la musica (abbiamo un programma di musica che permette ai nostri ragazzi di frequentare l’Afghan National Institute of Music e di avere spazi all’interno dell’orfanotrofio per esercitarsi), l’arte e altri progetti in essere.