Per donne e bambini l’Afghanistan è il peggior paese dove vivere. Per il Corona virus è senz’altro il migliore nel quale prosperare. Arginarlo e difendere la popolazione è stato impossibile. Gli alleati del virus sono molti, gli ostacoli opposti pochissimi. La popolazione è in larga parte contagiata.
I dati sono inattendibili, il Governo non è in grado di rilevarli. 123.965 tamponi su 37 milioni di persone. (Ministero della Salute Afghano, novembre). Mancano gli strumenti e la disponibilità della popolazione che non ha nessuna voglia di farsi testare. Non esiste un registro nazionale delle morti. La sottostima è evidente. Pochi denunciano i propri cari malati.
La densità di popolazione è altissima nelle grandi città afgane, con Kabul in testa che raggiunge 4500 abitanti per km², famiglie numerose, spazi abitativi piccoli. La distanza sociale è improbabile. Chi scappa dalla devastante guerra di terra tra esercito e talebani, che rende impossibile la vita in molte province del paese, chi torna dall’estero e non ha più il suo posto, approda nelle grandi città, Kabul soprattutto. Profughi interni, Internally Displaced People, IDP, così sono definiti. Vivono nei campi profughi, incuneati nel centro cittadino, che si fanno spazio tra i palazzi di vetro, i Wedding Centers, o ai margini pericolosi della città. Muri di argilla, tetti di eternit o di plastica, tende dell’esercito, tappeti, teli, polvere e fango. Ripari aggrappati uno sull’altro. Villaggi dentro la città, precari e fatiscenti, abitatissimi, senza servizi igienici né acqua potabile, al massimo una pompa per strada. L’inverno è un incubo che uccide i neonati. Hanno forza e dignità queste persone e prendono la loro capacità di resistenza dalla reciproca vicinanza. Si aiutano, si sostengono, si passano il virus.
Migliaia di persone sono in movimento costante dentro il paese, per tornare a casa dall’estero o per scappare altrove. 13 donne sono morte, l’ottobre scorso, tra montagne di passaporti abbandonati, schiacciate e calpestate dalla folla che, nello stadio di Jalalabad, nel Nangarhar, si accalcava per ottenere i visti per il Pakistan. Per lavorare, per curarsi, per vivere una vita più sicura.
Gli ospedali sono pochi, male attrezzati, con personale incompetente, in alcuni manca perfino l’acqua pulita per lavarsi le mani. Nelle zone dove la guerra è incessante, come Helmand, Kandahar, Uruzgan, gli ospedali sono pieni di feriti di guerra, in continuo aumento, e non hanno posto per gli ammalati di Covid. Medici e infermieri, già insufficienti, si contagiano per mancanza di protezioni e lasciano ancor più sguarniti i presidi sanitari. Altri, senza stipendio da mesi, abbandonano il loro posto. I posti letto scarseggiano, mancano ventilatori, medicinali, ossigeno, che i pazienti devono comprare a loro spese. C’è chi non riesce a farsi accogliere nell’ospedale e chi dall’ospedale scappa, spaventato dalle condizioni di cura. Nelle province, i pochi presidi sanitari sono bersagli degli attacchi talebani, o vengono coinvolti nella guerra quotidiana. Sono luoghi ad alto rischio che spaventano personale e pazienti. Può capitare, ad esempio, di saltare per aria su uno IED (ordigni esplosivi improvvisati), nascosto nell’ospedale dai talebani.
“Non potrò mai dimenticare l’angoscia di quella corsa in macchina, ci dice Shazia. Abbiamo caricato mio marito, malato di Covid, e abbiamo cominciato a girare per tutti gli ospedali sperando che lo potessero aiutare. Nessuno ci ha accolto. Sulla soglia di casa è morto.”
Eppure gli aiuti della Comunità Internazionale per l’emergenza sanitaria sono stati massicci. Solo qualche esempio: 100,4 milioni di dollari dalla Banca Mondiale, 117 milioni di euro dall’Unione Europea, 40 milioni dall’Asian Development Bank, assistenza tecnica e finanziaria dal Governo Cinese e dall’OMS. Denaro sparito, come sempre, nei meandri della corruzione, del Governo e di chi, nella diffusa rete di potere, si divide la torta.
La società afghana con le sue regole tradizionali e religiose, è stata la culla del contagio. In un primo tempo, i mullah pontificavano in moschee gremite che il virus era la punizione per gli occidentali infedeli, che Dio avrebbe protetto i credenti. Bastava pregare, tutti insieme. In seguito moschee e luoghi di preghiera sono stati chiusi. Ma era tardi.
Quasi nessuno denuncia un parente morto di Covid: la famiglia non potrebbe lavarlo, prepararlo ed eseguire, alla presenza di tutti, i riti funebri, sacri per tutti gli afghani. Per lo stesso motivo non cercano nemmeno di ricoverarli negli ospedali. Morire da soli è inconcepibile.
Il Governo nasconde la realtà, e la popolazione nasconde i propri malati e i propri morti. Il contagio isola, ostracizza, abbandona. Diventa una vergogna. E la vergogna, come l’onore, hanno nella società afghana un potere terribile. Molti all’inizio non ci credevano o preferivano non crederci ma il virus è arrivato in pompa magna e non se n’è più andato.
Era il marzo 2020. L’Iran era un passo avanti. Già il sistema sanitario crollava, le fabbriche chiudevano. Migliaia di lavoratori afghani, 159.000 alla fine di marzo, si sono ammassati alla frontiera per tornare in Afghanistan, nei loro luoghi d’origine. Portando con sé il contagio e distribuendolo ovunque, Herat, il primo cluster, Kabul, con il numero più alto di contagi, Balkh , Kandahar, il Nangarhar. Il flusso non si è fermato. Nell’ottobre scorso gli afghani che hanno attraversato la frontiera con L’Iran, sono ancora 25.917 (OIM Organizzazione Internazionale delle Migrazioni), per un totale di 597.000.
A fine marzo, il Governo si decide e decreta il lock down. Come molte altre nazioni del mondo. Ma l’Afghanistan non è una nazione come le altre.
Quasi la metà della popolazione vive sotto la soglia di povertà, il 40% con meno di un dollaro e 25 al giorno. Moltissimi sono i lavoratori giornalieri. Aspettano, all’alba, sdraiati nelle loro carriole, con le scope o le cazzuole in mano, nelle piazze di Kabul, aspettano di trovare il pane per la famiglia quel giorno, almeno quello, poi si vedrà. Molti sono gli ambulanti che lavorano per la strada, con piccoli chioschi di verdura, di pezzi di ricambio, di legna, di zuppa calda o di ‘bolani’ (involtini di verdure). Il lock down li taglia fuori dalla sopravvivenza. La maggioranza delle famiglie non è in grado di assorbire lo schock economico del virus. Un effetto domino devastante che ha scoperchiato una catena di disastri. La vita qui è fragile, fragilissima. Basta un passo sbagliato, un soffio avverso del vento, per spezzarla. E il Covid, si è abbattuto come un tifone su una popolazione stremata da 40 anni di guerra e violenza ininterrotte, da un governo fondamentalista, da un esercito di occupazione, dal dominio ottuso e brutale di talebani e signori della guerra, dalla differenza di genere più alta al mondo, dalla miseria che da tutto questo deriva. Vite in bilico, come castelli di carte.
“Nouria -racconta Shafiqa Nouri, direttrice della ONG HAWCA (Humanitarian Assistence for Women and Children of Afghanistan)- è vedova e da molti anni ormai mantiene la sua famiglia, tre figli e un cognato disabile, con il suo lavoro. Fa le pulizie nella casa di un vicino. E’ brava, precisa, attentissima a non perdere quel lavoro che fa sopravvivere i suoi cari. 200 afghani (moneta locale) al giorno, non molto ma è felice di poter sostenere i suoi figli. Improvvisamente il lavoro sparisce. La gente ha paura del contagio e non vuole estranei in casa. Rimane sotto shock per diversi giorni, non sa che fare per i suoi. Niente, nessuna possibilità, nessuna idea. Non le resta che mendicare. Ma non sa come si fa e non è la sola, la competizione è alta. I mendicanti, l’ultimo anello della sconfitta, invadono le strade delle città. Prova a combattere, a conquistarsi uno spazio. Non ce la fa. Non ce la fa nemmeno il figlio più piccolo, il più fragile. Il cognato scompare di casa, è perso. Nouria si decide a chiedere aiuto agli anziani del quartiere, forse le troveranno un lavoro. La guardano, è bella, giovane, sono d’accordo. Eccolo il lavoro. Pagheranno per le sue prestazioni sessuali.”
La strada di Nouria porta soltanto lì e i figli rimasti devono vivere.
Gli uomini senza lavoro perdono la testa. Aumentano i tentativi di suicidio. E, soprattutto, la violenza domestica contro donne e bambini. “Il numero dei casi di violenza che arrivano al nostro Shelter (Casa Protetta) è in continuo aumento.” Continua Shafiqa Nouri. Durante il periodo di quarantena, secondo un’indagine di Save the Children, 3 bambini su 10 e 4 donne su 10 hanno subito violenza domestica, psicologica e fisica. E per loro l’assistenza sanitaria è un miraggio.
“In questo momento, ci racconta Sabira, la maggior parte degli uomini sta a casa ed è coinvolta in qualunque cosa gli succeda intorno. L’uomo non ha lavoro, non riesce a mantenere la famiglia, è frustrato e nervoso. Ecco che inizia a gridare per qualunque sciocchezza. Così fa anche mio marito. Picchia anche la sua seconda moglie oltre a me, ogni giorno, per qualunque cosa. Non è capace di guadagnare nemmeno un afghano. Ha perso il lavoro per la quarantena e adesso è diventato tossicodipendente. Nella nostra casa non c’è più niente, è vuota, completamente vuota. Abbiamo venduto tutto quello che potevamo per comprare da mangiare e per le medicine.”
La speculazione dilaga. Cibo e medicine costano sempre di più e diventano irraggiungibili per molti. “Sono davvero spaventata, – dice Shogofa- i miei vicini di casa, per curare il padre malato di Covid, hanno venduto la figlia di 12 anni. Non so cosa potrà succedere.”
Sono i bambini i più vulnerabili. Specialmente quelli che già sopravvivevano in una condizione precaria. Secondo Save the Children, un terzo della popolazione , che include 7 milioni di bambini, dovrà affrontare la denutrizione. I bambini afghani, anche prima del virus, erano esposti ad alti rischi quotidiani. La vita per loro è un percorso di guerra: violenza, sfruttamento, matrimoni forzati, malnutrizione, abusi, arruolamento forzato. Le sfide per sopravvivere sono molte. Il virus peggiora le cose, rendendo i piccoli sempre più spaventati davanti alla vita che li aspetta.
Il business della droga è più fiorente che mai. Prospera nella disperazione e trova manodopera a basso costo nell’esercito dei disoccupati e degli studenti delle città. Lavorare nei campi di oppio è uno dei pochi lavori rimasti.
Il lock down non può durare in Afghanistan. La fame è più forte. La vita, infatti, ritorna a brulicare per le strade di nuovo affollate. I pochi che possedevano mascherine, guanti e disinfettante, li vanno a vendere. Solo chi ha consapevolezza dei rischi, chi ha un’istruzione, continua a proteggersi. Ma sono pochi.
Intanto gli attentati di talebani e Daesh, in un’escalation di violenza, fanno più paura del Covid.
“Sì, – dice Pashtana, direttrice dell’orfanotrofio di Afceco – il Covid-19 è una malattia che colpisce individualmente, i talebani, quando attaccano, colpiscono centinaia di persone. E non basta la mascherina a proteggerci. ”
Tutto torna come prima, nell’insicurezza che la gente conosce da 40 anni. Il virus ormai non si contrasta più.
“Le scuole e le università hanno riaperto, racconta Shafiqa Nouri, come i negozi, gli uffici del Governo e quelli privati, le ONG. Così come i ristoranti, le Wedding Hall, i posti per i pic nic. Nessuno si prende cura di se stesso, nemmeno l’uno per cento usa la mascherina a Kabul. Ma non vuol dire che l’epidemia sia sotto controllo. Al contrario imperversa liberamente. Tutti i test che vengono fatti sono positivi e il numero dei morti continua a crescere.”
La vita media per le donne è di 44 anni e poco di più per gli uomini, i vecchi sono pochi. Ma le persone sono spesso malate, mal curate e, ora, ancor più debilitate dalla mancanza di cibo. Così il virus se le porta via. Continua la sua marcia tranquillo, lasciando dietro di sé cicatrici profonde. La morte in Afghanistan, non fa notizia, è consapevolmente presente in ogni spazio della vita. Si muore per malattie banali, di parto, appena nati, per attacchi suicidi, per bombardamenti, per esplosioni di Ied, per battaglie, per i capricci dei più forti e la brutalità degli uomini, per violenza nella famiglia. Il Covid si accomoda tra le numerose cause di morte del paese. È solo una delle tante. Il difficile, sempre, di nuovo, è sopravvivere.
Cristiana Cella, giornalista, scrittrice, sceneggiatrice. Segue le vicende afghane dal 1980, quando entrò clandestinamente a Kabul, vietata ai giornalisti, per documentare la resistenza della città contro l’invasione russa. Dal 2009 fa parte del Direttivo dell’Associazione Cisda (Coordinamento Italiano Sostegno donne afghane), ha partecipato a diverse delegazioni in Afghanistan. Ha pubblicato un libro: ‘Sotto un cielo di stoffa. Avvocate a Kabul’, edito da Città del Sole Edizioni.