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Autore: Patrizia Fabbri

La donna che venne da lontano. La storia di Shabnam.

La donna che venne da lontanoLa donna che venne da lontano è Shabnam, che vive nell’Afghanistan degli anni ’60, in cui si delinea uno scenario di guerra e odi massificati dove, nonostante povertà e ristrettezze, la donna prova a vivere un’esistenza onesta e rispettata. A partire dalla sua infanzia, si conoscono le sue insicurezze e timori ma anche il suo viaggio di fatica alla ricerca dei successi, per i quali sono però necessari grandi sforzi. L’amore di un uomo potrà aiutarla a raggiungere una vita responsabile e retta.

Liliana Manetti ha fortemente iscritto la sua vicenda in una data cornice cronico-ambientale che è quella degli anni ’60 vissuti in Afghanistan, un paese che non era scenario di guerra e di odi massificati ma dove, pur vivendo nella povertà e nelle ristrettezze, si conduceva un’esistenza onesta e rispettata. […]
Liliana Manetti con questa sua nuova opera ci fa conoscere da più vicino Shabnam attraverso le sue insicurezze e timori, le sue speranze e i sogni che pian piano riesce poi a raggiungere.

 

La donna che venne da lontano

di Liliana Manetti

Rossini Editore, 2° edizione, 2020, pp. 81

 

Afghanistan: la marcia del virus

Per donne e bambini l’Afghanistan è il peggior paese dove vivere. Per il Corona virus è senz’altro il migliore nel quale prosperare. Arginarlo e difendere la popolazione è stato impossibile. Gli alleati del virus sono molti, gli ostacoli opposti pochissimi. La popolazione è in larga parte contagiata.

I dati sono inattendibili, il Governo non è in grado di rilevarli. 123.965 tamponi su 37 milioni di persone. (Ministero della Salute Afghano, novembre). Mancano gli strumenti e la disponibilità della popolazione che non ha nessuna voglia di farsi testare. Non esiste un registro nazionale delle morti. La sottostima è evidente. Pochi denunciano i propri cari malati.

La densità di popolazione è altissima nelle grandi città afgane, con Kabul in testa che raggiunge 4500 abitanti per km², famiglie numerose, spazi abitativi piccoli. La distanza sociale è improbabile. Chi scappa dalla devastante guerra di terra tra esercito e talebani, che rende impossibile la vita in molte province del paese, chi torna dall’estero e non ha più il suo posto, approda nelle grandi città, Kabul soprattutto. Profughi interni, Internally Displaced People, IDP, così sono definiti. Vivono nei campi profughi, incuneati nel centro cittadino, che si fanno spazio tra i palazzi di vetro, i Wedding Centers, o ai margini pericolosi della città. Muri di argilla, tetti di eternit o di plastica, tende dell’esercito, tappeti, teli, polvere e fango. Ripari aggrappati uno sull’altro. Villaggi dentro la città, precari e fatiscenti, abitatissimi, senza servizi igienici né acqua potabile, al massimo una pompa per strada. L’inverno è un incubo che uccide i neonati. Hanno forza e dignità queste persone e prendono la loro capacità di resistenza dalla reciproca vicinanza. Si aiutano, si sostengono, si passano il virus.

Migliaia di persone sono in movimento costante dentro il paese, per tornare a casa dall’estero o per scappare altrove. 13 donne sono morte, l’ottobre scorso, tra montagne di passaporti abbandonati, schiacciate e calpestate dalla folla che, nello stadio di Jalalabad, nel Nangarhar, si accalcava per ottenere i visti per il Pakistan. Per lavorare, per curarsi, per vivere una vita più sicura.

Gli ospedali sono pochi, male attrezzati, con personale incompetente, in alcuni manca perfino l’acqua pulita per lavarsi le mani. Nelle zone dove la guerra è incessante, come Helmand, Kandahar, Uruzgan, gli ospedali sono pieni di feriti di guerra, in continuo aumento, e non hanno posto per gli ammalati di Covid. Medici e infermieri, già insufficienti, si contagiano per mancanza di protezioni e lasciano ancor più sguarniti i presidi sanitari. Altri, senza stipendio da mesi, abbandonano il loro posto. I posti letto scarseggiano, mancano ventilatori, medicinali, ossigeno, che i pazienti devono comprare a loro spese. C’è chi non riesce a farsi accogliere nell’ospedale e chi dall’ospedale scappa, spaventato dalle condizioni di cura. Nelle province, i pochi presidi sanitari sono bersagli degli attacchi talebani, o vengono coinvolti nella guerra quotidiana. Sono luoghi ad alto rischio che spaventano personale e pazienti. Può capitare, ad esempio, di saltare per aria su uno IED (ordigni esplosivi improvvisati), nascosto nell’ospedale dai talebani.

Non potrò mai dimenticare l’angoscia di quella corsa in macchina, ci dice Shazia. Abbiamo caricato mio marito, malato di Covid, e abbiamo cominciato a girare per tutti gli ospedali sperando che lo potessero aiutare. Nessuno ci ha accolto. Sulla soglia di casa è morto.”

Eppure gli aiuti della Comunità Internazionale per l’emergenza sanitaria sono stati massicci. Solo qualche esempio: 100,4 milioni di dollari dalla Banca Mondiale, 117 milioni di euro dall’Unione Europea, 40 milioni dall’Asian Development Bank, assistenza tecnica e finanziaria dal Governo Cinese e dall’OMS. Denaro sparito, come sempre, nei meandri della corruzione, del Governo e di chi, nella diffusa rete di potere, si divide la torta.

La società afghana con le sue regole tradizionali e religiose, è stata la culla del contagio. In un primo tempo, i mullah pontificavano in moschee gremite che il virus era la punizione per gli occidentali infedeli, che Dio avrebbe protetto i credenti. Bastava pregare, tutti insieme. In seguito moschee e luoghi di preghiera sono stati chiusi. Ma era tardi.

Quasi nessuno denuncia un parente morto di Covid: la famiglia non potrebbe lavarlo, prepararlo ed eseguire, alla presenza di tutti, i riti funebri, sacri per tutti gli afghani. Per lo stesso motivo non cercano nemmeno di ricoverarli negli ospedali. Morire da soli è inconcepibile.

Il Governo nasconde la realtà, e la popolazione nasconde i propri malati e i propri morti. Il contagio isola, ostracizza, abbandona. Diventa una vergogna. E la vergogna, come l’onore, hanno nella società afghana un potere terribile. Molti all’inizio non ci credevano o preferivano non crederci ma il virus è arrivato in pompa magna e non se n’è più andato.

Era il marzo 2020. L’Iran era un passo avanti. Già il sistema sanitario crollava, le fabbriche chiudevano. Migliaia di lavoratori afghani, 159.000 alla fine di marzo, si sono ammassati alla frontiera per tornare in Afghanistan, nei loro luoghi d’origine. Portando con sé il contagio e distribuendolo ovunque, Herat, il primo cluster, Kabul, con il numero più alto di contagi, Balkh , Kandahar, il Nangarhar. Il flusso non si è fermato. Nell’ottobre scorso gli afghani che hanno attraversato la frontiera con L’Iran, sono ancora 25.917 (OIM Organizzazione Internazionale delle Migrazioni), per un totale di 597.000.

A fine marzo, il Governo si decide e decreta il lock down. Come molte altre nazioni del mondo. Ma l’Afghanistan non è una nazione come le altre.

Quasi la metà della popolazione vive sotto la soglia di povertà, il 40% con meno di un dollaro e 25 al giorno. Moltissimi sono i lavoratori giornalieri. Aspettano, all’alba, sdraiati nelle loro carriole, con le scope o le cazzuole in mano, nelle piazze di Kabul, aspettano di trovare il pane per la famiglia quel giorno, almeno quello, poi si vedrà. Molti sono gli ambulanti che lavorano per la strada, con piccoli chioschi di verdura, di pezzi di ricambio, di legna, di zuppa calda o di ‘bolani’ (involtini di verdure). Il lock down li taglia fuori dalla sopravvivenza. La maggioranza delle famiglie non è in grado di assorbire lo schock economico del virus. Un effetto domino devastante che ha scoperchiato una catena di disastri. La vita qui è fragile, fragilissima. Basta un passo sbagliato, un soffio avverso del vento, per spezzarla. E il Covid, si è abbattuto come un tifone su una popolazione stremata da 40 anni di guerra e violenza ininterrotte, da un governo fondamentalista, da un esercito di occupazione, dal dominio ottuso e brutale di talebani e signori della guerra, dalla differenza di genere più alta al mondo, dalla miseria che da tutto questo deriva. Vite in bilico, come castelli di carte.

“Nouria -racconta Shafiqa Nouri, direttrice della ONG HAWCA (Humanitarian Assistence for Women and Children of Afghanistan)- è vedova e da molti anni ormai mantiene la sua famiglia, tre figli e un cognato disabile, con il suo lavoro. Fa le pulizie nella casa di un vicino. E’ brava, precisa, attentissima a non perdere quel lavoro che fa sopravvivere i suoi cari. 200 afghani (moneta locale) al giorno, non molto ma è felice di poter sostenere i suoi figli. Improvvisamente il lavoro sparisce. La gente ha paura del contagio e non vuole estranei in casa. Rimane sotto shock per diversi giorni, non sa che fare per i suoi. Niente, nessuna possibilità, nessuna idea. Non le resta che mendicare. Ma non sa come si fa e non è la sola, la competizione è alta. I mendicanti, l’ultimo anello della sconfitta, invadono le strade delle città. Prova a combattere, a conquistarsi uno spazio. Non ce la fa. Non ce la fa nemmeno il figlio più piccolo, il più fragile. Il cognato scompare di casa, è perso. Nouria si decide a chiedere aiuto agli anziani del quartiere, forse le troveranno un lavoro. La guardano, è bella, giovane, sono d’accordo. Eccolo il lavoro. Pagheranno per le sue prestazioni sessuali.”

La strada di Nouria porta soltanto lì e i figli rimasti devono vivere.

Gli uomini senza lavoro perdono la testa. Aumentano i tentativi di suicidio. E, soprattutto, la violenza domestica contro donne e bambini. “Il numero dei casi di violenza che arrivano al nostro Shelter (Casa Protetta) è in continuo aumento.” Continua Shafiqa Nouri. Durante il periodo di quarantena, secondo un’indagine di Save the Children, 3 bambini su 10 e 4 donne su 10 hanno subito violenza domestica, psicologica e fisica. E per loro l’assistenza sanitaria è un miraggio.

“In questo momento, ci racconta Sabira, la maggior parte degli uomini sta a casa ed è coinvolta in qualunque cosa gli succeda intorno. L’uomo non ha lavoro, non riesce a mantenere la famiglia, è frustrato e nervoso. Ecco che inizia a gridare per qualunque sciocchezza. Così fa anche mio marito. Picchia anche la sua seconda moglie oltre a me, ogni giorno, per qualunque cosa. Non è capace di guadagnare nemmeno un afghano. Ha perso il lavoro per la quarantena e adesso è diventato tossicodipendente. Nella nostra casa non c’è più niente, è vuota, completamente vuota. Abbiamo venduto tutto quello che potevamo per comprare da mangiare e per le medicine.”

La speculazione dilaga. Cibo e medicine costano sempre di più e diventano irraggiungibili per molti. “Sono davvero spaventata, – dice Shogofa- i miei vicini di casa, per curare il padre malato di Covid, hanno venduto la figlia di 12 anni. Non so cosa potrà succedere.”

Sono i bambini i più vulnerabili. Specialmente quelli che già sopravvivevano in una condizione precaria. Secondo Save the Children, un terzo della popolazione , che include 7 milioni di bambini, dovrà affrontare la denutrizione. I bambini afghani, anche prima del virus, erano esposti ad alti rischi quotidiani. La vita per loro è un percorso di guerra: violenza, sfruttamento, matrimoni forzati, malnutrizione, abusi, arruolamento forzato. Le sfide per sopravvivere sono molte. Il virus peggiora le cose, rendendo i piccoli sempre più spaventati davanti alla vita che li aspetta.

Il business della droga è più fiorente che mai. Prospera nella disperazione e trova manodopera a basso costo nell’esercito dei disoccupati e degli studenti delle città. Lavorare nei campi di oppio è uno dei pochi lavori rimasti.

Il lock down non può durare in Afghanistan. La fame è più forte. La vita, infatti, ritorna a brulicare per le strade di nuovo affollate. I pochi che possedevano mascherine, guanti e disinfettante, li vanno a vendere. Solo chi ha consapevolezza dei rischi, chi ha un’istruzione, continua a proteggersi. Ma sono pochi.

Intanto gli attentati di talebani e Daesh, in un’escalation di violenza, fanno più paura del Covid.

Sì, – dice Pashtana, direttrice dell’orfanotrofio di Afceco – il Covid-19 è una malattia che colpisce individualmente, i talebani, quando attaccano, colpiscono centinaia di persone. E non basta la mascherina a proteggerci. ”

Tutto torna come prima, nell’insicurezza che la gente conosce da 40 anni. Il virus ormai non si contrasta più.

Le scuole e le università hanno riaperto, racconta Shafiqa Nouri, come i negozi, gli uffici del Governo e quelli privati, le ONG. Così come i ristoranti, le Wedding Hall, i posti per i pic nic. Nessuno si prende cura di se stesso, nemmeno l’uno per cento usa la mascherina a Kabul. Ma non vuol dire che l’epidemia sia sotto controllo. Al contrario imperversa liberamente. Tutti i test che vengono fatti sono positivi e il numero dei morti continua a crescere.”

La vita media per le donne è di 44 anni e poco di più per gli uomini, i vecchi sono pochi. Ma le persone sono spesso malate, mal curate e, ora, ancor più debilitate dalla mancanza di cibo. Così il virus se le porta via. Continua la sua marcia tranquillo, lasciando dietro di sé cicatrici profonde. La morte in Afghanistan, non fa notizia, è consapevolmente presente in ogni spazio della vita. Si muore per malattie banali, di parto, appena nati, per attacchi suicidi, per bombardamenti, per esplosioni di Ied, per battaglie, per i capricci dei più forti e la brutalità degli uomini, per violenza nella famiglia. Il Covid si accomoda tra le numerose cause di morte del paese. È solo una delle tante. Il difficile, sempre, di nuovo, è sopravvivere.

Cristiana Cella, giornalista, scrittrice, sceneggiatrice. Segue le vicende afghane dal 1980, quando entrò clandestinamente a Kabul, vietata ai giornalisti, per documentare la resistenza della città contro l’invasione russa.  Dal 2009 fa parte del Direttivo dell’Associazione Cisda (Coordinamento Italiano Sostegno donne afghane), ha partecipato a diverse delegazioni in Afghanistan. Ha pubblicato un libro: ‘Sotto un cielo di stoffa. Avvocate a Kabul’, edito da Città del Sole Edizioni.

Women Defend Rojava – Call for worldwide action!

Il video, realizzato da Kongra Star, mostra gli effetti dei bombardamenti turchi sul Rojava e la lotta delle donne curde e delle donne di tutto il mondo per sostenerle.

Kongra Star (in curdo Star Congress), fondata nel 2005 con il nome di Yekîtiya Star (in curdo Star Union of Women), è una confederazione di organizzazioni femminili nel Rojava, in Siria. Il nome Stella “si riferisce all’antica dea della Mesopotamia Ishtar, e oggigiorno il nome si riferisce anche alle stelle celesti”. La confederazione è stata determinante nei significativi progressi compiuti nelle relazioni di genere nella regione. Il suo lavoro si basa sull’affermazione che “senza la liberazione delle donne, una società veramente libera è impossibile”.

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Istituzione della Borsa di Studio Cristina Cattafesta

Il 7 agosto di quest’anno è mancata improvvisamente e inaspettatamente una grande donna, ma soprattutto un’amica speciale per tutte e tutti noi: Cristina Cattafesta.
Noi, sue amiche del CISDA, abbiamo pensato di dedicare a lei l’istituzione di una borsa di studio a favore di una giovane donna afghana che avrà la forza ed il coraggio di cambiare la propria vita attraverso lo studio ed in seguito mettersi al servizio del suo popolo.
Cristina è stata un’attivista per i diritti dei popoli oppressi, una persona straordinaria.
Ha combattuto ogni giorno a favore dei più fragili, senza retrocedere mai, anche a costo di suscitare l’ostilità dei potenti e pagare di persona.
Ha avuto un’indiscutibile tenacia e fermezza nell’individuare gli obiettivi che si prefiggeva e pochi la potevano eguagliare.
Sappiamo tutte e tutti che il suo cuore era in Afghanistan. In questa lontana terra Cristina, insieme a noi, le sue compagne del CISDA, è stata molte volte ed ha contribuito ad intessere legami duraturi e significativi con le associazioni democratiche afghane che hanno riconosciuto nel CISDA un interlocutore affidabile per sostenere tanti progetti tutt’ora in corso.
È per questo motivo che tutte noi del CISDA, ancora attonite per l’immensa perdita della nostra Presidente, abbiamo pensato di istituire il fondo CRISTINA CATTAFESTA che possa sostenere negli studi una ragazza afghana presso un’università del suo paese.
La giovane, di nome Sara, studierà Legge all’Università in Bamyan per 4 anni.
La somma totale per ogni anno sarà di € 1.300.

IBAN DEL CISDA su cui fare la donazione scrivendo come causale:
Borsa di studio Cristina Cattafesta
IT 64 U 05018 01600 000000113666

 

Ricordando Cristina

Triste no. Non è una giornata triste. Questo Cristina non ce lo avrebbe mai perdonato. Ce ne avrebbe dette di tutti i colori.
La commozione c’è, quella sì, va su e giù insieme alle parole di tutti, ai pensieri, alle note della musica. Sotto gli archi, sui prati, sotto gli alberi di Rocca Brivio camminano, con le sue sorelle, Edoardo, i nipoti, tutte noi del Cisda, affaccendate insieme, le compagne e i compagni di una vita intera, una vita di battaglie e di legami forti costruiti sul campo. Sullo schermo scorrono le sue foto, si fermano in tanti a guardarle, catturati dal suo speciale sorriso, che tutti ci portiamo dietro. Cris, nelle diverse parti del mondo nelle quali ha reso concreti i suoi progetti, i suoi sogni, le giovani idee che nascevano nella mente di chi le stava accanto.

Le foto si muovono sulla melodia, composta per noi del Cisda, da un amico afghano, figlio di una grande donna, militante di Rawa, una delle prime che abbiamo conosciuto. Questo giovane musicista è stato un bambino pestifero. Da piccino, ha sfidato Cristina, con selvagge provocazioni che hanno devastato la sua preziosissima casa. Forse le sue dita sul pianoforte cercano di farsi perdonare le ditate di nutella sul divano bianco…

In tanti hanno scritto, testimoniato la loro amicizia per Cris. Le loro parole sventolano nei fogli appesi ad un filo rosso, come bandiere. I tibetani fanno lo stesso, perché il vento porti in giro e diffonda quello che c’è scritto.

Siamo stati fortunati, niente divieti covid e un dolce sole autunnale che scalda la luce del pomeriggio.

Le note del flauto, così simili alla voce umana, si mischiano al profumo del tè allo zafferano, alla maniera di Herat.

In mezzo alle parole al microfono, alle storie, ai ricordi, è sempre presente la sua ironia, la gioia, la risata, che scappavano fuori anche dai momenti più difficili e disfacevano la paura.

Ci sono tutti a portare qualcosa. Le compagne curde, turche, italiane. A Kabul, nel paese che regnava incontrastato nel suo cuore, l’hanno ricordata in tanti, con affetto, stima e parole di lotta: Selay Gaffar, Hambastagi, il partito della solidarietà, l’orfanotrofio di Afceco, con la commozione appena visibile di tutte le bimbe, piccole e grandi, schierate.

Nelle battaglie politiche non è mai mancato l’amore, la cura delle piccole cose, la solidarietà profonda. Era questo il suo modo. Per noi tutte e soprattutto per Cristina, gli amici afghani sono parte della nostra famiglia.

La travolgente musica dei Luf, ci porta con sé, trasformando la malinconia. Balliamo anche, difficile farne a meno. Poi, arriva “Bella Ciao” e la canzone scritta per Malalai Joya, Kabul. Cantate per lei, sarebbe stata contenta. E la commozione ritorna.

Cristina ci lascia un intreccio di persone, diverse, unite, ognuna col suo percorso. Un disegno che tutto intero si vede a fatica, a volte bizzarro o sorprendente. Fatto di donne e uomini che ci sono. È stato bello riconoscersi in questo pomeriggio dorato di sabato. Il cammino è sempre lì, aspetta.

Qui con noi, in questa giornata, Cristina si sarebbe trovata a suo agio. Di questo sono sicura.

Una giovane ragazza, di nome Sahar, che vive a Bamyan, in Afghanistan, penserà a Cristina ogni giorno, mentre andrà all’Università, con i libri sottobraccio, a studiare legge per difendere le donne del suo paese. È la borsa di studio ‘Cristina Cattafesta’ che noi, amiche del Cisda, abbiamo istituito per lei. Perché rimanga un filo concreto, di trasformazione quotidiana, tra lei e l’Afghanistan, nel procedere della vita di questa futura avvocata. Dura quattro anni, e tutti possiamo contribuire. Già in questa giornata abbiamo raccolto un bel gruzzolo e speriamo di vederlo aumentare presto.