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Autore: Patrizia Fabbri

Talebani e Covid

La voce è suadente, carezzevole e parla inglese. Accompagna con cura le immagini, le culla.

Kalashnikov e termometro

Un gruppetto di talebani, lanciarazzi in spalla, turbante bianco e mascherina chirurgica, che trattiene a stento un’indomabile barba nera, puntano la ‘pistola’ alla fronte dei loro compaesani, per misurare la temperatura. Altri, armati solo della completa tenuta d’emergenza, nuova di zecca, camice, tuta, mascherina e guanti, distribuiscono kit di disinfezione alla popolazione, opuscoli con le regole da seguire, materiale sanitario, eseguono test, mentre in secondo piano passano le ambulanze. La voce, in una surreale atmosfera pacata, elenca lentamente tutto quello che la Commissione Sanità dell’Emirato Islamico dell’Afghanistan fa e farà, per proteggere la popolazione, casa per casa, villaggio per villaggio.

È uno dei tanti video, prodotti dai talebani, che circolano al tempo del Covid, in Aghanistan. Una nuova veste del gruppo, lontana dalle esposizioni gloriose consuete, sconosciuta per la popolazione. Sono riusciti a stupire, dopo 25 anni.

I migliori mujahiddin- proclamano i talebani-hanno lasciato i campi di battaglia per trasformarsi in personale sanitario. Assicurano i cittadini che il governo dell’Emirato ha la pandemia sotto controllo. I rimpatriati dall’Iran, che si muovono nelle loro province, sono sottoposti a test. Matrimoni, funerali, riunioni sono vietati, compresa la preghiera in moschea. Ognuno preghi Allah per conto suo, mangi cibo halal e vegetali con vitamina C che saranno distribuiti alla popolazione. Incoraggia i credenti, che fanno le abluzioni prima di ognuna delle cinque preghiere giornaliere, ad usare, nell’occasione, anche il sapone. Si vedono uomini di tutte le età, delle donne nemmeno l’ombra, naturalmente, seduti in un cortile, che partecipano a un seminario informativo sul virus, ascoltano seri le raccomandazioni, e intascano mascherine e sapone. Ringraziano compiti. Ringrazia anche il Ministero della Salute, seppure con riserva. I talebani proclamano di garantire un passaggio sicuro nelle province sotto il loro controllo, al personale sanitario governativo e della Croce Rossa e di avere istituito centri per la quarantena dei contagiati.

Questo è il messaggio che deve passare: la Commissione si occupa della popolazione e della lotta comune al Corona virus. E se ne occupa meglio del Governo.

Il virus fornisce ai talebani un ottimo teatro per la propaganda: legittimare se stessi come governanti del paese e delegittimare il Governo di Kabul. Basta solo mostrarsi un po’ meno incompetenti. Non ci vuole molto. La campagna di prevenzione viene lanciata a fine marzo dalla provincia di Jowzjan e Logar e continua la sua strada. Si moltiplicano i video e gli inviti ai meetings. Ma non tutti si lasciano incantare. Una messinscena , dicono alcuni. In realtà del virus non sanno niente, proclamano altri. I mezzi di soccorso sono bloccati sulle strade controllate dai talebani. C’è chi ha verificato sul campo e ha scoperto che il misuratore di temperatura è fatto di legno e plastica. Finto.

“Se vogliono davvero far funzionare la campagna antivirus e salvare le persone, dice Mirwais, abitante del Nangarhar, per prima cosa devono smettere di spararci addosso e aderire al cessate il fuoco.”

Ma qui i talebani non ci sentono. Il cessate il fuoco per superare la crisi, proposto da Governo e Nazioni Unite, è rifiutato dai talebani. La guerriglia continua, almeno contro le forze governative. Gli attentati aumentano, come gli attacchi ai presidi sanitari. Secondo UNAMA, nella prima ondata Covid, dal 11 marzo al 23 maggio 2020, ci sono stati più di 15 attacchi mirati agli operatori sanitari.

Il Ministero ha fatto presente che, in pieno conflitto armato, non è possibile alcun contrasto al virus. Ma i talebani portano avanti la loro doppia immagine, senza scomporsi, terroristi e crocerossini. Fucile e termometro.

Entrambe utili a sfruttare la pandemia per i propri fini. I talebani hanno capacità tecnologiche, dimestichezza con internet e social media, e curano la propria immagine con perizia. Con immagini accattivanti e promesse si conquistano seguaci. Ma anche con l’ordine sociale e amministrativo. Ci tengono a mostrarsi capaci di governare, del resto l’hanno già fatto. E governare meglio di Kabul. A questo aspetto i talebani lavorano da tempo. Lo sanno fare. Sia nei distretti che controllano direttamente sia in quelli in cui gestiscono il potere in una sorta di ‘governo ombra’. Le tasse, le bollette dell’elettricità, le rate scolastiche si pagano ai talebani. Tasse che, spesso, sono vere e proprie estorsioni.

“Ogni distretto è diverso, il potere è distribuito a macchia di leopardo fin nei più piccoli villaggi. Una continua contrattazione. I talebani hanno diverse strategie per gestirlo – dice Narghez di Rawa- Sostanzialmente tre. O controllano direttamente e apertamente il territorio, o c’è la guerra aperta con le autorità governative, o accettano i governatori nominati da Kabul, completamente esautorati, ‘governatori fantasma’, e gli fanno fare quello che vogliono, governando attraverso di loro.”

Purtroppo, l’ordine talebano, con le sue aberranti regole, precise, basate sul Corano e non discutibili, è apprezzato da una parte della popolazione. Maschile, di sicuro. Per le donne è e sarà lo stesso inferno degli anni ’90.

C’è un’ipotesi o meglio una speranza: che un disastro o una calamità naturale possano favorire la pace, tutti uniti contro il comune nemico, smettiamo di ucciderci. Ma è stata quasi sempre delusa. Sono pochissimi nel mondo i casi in cui questa logica ha funzionato. L’Afghanistan non è tra questi.

Il virus all’attacco dei taleban.

Qualcosa di buono sembra che il Covid l’abbia fatto. Ha decapitato la dirigenza talebana.

Secondo diverse fonti, Hibatullah Akunzada si è ammalato ed è morto di Covid. Nessuna conferma ufficiale ma il capo talebano non si è più visto e c’è un nuovo leader in ascesa. Una poltrona non di tutto riposo. I talebani sono un movimento composito, con interessi e padroni diversi e contrastanti. Non è facile farsi accettare e tenere insieme le diverse fazioni, due soprattutto: Rete Haqqani , vicina ad al Qaeda e all’Isi (Servizi segreti pakistani), e la shura di Quetta.

Nel maggio 2016, quando l’allora dirigente Mansour, è ucciso da un drone americano, lo scettro passa ad Akunzada, un mullah, uno studioso, esperto di testi sacri, della giustizia islamica, responsabile delle fatwa emanate dal gruppo. Era stato il vice di Mansour insieme a Sirajuddin Haqqani. Una volta al potere, sceglie con cura i suoi luogotenenti: lo stesso Haqqani, comandante della potente rete, e Muhammad Yakoub, giovane figlio del mullah Omar. Entrambe le fazioni sono soddisfatte. Ma ecco che il virus si porta via anche il secondo di Akunzada, Sirajuddin Haqqani. Malato, morto o troppo debole per il comando, non si può dire con certezza ma, anche lui, sembra fuorigioco.

Così il Covid spiana la strada all’ambizioso Yakoub che non vedeva l’ora di emergere. Un documento della Nato lo vede già al comando entro quest’anno. Il giovane leader, capo della Commissione militare talebana, amico del Pakistan, dovrà mantenere il favore dei membri della shura di Quetta, di cui fa parte, e tenere a bada la rete Haqqani.

Finora si è mostrato favorevole agli accordi di pace. Ha al suo fianco mullah Baradar, vicino al padre, negoziatore capo a Doha con gli Usa. Ma le fazioni interne non sono sempre d’accordo. I più radicali, contrari ai colloqui, emigrano verso Daesh. E lui dovrà frenare l’emorragia. L’intensificarsi degli attacchi di questi ultimi mesi, potrebbero servire anche ad accontentare gli estremisti.

Pare che Yakoub possa contare anche sull’appoggio dell’Arabia Saudita, impegnata a contrastare, all’interno della galassia talebana, gli uomini filoiraniani, contrari agli accordi. A sentire le testimonianze, il giovane leader, non sembra ancora molto popolare. Fino al 2015 non era nessuno. Un figlio di papà, insomma, all’ombra del grande carisma del mitico fondatore Omar. Su questa base fa strada. Ha soldi per fidelizzare i seguaci. Entra nella shura di Quetta e diventa capo della Commissione militare di più della metà delle province afghane.

Nell’ambiente dell’intelligence afghana viene descritto come un giovane uomo molto furbo, legittimato dalla famiglia e molto centrato su se stesso. Poco consapevole della realtà afghana, avendo vissuto sempre in Pakistan. Addestrato alla guerriglia da un gruppo terrorista pakistano responsabile di attentati contro obiettivi indiani in Afghanistan e in Kashmir. Sembrerebbe quindi una pedina sicura per il Governo pakistano. Ma nonostante le critiche, non va sottovalutato affatto.

Ha capacità diplomatiche e militari e, poi, Yakoub si occupa di soldi. Tanti. Le finanze talebane sono prospere. Il capitale ammonta circa a un miliardo e 6 di dollari l’anno. E Yakoub si impegna ad espanderlo ulteriormente, nei suoi principali settori: traffico di droga, minerali preziosi, estorsioni e donazioni.

Vedremo se riuscirà a sfuggire al virus e alle numerose insidie del destino di un capo.

Nel frattempo, a Doha, i negoziati in corso tra il governo afgano e i Taliban sono arrivati a un punto di svolta. Se fino ad ora, dal 12 settembre, le discussioni vertevano esclusivamente sulle regole procedurali che costituiscono la base legale dello svolgimento delle future negoziazioni, a inizio dicembre le due parti sono arrivate ad un accordo. Certo, trovare un punto di incontro sulle regole del gioco è stato un passo importante, ma quella che si apre ora è una finestra di discussione su temi pungenti e fonte di grande disaccordo: i diritti delle donne, l’istruzione, un cessate il fuoco permanente. Il 5 gennaio inizia il confronto, sempre a Doha, perché i talebani si sono rifiutati di spostare i colloqui in Afghanistan.

Cristiana Cella, giornalista, scrittrice, sceneggiatrice. Segue le vicende afghane dal 1980, quando entrò clandestinamente a Kabul, vietata ai giornalisti, per documentare la resistenza della città contro l’invasione russa.  Dal 2009 fa parte del Direttivo dell’Associazione Cisda (Coordinamento Italiano Sostegno donne afghane), ha partecipato a diverse delegazioni in Afghanistan. Ha pubblicato un libro: ‘Sotto un cielo di stoffa. Avvocate a Kabul’, edito da Città del Sole Edizioni.

Il CISDA a sostegno del Kurdistan

La storia dell’impegno del CISDA per il Kurdistan ha origine nel gennaio 2015, quando tre esponenti del CISDA si incontrano a Londra con alcune militanti curde della comunità locale. Da quella conversazione, in cui visioni ed esperienze politiche si intrecciano e sempre più chiaramente si rivelano consonanti, nasce il progetto di una delegazione in Kurdistan composta da compagne del CISDA e da giornaliste e altre attiviste, delegazione che si concretizza effettivamente nei primi quindici giorni del marzo 2015.

L’incontro di Londra non era casuale: già da mesi, dall’autunno 2014, il CISDA stava seguendo con attenzione le manifestazioni che si stavano moltiplicando in Afghanistan a sostegno dell’eroica resistenza di Kobane di fronte all’avanzata dell’ISIS.

La delegazione aveva quindi il compito di costruire un ponte tra militanti politici curdi e militanti dei movimenti democratici afghani, con l’obiettivo di sostegno politico vicendevole. Inoltre, si volevano portare aiuti economici all’esausta popolazione curda di Kobane sfollata a Suruç.

Tra il 1° e il 15 marzo 2015, la delegazione organizzata dal CISDA ha quindi consegnato i fondi raccolti in Italia (10.000 euro) suddividendoli tra i seguenti beneficiari:

  • Rojava Solidarity di Suruç, per l’acquisto beni di prima necessità per gli sfollati di Kobane ospitati nei campi profughi della città;
  • Municipalità di Kobane, per la ricostruzione della città;
  • Campo Profughi nei pressi di Diyarbakir, per gli Yazidi sfollati;
  • partito HDP, per attività a favore degli sfollati di Kobane (allestimento e mantenimento campi);
  • Women Peace Initiative Center di Istanbul, per il pagamento delle spese di viaggio delle volontarie che si recano a lavorare tra i profughi di Kobane per periodi che variano da tre a sei mesi;
  • Heyva Sor (Mezza Luna Rossa del Kurdistan).

Il CISDA intende proseguire la cooperazione con queste realtà politiche curde, senza per questo sottrarre attenzione e impegno per le attività delle associazioni che da sempre sostiene in Afghanistan. Terrà quindi aperta la comunicazione e lo scambio con l’UIKI (Ufficio Italiano Informazioni Kurdistan), con la Mezza Luna Rossa del Kurdistan e con le compagne del Movimento di liberazione curdo, continuando anche a raccogliere fondi e organizzando iniziative a favore del Kurdistan.

Questa apertura politica al Kurdistan è non solo condivisa, ma anzi decisamente incoraggiata dai movimenti democratici afgani con i quali collabora il CISDA.

DONA per sostenere CISDA nelle attività per il Kurdistan

Per approfondire scarica gli opuscoli

  • La nazione democratica

    La nazione democratica permette alle persone di diventare nazione loro stesse, senza dover assecondare il potere o lo stato, di diventare nazione utilizzando una politicizzazione profondamente necessaria.

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  • Confederalismo democratico

    Il confederalismo democratico è un paradigma sociale non statuale. Non è controllato da uno stato. Allo stesso tempo, il confederalismo democratico è il progetto culturale e organizzativo di una nazione democratica.

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  • Guerra e pace in Kurdistan

    I Curdi devono essere liberi di organizzarsi in modo tale da poter vivere la propria lingua e cultura e da potersi sviluppare economicamente ed ecologicamente. Curdi, Turchi ed altre culture potrebbero così vivere insieme in Turchia, sotto lo stesso tetto di una nazione democratica.

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  • La rivoluzione delle donne

    La rivoluzione di genere non riguarda solo la donna. Riguarda la civiltà vecchia di cinquemila anni della società divisa in classi che ha lasciato l’uomo in condizioni peggiori della donna. Quindi questa rivoluzione di genere significherebbe simultaneamente la liberazione dell’uomo.

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Rukhshana

La storia di Rukhshana, è come quella di Giulietta e Romeo, ma è ambientata in Afghanistan.

Nasce in una provincia povera del Nord, il Panjshir. Dopo la sua nascita, la famiglia si sposta a Kabul e va a vivere in un vecchio quartiere, in quelle case colorate, una attaccata all’altra, che si arrampicano sulla collina, in mezzo alla città, senza acqua né luce. Il padre è un lavoratore a giornata e fa molta fatica a sfamare la famiglia. Ha una mentalità chiusa e tradizionalista e non permette alle figlie di andare a scuola. Rukhshana è ancora una ragazzina quando si innamora perdutamente del figlio dei vicini, ricambiata con gioia. Il ragazzo va a casa sua diverse volte per chiederla in sposa e viene sempre rifiutato. Rukhshana è picchiata dai fratelli e dal padre e minacciata di morte se continua a frequentarlo. La sola ragione dell’opposizione della famiglia è la povertà del ragazzo. L’innamorato non si rassegna, ma il padre di Rukhshana minaccia di ucciderlo se continuerà a proporsi come fidanzato.

Rukhshana e il ragazzo non riescono a far cambiare idea al padre, ma sono innamorati e determinati a sposarsi ad ogni costo.

Un giorno, la famiglia decide di tornare in Panjshir. Rukhshana li sente parlare da dietro la porta. È spaventata, disperata. Sarebbe la fine del loro amore. Decide che è il momento di prendere in mano il suo destino. Pianifica con cura i dettagli, e scappa di casa per unirsi al ragazzo che ama. L’amore rende forti e arditi. La famiglia è furiosa. Hanno disobbedito, hanno sfidato le regole e l’autorità del padre. Devono essere puniti. Ma le ricerche non danno nessun esito. I due ragazzi sembrano spariti, la città è grande e piena di gente. La fortuna li assiste. Ce l’hanno fatta. Decidono insieme di andare in Pakistan per poter vivere il loro amore in pace, e lì si sposano come avevano deciso da molto tempo. Costruiscono la loro vita piena di amore e di cura l’uno per l’altra. Hanno 4 figli, due maschi e due femmine. Nonostante le povere condizioni di vita, sono molto felici. Rimangono in Pakistan diversi anni, solo per proteggersi dalle possibili ritorsioni della famiglia di lei.

Ne passano 14. I due sposi pensano che ormai la famiglia di Rukhshana li avrà dimenticati o perdonati. Così decidono di rientrare in patria.

Purtroppo si sbagliano. Solo una settimana dopo il loro arrivo a Kabul, il marito di Rukhshana viene ucciso dal fratello della donna.

Rukhshana è distrutta da questa tragedia. Ha perso l’uomo che ha tanto amato e si ritrova sola con quattro figli da mantenere e nessun mezzo per farlo. È analfabeta, senza istruzione né capacità di lavorare. Una vedova in Afghanistan non esiste, non ha diritti, né possibilità di decidere. È costretta a vivere con la famiglia del marito, e a sottostare ad ogni loro richiesta. Così fa Rukhshana, vive sotto tutela del cognato. Sta, adesso, con i suoi figli, in una stanza che lui le paga, ed è costretta ad obbedire a tutte le decisioni che il cognato prende per lei e per i suoi figli. Le figlie non hanno il permesso di studiare e sono confinate in casa. Solo il maschio più grande, di 13 anni va a scuola e il resto della giornata lavora. Porta dei carichi di spazzatura fuori dalla città e questo gli permette di avere un piccolo guadagno. Rukhshana, come vedova, secondo le idee della famiglia, non può lavorare. Se prova a cercare lavoro la picchiano e la insultano. È prigioniera.

È molto angosciata e pensa di non riuscire ad andare avanti con una vita così miserabile, senza dignità, né rispetto, né futuro per lei e per i suoi figli. È dipendente in tutto dai parenti del marito. La sua vita e quella dei suoi figli sono nelle loro mani. Deve obbedire a qualsiasi ordine.

“Non desidero altro che uscire un giorno da questa situazione in cui sono imprigionata. Vorrei poter decidere per me e per i miei figli, poterli mantenere e soprattutto mandarli tutti a scuola perché non siano senz’armi, né possibilità in questa difficile vita. La sola ragione per la quale ho bisogno di aiuto è quella di salvare i miei figli da questa vita miserabile e poterli aiutare a diventare degli esseri umani fieri di se stessi come il loro padre ha sempre sognato” – dice Rukhshana. Rompere la dipendenza economica è il primo, fondamentale, passo.

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Una storia del progetto Vite preziose.

La fotografia è di solo carattere grafico e non rappresenta la donna protagonista della storia. Data la attuale situazione in Afghanistan, per evitare l’identificazione delle donne i nomi sono stati modificati, così come i luoghi dove si svolgono i fatti.

Empowerment femminile in situazioni di conflitto: il caso dell’Afghanistan

Tesi di Laurea di Martina Pederzoli a.a. 2019/2020

Corso di Laurea in Scienze Politiche per la Cooperazione Internazionale allo Sviluppo, Facoltà di Scienze Politiche e Sociali, Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano

La Tesi esamina il ruolo che la donna assume in contesti dominati da conflitti e i processi di empowerment femminile e come tale ruolo si può sviluppare.
Dopo una parte che analizza il concetto di empowerment femminile e di differenza di genere, fornendo le definizioni principali normalmente attribuite a questi termini viene preso in considerazione l’Afghanistan anche perché si è osservato come gli eventi che hanno avuto luogo durante il conflitto e gli attori che vi hanno partecipato abbiano influenzato lo status delle donne in Afghanistan.
La terza parte della ricerca riguarda un caso di studio preso in considerazione ossia sull’intervento della Onlus Coordinamento Italiano Donne Afghane (CISDA) che, in collaborazione con un’associazione afghana, ha promosso in Afghanistan. Il progetto “Assistenza legale per donne vittime di violenza ed empowerment delle comunità locali – Centro Legale di Mazar-i-Sharif” riguarda la creazione di un centro legale presso la città di Mazar-i-Sharif a favore delle donne che hanno subito violenze, maltrattamenti o abusi.

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Diventare uomini nella migrazione. Il viaggio di giovani uomini afghani verso l’Italia

Tesi di Laurea di Camilla Barbisan a.a. 2019/2020

Corso di Laurea magistrale In Lavoro, Cittadinanza Sociale, Interculturalità. Università Ca’ Foscari Venezia

L’elaborato, si occupa di analizzare i percorsi migratori di giovani migranti afghani maschi, che partendo dall’Afghanistan e arrivando fino in Europa, e in Italia in particolare, compiendo un lungo viaggio a tappe, principalmente a piedi, spesso caratterizzato da sofferenze e difficoltà.

L’attenzione della Tesi è dedicata interamente al genere maschile, in primo luogo perché le migrazioni dall’Afghanistan sono prettamente maschili, in secondo luogo perché nelle ricerche sociologiche che trattano dei migranti fuori dalla propria patria, si tende ad analizzare la loro permanenza quasi esclusivamente in termini lavorativi, tralasciando le altre motivazioni connesse alla scelta di partire, le biografie dei singoli, le difficoltà riscontrate, i sentimenti e le emozioni provate.

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