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Autore: Patrizia Fabbri

La storia ritorna indietro. La voce di Rawa.

È il 1977, quando un gruppo di giovani donne, sotto la guida di Meena Keshwar Kamal, uccisa dieci anni dopo, nell’87, fonda a Kabul, Rawa, l’Associazione Rivoluzionaria delle donne afghane. Da allora, queste donne, le loro figlie e le loro nipoti, che si sono passate il testimone nel corso degli anni, non hanno mai smesso di lottare per i diritti delle donne e per la democrazia. Una lotta non violenta, una resistenza tenace, coraggiosa e intelligente, che lavora in ogni angolo del paese, anche in quelli più oppressi dalla brutalità e dall’ignoranza.
Hanno aperto spazi nel fanatismo più oscuro, hanno dato speranze, istruzione, possibilità e coraggio, dove tutte le porte sembravano chiuse. Un manipolo di circa mille militanti che spesso, per motivi di sicurezza, non si conoscono tra loro. Lavorano in clandestinità e lavorano con la gente. La loro difesa è il consenso delle persone che sostengono e per le quali costruiscono progetti. Progetti che aiutano nella vita concreta di ogni giorno, con il lavoro, l’istruzione, la costruzione del futuro, ma nello stesso tempo, progetti politici, che danno strumenti per la consapevolezza dei propri diritti e armi per ottenerli.
Queste donne hanno visto passare sulla loro pelle tutte le fasi della Storia afghana degli ultimi 50 anni. Tutte disastrose per le donne e per chi crede nella giustizia. Non si sono mai perse d’animo, adattandosi, ingegnandosi, penetrando profondamente nel territorio, rischiando ogni giorno e portando avanti la piccola grande luce delle loro idee di libertà.

Abbiamo chiesto a Nafas, una di loro, di aiutarci a decifrare il confuso presente afghano e il suo incerto futuro.

Cosa vogliono ottenere, secondo te, Talebani e Daesh con questa escalation di violenza nel paese?

I talebani hanno molto da guadagnare dall’escalation della guerra, così come i loro mecenati dell’esercito pakistano e i militanti islamisti. Per oltre cinque decenni, in Afghanistan, il Pakistan e gli Stati Uniti hanno creato, nutrito e finanziato congiuntamente vari gruppi fondamentalisti islamici, compresi i talebani e Daesh. Ora che gli Stati Uniti promettono di ritirare i soldati e sembrano liberare alcune delle loro basi militari, i talebani e il Pakistan si danno da fare per riempire questo spazio. Un maggiore controllo territoriale consente ai talebani di ottenere più concessioni durante i negoziati, e quindi una maggiore influenza politica per il Pakistan rispetto ai suoi rivali nella regione.

Dopo questi ‘accordi di pace’, in corso ormai da molti mesi, il governo del paese tornerà nelle mani dei Talebani direttamente o indirettamente?

No, non credo che succederà. Non è prerogativa della strategia degli Stati Uniti, lasciare che il potere politico sia detenuto solo dai talebani o da qualsiasi altra singola fazione. Per gli Stati Uniti, una nazione divisa, un governo precario e una situazione instabile in Afghanistan sono l’opzione migliore. I talebani sono già presenti nel governo afghano e ovviamente cercano di ottenere una quota maggiore di potere e di controllo dai negoziati di pace.

 

Un maggiore controllo dei talebani sul territorio potrebbe essere utile agli Usa?

Sì, agli Stati Uniti non importa se i terroristi continuano a versare il sangue di civili innocenti. Ciò che conta per loro è fare un accordo con i “religio-fascisti” che danno al governo degli Stati Uniti un vantaggio competitivo sui suoi rivali economici e militari nella regione, come Pakistan, Russia, Iran ecc. Si accordano con loro e si preparano ad usare le loro pedine talebane. E questo permette anche di mantenere l’occupazione in l’Afghanistan a un costo minimo.

Per il futuro dell’Afghanistan, cambierà qualcosa con l’Amministrazione Biden?

No, non cambierà nulla in Afghanistan. Sono gli oligarchi di Wall Street e i “superhawk” più paranoici del Pentagono a orchestrare le politiche egemoniche degli Stati Uniti, indipendentemente dall’amministrazione che è alla Casa Bianca. Otto anni di amministrazione Obama-Biden sono stati il periodo con il tasso di mortalità di civili più alto da quando gli Stati Uniti hanno invaso l’Afghanistan nell’ottobre 2001.

Qual è la reazione dei warlords, i jihadisti al potere in molte province e presenti al Governo, agli ‘accordi di pace’ tra Usa e talebani e tra Governo e talebani? Cosa c’è all’orizzonte, un conflitto o un accordo?

I talebani e i jihadisti (mujahideen), sono fratelli religiosi, criminali sostenuti e finanziati dagli Stati Uniti, e condividono un’ideologia comune. Un accordo, imposto dallo sponsor di entrambe, non sarebbe difficile tra loro. Il ridicolo negoziato di Doha, sotto la direzione di Usa e Arabia Saudita, non si evolverà in un accordo di pace. Aprirà invece una nuova stagione di maggiore miseria, soprattutto per le donne che vivono già una condizione di forte oppressione. Immaginare talebani e warlords insieme, è un vero incubo. Queste bestie selvagge renderebbero la vita molto più oscura e catastrofica per la nostra gente se si scatenassero insieme.

Quindi potrebbero accordarsi dividendosi il paese….

In parte è già così. Se i talebani si uniranno ai loro fratelli religiosi nel Governo, le tristi conseguenze in ogni settore della società, sono abbastanza prevedibili. Non sarà una sorpresa per noi. Tutti gli afgani hanno fresco nella memoria il regno talebano del terrore. Come i mujahedeen, i talebani potrebbero cercare di mascherare la loro brutta faccia misogina, almeno agli occhi del mondo. In questo sono tutti molto esperti. Il governo afghano ha già iniziato ad accogliere la loro ideologia medievale nelle leggi e nei decreti che emana. E questo avrà implicazioni catastrofiche.

Con questo futuro che si prospetta all’orizzonte, le forze democratiche e i militanti progressisti stanno preparando qualche piano di emergenza per proteggersi?

Le forze laiche e pro-democrazia avranno una sola scelta: resistere a qualsiasi minaccia che impedisca loro di perseguire gli obiettivi per i quali combattono. Le forze progressiste, nel nostro paese, hanno una lunga storia di lotta contro i regimi dispotici, quindi sono completamente preparate per qualsiasi scenario che possa presentarsi. Nel peggiore dei casi, potrebbero entrare in clandestinità.

Come vivono adesso le donne nelle province in mano ai talebani?

Hanno condizioni simili a quelle che avevano durante il governo talebano alla fine degli anni ’90, cioè vengono brutalmente picchiate, fustigate pubblicamente e uccise per aver violato i decreti talebani. Le donne nell’area controllata dai talebani sono private di tutti i diritti: lavoro, visibilità, opportunità di istruzione, voce, assistenza sanitaria e mobilità.

Che cosa prevedi che accadrà nel futuro dell’Afghanistan?

Dal momento in cui gli Stati Uniti hanno invaso il nostro paese, abbiamo assistito a una progressiva tendenza al rialzo della violenza, della corruzione, della produzione di droga, della povertà e delle migrazioni interne di sfollati, una tendenza che continuerà finché l’Afghanistan rimarrà sotto l’occupazione statunitense. Siamo fermamente convinte che una società pacifica basata sulla democrazia e la giustizia sociale non si potrà mai affermare in un paese sotto l’occupazione statunitense e dove il governo è sostenuto da stati reazionari come Iran, Pakistan, Arabia Saudita e Qatar.

Cristiana Cella, giornalista, scrittrice, sceneggiatrice. Segue le vicende afghane dal 1980, quando entrò clandestinamente a Kabul, vietata ai giornalisti, per documentare la resistenza della città contro l’invasione russa.  Dal 2009 fa parte del Direttivo dell’Associazione Cisda (Coordinamento Italiano Sostegno donne afghane), ha partecipato a diverse delegazioni in Afghanistan. Ha pubblicato un libro: ‘Sotto un cielo di stoffa. Avvocate a Kabul’, edito da Città del Sole Edizioni.

 

 

Bombe e promesse

“Sì, io c’ero. Ero alla mia Università, a Kabul, quella mattina del 2 novembre.” Nashrin ha 21 anni, studentessa alla facoltà di Lettere e Lingue.

“La lezione era sospesa. Qualche minuto di pausa, stavamo chiacchierando. Uno di noi è uscito dall’aula ed è tornato subito indietro, terrorizzato. Gridava di uscire immediatamente, dovevamo scappare. C’era un attacco in corso. All’inizio non lo abbiamo preso sul serio, abbiamo capito qualche secondo dopo, con il rumore assordante degli spari, sempre più vicini, e le urla che rimbombavano nei corridoi. Abbiamo avuto fortuna, siamo riusciti ad uscire dall’ Università. Altri compagni non ce l’hanno fatta, sono rimasti intrappolati, feriti o morti. Ho perso due carissimi amici quella mattina. Ogni giorno ci sono attacchi in Afghanistan, anche all’Università ne avevamo già subiti, ma quando ci sei in mezzo, vedi, senti il terrore e provi il dolore della morte di persone care, la vita non può mai più tornare come prima.”

Il Governo, si lamentano gli studenti, non fa niente per proteggerli. Né ha fatto nulla per le famiglie degli studenti uccisi o per i feriti. Nemmeno per far fuori i terroristi, tre, ce l’hanno fatta da soli. Sono intervenute le truppe Nato, unità della missione ‘Resolute Support’. Ragazze e ragazzi si sentono abbandonati, lasciati soli ad affrontare la paura e la morte, la scommessa di restare vivi. Ma sono ancora più severi nelle loro accuse.

“Lo stato afghano, continua Nashrin, è implicato in tutti gli attacchi che avvengono nel paese. Non direttamente, come esecutore, ma è complice. Lascia entrare nel nostro territorio armi e esplosivi, lascia fare. Del resto è ovvio. Il Governo è un mercenario degli Usa, del Pakistan, dell’Iran. E gli Usa, da sempre, sostengono talebani e fondamentalisti di tutti i tipi, usandoli come pedine nei loro giochi. Dunque è chiaro che il Governo non si impegni nella sicurezza.’

Talebani e Daesh si palleggiano le responsabilità degli attentati, negando, rivendicando, negando di nuovo. La firma sulla morte non ha alcuna importanza per questi ragazzi che ogni giorno devono lottare per strappare il loro futuro al disastro. Proprio loro sono diventati l’obiettivo più frequente degli attentati degli ultimi mesi.

“C’è una volontà di distruggere l’istruzione.- conclude Nashrin- Cercano di annientare la generazione futura, vogliono che restiamo tutti analfabeti, senza coscienza di quello che accade nel paese, incapaci di governarci, per poterci manovrare e instaurare i loro governi fondamentalisti senza ostacoli.”

Dasht-e-Barchi, quartiere di Kabul. Li avevo incontrati un anno fa. Ragazze e ragazzi, seduti per terra insieme, uno accanto all’altra, davanti alla vetrata luminosa che proietta le loro ombre intrecciate. Giovani donne e giovani uomini, seri, impegnati, che sorridono compunti, con i loro occhi a mandorla. Sono tutti hazara, sciiti, molti vengono da Bamyan, dove le persone sono più aperte e più ostili al fondamentalismo.

E questo i terroristi lo sanno.

È qui, in questo quartiere, pieno di casermoni in costruzione e polvere, ai margini della città, che l’attentatore si è fatto saltare in aria, la mattina del 24 ottobre, nell’ora in cui gli studenti entravano nel complesso scolastico. 13 ragazzi morti e decine di feriti. Nella foto, la desolazione del dopo, di ogni attentato: terra bruciata, scarpe spaiate, oggetti personali, macchie scure, plastica bruciacchiata, fogli di quaderni. Chissà se c’erano anche loro, i ragazzi che ho conosciuto, quella mattina alle 8:30? Chissà se sono ancora vivi.

“Aiutiamo gli studenti che arrivano qui a Kabul per la prima volta– mi raccontavano- Vengono dalla guerra, dalla povertà, alcuni da Bamyan come noi. Noi siamo i loro fratelli maggiori, li sosteniamo nelle scelte, troviamo un posto dove farli abitare, un piccolo lavoro. Parliamo molto, trasmettiamo le nostre idee di democrazia e uguaglianza, dei diritti delle donne.’

E anche questo lo sanno i terroristi.

Sono loro, questi ragazzi seri e generosi con le loro idee di resistenza, sono loro i nemici. È questo che talebani e Daesh vogliono colpire. I ragazzi di Dasht-e-Barchi hanno, ai loro occhi, due colpe imperdonabili: sono Hazara, sciiti, e vogliono studiare.

Dall’inizio dei ‘colloqui di pace’ gli attacchi, non solo contro gli studenti, si sono moltiplicati, assediano i civili in ogni spazio della loro vita. Secondo l’Onu, c’è stato un aumento dei massacri del 50% negli ultimi tre mesi. Il primo risultato, delle tanto decantate trattative, per la popolazione, è stato questo.

Un esempio. Solo nell’ultimo mese: il 15 dicembre saltano in aria il vice-governatore di Kabul Mahbubullah Muhibbi e il suo segretario. Contemporaneamente, è ucciso un poliziotto, durante un assalto in un’altra zona della città. Il 13 dicembre in due attacchi separati, con bombe e armi da fuoco, muoiono tre persone. Alla periferia di Kabul una bomba magnetica, attaccata a una macchina, fa quattro vittime, mentre, in un’altra zone della città, viene ucciso un Pubblico Ministero. Lo stillicidio di morte quotidiana della capitale. L’aumento giornaliero degli omicidi ‘mirati’.

Un amico anestesista, che lavora a Kabul, ci confessa, per la prima volta nella sua vita, di avere davvero paura: “Un giorno i terroristi uccidono un giornalista, il giorno dopo un medico, o un procuratore o un insegnante. Possono seguirti, controllarti. Non sai mai se e quando toccherà a te.”

Nelle province gli attacchi talebani continuano, ogni giorno, a mietere vittime nella polizia, nell’esercito, tra i civili.

A quale strategia risponde questa micidiale escalation di orrore?

C’è una logica interna al movimento, blandire i più estremisti, c’è la rivalità con Daesh, la guerra tra loro per il controllo del territorio. Ma non solo.

La violenza è un’arma di pressione per ottenere il massimo dai colloqui di pace. Per sedersi a questo tavolo, i talebani hanno già intascato la promessa della partenza delle truppe Nato e il rilascio di ben 5000 loro compari. Non poco.

Il 2 dicembre, finalmente, gli esponenti talebani e il Governo si sono accordati sulle regole procedurali da seguire durante i colloqui veri e propri, che stanno iniziando dal 5 gennaio a Doha.

Hanno stabilito la legittimità del Governo di Kabul, riconosciuto per la prima volta anche dai talebani. Le risoluzioni dell’Onu e le decisioni prese nella recente Loya jirga saranno la base di partenza per le discussioni comuni. Punto spinoso, e rimasto irrisolto: quale codice islamico costituirà la base giuridica dei negoziati? I talebani pretendono il codice Hanafita ma nella rappresentanza del Governo a Doha, ci sono musulmani sciiti che seguono la scuola giuridica Jafari.

Quali che siano i problemi dottrinali, ai talebani conviene giocare la partita.

Si sentono forti adesso, sono i primi attori della scena, sul palcoscenico internazionale.

La guerra ventennale che ha fatto strage di militari e ha orribilmente ucciso e mutilato migliaia di civili (diecimila solo nel 2019), è stata un successo per la galassia terrorista. Successo politico, diplomatico, militare ed economico. Degli ‘accordi di pace’ approfitteranno al massimo. Sono gli interlocutori degli Usa e del fragile e corrotto Governo di Kabul, siedono nelle hall di Doha insieme agli inviati di Trump, tengono in scacco l’esercito afghano, sempre più sconfitto e demoralizzato, e quelli dell’occidente da 19 anni, governano direttamente quasi la metà delle province afghane e altre le controllano indirettamente, sono diventati economicamente autonomi grazie al sempre più fiorente traffico di eroina, acquistata anche dalle grandi case farmaceutiche dell’Occidente e dei minerali preziosi, al ricco sostegno di donatori stranieri e alla domestica attività quotidiana di estorsioni su piccola e larga scala. Un budget complessivo di circa 1,6 miliardi di dollari all’anno. Molti hanno business e proprietà nel vicino Pakistan. Nelle trattative hanno il coltello dalla parte del manico, saldamente tenuto con la violenza e la brutalità di tanti morti civili. L’escalation impone, sotto la spada del ricatto degli attentati continui, traguardi sempre più alti.

Tratteranno per veder riconosciuto formalmente il potere che di fatto già detengono in quasi metà del paese e una partecipazione più estesa e autorevole al governo. C’è chi prevede che riusciranno anche a cambiare la Costituzione. Molto probabile che ne facciano le spese i pochi articoli a favore dei diritti delle donne.

Il Governo guarda al futuro e si porta avanti, cominciando dai bambini.

“Il Ministero dell’Istruzione, racconta Nadia, di Rawa (Associazione Rivoluzionaria delle Donne Afghane) –ha rilasciato una dichiarazione secondo la quale tutti gli alunni delle scuole primarie, nei primi tre anni, devono essere istruiti nelle moschee o nelle madrasa per dare agli studenti una “potente identità islamica”. Questa decisione, oltre a permettere ai mullah di molestare sessualmente i bambini piccoli, avrà implicazioni catastrofiche”.

Il traffico di droghe, eroina e anfetamina, la nuova scoperta, continuerà indisturbato a riempire le casse talebane. Nessuno ovviamente lo dice, ma è plausibile che ci sia anche questa clausola negli accordi.

Possono perfino permettersi di non rispettare le promesse, come quella di tagliare i ponti con Al Qaeda. Un documento segreto della Nato, reso pubblico il mese scorso, mostra la consapevolezza degli americani che non si fanno alcuna illusione su questo impegno. Yakoub, il nuovo futuro capo talebano, potrà tranquillamente calcare le orme di suo padre Omar. Il documento conclude che per far fuori i talebani, come è stato per i gangster americani, bisogna colpirne le finanze. Tracciare, bloccare, mandare a monte i numerosi business, soprattutto eroina e minerali preziosi.

20 anni di massacri di militari e civili, uomini, donne, bambini soprattutto, e ci si ritrova come nel 2001, solo che i terroristi sono molto più forti e gli attacchi sempre più sanguinari.

La gente ha paura, soprattutto le donne.

Pashtana è direttrice dell’Orfanotrofio di Afceco, che ospita 62 ragazze.

“Ce lo dice la nostra Storia. Con l’avanzata dei talebani siamo minacciati dal ritorno di un passato spaventoso. Per questo siamo molto preoccupati per i pericoli che assediano le nostre studentesse e per le minacce che riceviamo. In questo momento la sicurezza è una priorità, più urgente del solito, e ci stiamo attrezzando.”

L’Afghanistan del futuro potrebbe essere sempre più simile all’Emirato Islamico di triste memoria e sempre meno a una, anche solo di facciata, democrazia. Un mondo in cui i diritti umani e soprattutto quelli delle donne saranno sacrificati. Se con i ‘colloqui di pace’ cambierà qualcosa, è poco probabile che sia in meglio.

Cristiana Cella, giornalista, scrittrice, sceneggiatrice. Segue le vicende afghane dal 1980, quando entrò clandestinamente a Kabul, vietata ai giornalisti, per documentare la resistenza della città contro l’invasione russa.  Dal 2009 fa parte del Direttivo dell’Associazione Cisda (Coordinamento Italiano Sostegno donne afghane), ha partecipato a diverse delegazioni in Afghanistan. Ha pubblicato un libro: ‘Sotto un cielo di stoffa. Avvocate a Kabul’, edito da Città del Sole Edizioni.

Talebani e Covid

La voce è suadente, carezzevole e parla inglese. Accompagna con cura le immagini, le culla.

Kalashnikov e termometro

Un gruppetto di talebani, lanciarazzi in spalla, turbante bianco e mascherina chirurgica, che trattiene a stento un’indomabile barba nera, puntano la ‘pistola’ alla fronte dei loro compaesani, per misurare la temperatura. Altri, armati solo della completa tenuta d’emergenza, nuova di zecca, camice, tuta, mascherina e guanti, distribuiscono kit di disinfezione alla popolazione, opuscoli con le regole da seguire, materiale sanitario, eseguono test, mentre in secondo piano passano le ambulanze. La voce, in una surreale atmosfera pacata, elenca lentamente tutto quello che la Commissione Sanità dell’Emirato Islamico dell’Afghanistan fa e farà, per proteggere la popolazione, casa per casa, villaggio per villaggio.

È uno dei tanti video, prodotti dai talebani, che circolano al tempo del Covid, in Aghanistan. Una nuova veste del gruppo, lontana dalle esposizioni gloriose consuete, sconosciuta per la popolazione. Sono riusciti a stupire, dopo 25 anni.

I migliori mujahiddin- proclamano i talebani-hanno lasciato i campi di battaglia per trasformarsi in personale sanitario. Assicurano i cittadini che il governo dell’Emirato ha la pandemia sotto controllo. I rimpatriati dall’Iran, che si muovono nelle loro province, sono sottoposti a test. Matrimoni, funerali, riunioni sono vietati, compresa la preghiera in moschea. Ognuno preghi Allah per conto suo, mangi cibo halal e vegetali con vitamina C che saranno distribuiti alla popolazione. Incoraggia i credenti, che fanno le abluzioni prima di ognuna delle cinque preghiere giornaliere, ad usare, nell’occasione, anche il sapone. Si vedono uomini di tutte le età, delle donne nemmeno l’ombra, naturalmente, seduti in un cortile, che partecipano a un seminario informativo sul virus, ascoltano seri le raccomandazioni, e intascano mascherine e sapone. Ringraziano compiti. Ringrazia anche il Ministero della Salute, seppure con riserva. I talebani proclamano di garantire un passaggio sicuro nelle province sotto il loro controllo, al personale sanitario governativo e della Croce Rossa e di avere istituito centri per la quarantena dei contagiati.

Questo è il messaggio che deve passare: la Commissione si occupa della popolazione e della lotta comune al Corona virus. E se ne occupa meglio del Governo.

Il virus fornisce ai talebani un ottimo teatro per la propaganda: legittimare se stessi come governanti del paese e delegittimare il Governo di Kabul. Basta solo mostrarsi un po’ meno incompetenti. Non ci vuole molto. La campagna di prevenzione viene lanciata a fine marzo dalla provincia di Jowzjan e Logar e continua la sua strada. Si moltiplicano i video e gli inviti ai meetings. Ma non tutti si lasciano incantare. Una messinscena , dicono alcuni. In realtà del virus non sanno niente, proclamano altri. I mezzi di soccorso sono bloccati sulle strade controllate dai talebani. C’è chi ha verificato sul campo e ha scoperto che il misuratore di temperatura è fatto di legno e plastica. Finto.

“Se vogliono davvero far funzionare la campagna antivirus e salvare le persone, dice Mirwais, abitante del Nangarhar, per prima cosa devono smettere di spararci addosso e aderire al cessate il fuoco.”

Ma qui i talebani non ci sentono. Il cessate il fuoco per superare la crisi, proposto da Governo e Nazioni Unite, è rifiutato dai talebani. La guerriglia continua, almeno contro le forze governative. Gli attentati aumentano, come gli attacchi ai presidi sanitari. Secondo UNAMA, nella prima ondata Covid, dal 11 marzo al 23 maggio 2020, ci sono stati più di 15 attacchi mirati agli operatori sanitari.

Il Ministero ha fatto presente che, in pieno conflitto armato, non è possibile alcun contrasto al virus. Ma i talebani portano avanti la loro doppia immagine, senza scomporsi, terroristi e crocerossini. Fucile e termometro.

Entrambe utili a sfruttare la pandemia per i propri fini. I talebani hanno capacità tecnologiche, dimestichezza con internet e social media, e curano la propria immagine con perizia. Con immagini accattivanti e promesse si conquistano seguaci. Ma anche con l’ordine sociale e amministrativo. Ci tengono a mostrarsi capaci di governare, del resto l’hanno già fatto. E governare meglio di Kabul. A questo aspetto i talebani lavorano da tempo. Lo sanno fare. Sia nei distretti che controllano direttamente sia in quelli in cui gestiscono il potere in una sorta di ‘governo ombra’. Le tasse, le bollette dell’elettricità, le rate scolastiche si pagano ai talebani. Tasse che, spesso, sono vere e proprie estorsioni.

“Ogni distretto è diverso, il potere è distribuito a macchia di leopardo fin nei più piccoli villaggi. Una continua contrattazione. I talebani hanno diverse strategie per gestirlo – dice Narghez di Rawa- Sostanzialmente tre. O controllano direttamente e apertamente il territorio, o c’è la guerra aperta con le autorità governative, o accettano i governatori nominati da Kabul, completamente esautorati, ‘governatori fantasma’, e gli fanno fare quello che vogliono, governando attraverso di loro.”

Purtroppo, l’ordine talebano, con le sue aberranti regole, precise, basate sul Corano e non discutibili, è apprezzato da una parte della popolazione. Maschile, di sicuro. Per le donne è e sarà lo stesso inferno degli anni ’90.

C’è un’ipotesi o meglio una speranza: che un disastro o una calamità naturale possano favorire la pace, tutti uniti contro il comune nemico, smettiamo di ucciderci. Ma è stata quasi sempre delusa. Sono pochissimi nel mondo i casi in cui questa logica ha funzionato. L’Afghanistan non è tra questi.

Il virus all’attacco dei taleban.

Qualcosa di buono sembra che il Covid l’abbia fatto. Ha decapitato la dirigenza talebana.

Secondo diverse fonti, Hibatullah Akunzada si è ammalato ed è morto di Covid. Nessuna conferma ufficiale ma il capo talebano non si è più visto e c’è un nuovo leader in ascesa. Una poltrona non di tutto riposo. I talebani sono un movimento composito, con interessi e padroni diversi e contrastanti. Non è facile farsi accettare e tenere insieme le diverse fazioni, due soprattutto: Rete Haqqani , vicina ad al Qaeda e all’Isi (Servizi segreti pakistani), e la shura di Quetta.

Nel maggio 2016, quando l’allora dirigente Mansour, è ucciso da un drone americano, lo scettro passa ad Akunzada, un mullah, uno studioso, esperto di testi sacri, della giustizia islamica, responsabile delle fatwa emanate dal gruppo. Era stato il vice di Mansour insieme a Sirajuddin Haqqani. Una volta al potere, sceglie con cura i suoi luogotenenti: lo stesso Haqqani, comandante della potente rete, e Muhammad Yakoub, giovane figlio del mullah Omar. Entrambe le fazioni sono soddisfatte. Ma ecco che il virus si porta via anche il secondo di Akunzada, Sirajuddin Haqqani. Malato, morto o troppo debole per il comando, non si può dire con certezza ma, anche lui, sembra fuorigioco.

Così il Covid spiana la strada all’ambizioso Yakoub che non vedeva l’ora di emergere. Un documento della Nato lo vede già al comando entro quest’anno. Il giovane leader, capo della Commissione militare talebana, amico del Pakistan, dovrà mantenere il favore dei membri della shura di Quetta, di cui fa parte, e tenere a bada la rete Haqqani.

Finora si è mostrato favorevole agli accordi di pace. Ha al suo fianco mullah Baradar, vicino al padre, negoziatore capo a Doha con gli Usa. Ma le fazioni interne non sono sempre d’accordo. I più radicali, contrari ai colloqui, emigrano verso Daesh. E lui dovrà frenare l’emorragia. L’intensificarsi degli attacchi di questi ultimi mesi, potrebbero servire anche ad accontentare gli estremisti.

Pare che Yakoub possa contare anche sull’appoggio dell’Arabia Saudita, impegnata a contrastare, all’interno della galassia talebana, gli uomini filoiraniani, contrari agli accordi. A sentire le testimonianze, il giovane leader, non sembra ancora molto popolare. Fino al 2015 non era nessuno. Un figlio di papà, insomma, all’ombra del grande carisma del mitico fondatore Omar. Su questa base fa strada. Ha soldi per fidelizzare i seguaci. Entra nella shura di Quetta e diventa capo della Commissione militare di più della metà delle province afghane.

Nell’ambiente dell’intelligence afghana viene descritto come un giovane uomo molto furbo, legittimato dalla famiglia e molto centrato su se stesso. Poco consapevole della realtà afghana, avendo vissuto sempre in Pakistan. Addestrato alla guerriglia da un gruppo terrorista pakistano responsabile di attentati contro obiettivi indiani in Afghanistan e in Kashmir. Sembrerebbe quindi una pedina sicura per il Governo pakistano. Ma nonostante le critiche, non va sottovalutato affatto.

Ha capacità diplomatiche e militari e, poi, Yakoub si occupa di soldi. Tanti. Le finanze talebane sono prospere. Il capitale ammonta circa a un miliardo e 6 di dollari l’anno. E Yakoub si impegna ad espanderlo ulteriormente, nei suoi principali settori: traffico di droga, minerali preziosi, estorsioni e donazioni.

Vedremo se riuscirà a sfuggire al virus e alle numerose insidie del destino di un capo.

Nel frattempo, a Doha, i negoziati in corso tra il governo afgano e i Taliban sono arrivati a un punto di svolta. Se fino ad ora, dal 12 settembre, le discussioni vertevano esclusivamente sulle regole procedurali che costituiscono la base legale dello svolgimento delle future negoziazioni, a inizio dicembre le due parti sono arrivate ad un accordo. Certo, trovare un punto di incontro sulle regole del gioco è stato un passo importante, ma quella che si apre ora è una finestra di discussione su temi pungenti e fonte di grande disaccordo: i diritti delle donne, l’istruzione, un cessate il fuoco permanente. Il 5 gennaio inizia il confronto, sempre a Doha, perché i talebani si sono rifiutati di spostare i colloqui in Afghanistan.

Cristiana Cella, giornalista, scrittrice, sceneggiatrice. Segue le vicende afghane dal 1980, quando entrò clandestinamente a Kabul, vietata ai giornalisti, per documentare la resistenza della città contro l’invasione russa.  Dal 2009 fa parte del Direttivo dell’Associazione Cisda (Coordinamento Italiano Sostegno donne afghane), ha partecipato a diverse delegazioni in Afghanistan. Ha pubblicato un libro: ‘Sotto un cielo di stoffa. Avvocate a Kabul’, edito da Città del Sole Edizioni.

Il CISDA a sostegno del Kurdistan

La storia dell’impegno del CISDA per il Kurdistan ha origine nel gennaio 2015, quando tre esponenti del CISDA si incontrano a Londra con alcune militanti curde della comunità locale. Da quella conversazione, in cui visioni ed esperienze politiche si intrecciano e sempre più chiaramente si rivelano consonanti, nasce il progetto di una delegazione in Kurdistan composta da compagne del CISDA e da giornaliste e altre attiviste, delegazione che si concretizza effettivamente nei primi quindici giorni del marzo 2015.

L’incontro di Londra non era casuale: già da mesi, dall’autunno 2014, il CISDA stava seguendo con attenzione le manifestazioni che si stavano moltiplicando in Afghanistan a sostegno dell’eroica resistenza di Kobane di fronte all’avanzata dell’ISIS.

La delegazione aveva quindi il compito di costruire un ponte tra militanti politici curdi e militanti dei movimenti democratici afghani, con l’obiettivo di sostegno politico vicendevole. Inoltre, si volevano portare aiuti economici all’esausta popolazione curda di Kobane sfollata a Suruç.

Tra il 1° e il 15 marzo 2015, la delegazione organizzata dal CISDA ha quindi consegnato i fondi raccolti in Italia (10.000 euro) suddividendoli tra i seguenti beneficiari:

  • Rojava Solidarity di Suruç, per l’acquisto beni di prima necessità per gli sfollati di Kobane ospitati nei campi profughi della città;
  • Municipalità di Kobane, per la ricostruzione della città;
  • Campo Profughi nei pressi di Diyarbakir, per gli Yazidi sfollati;
  • partito HDP, per attività a favore degli sfollati di Kobane (allestimento e mantenimento campi);
  • Women Peace Initiative Center di Istanbul, per il pagamento delle spese di viaggio delle volontarie che si recano a lavorare tra i profughi di Kobane per periodi che variano da tre a sei mesi;
  • Heyva Sor (Mezza Luna Rossa del Kurdistan).

Il CISDA intende proseguire la cooperazione con queste realtà politiche curde, senza per questo sottrarre attenzione e impegno per le attività delle associazioni che da sempre sostiene in Afghanistan. Terrà quindi aperta la comunicazione e lo scambio con l’UIKI (Ufficio Italiano Informazioni Kurdistan), con la Mezza Luna Rossa del Kurdistan e con le compagne del Movimento di liberazione curdo, continuando anche a raccogliere fondi e organizzando iniziative a favore del Kurdistan.

Questa apertura politica al Kurdistan è non solo condivisa, ma anzi decisamente incoraggiata dai movimenti democratici afgani con i quali collabora il CISDA.

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Per approfondire scarica gli opuscoli

  • La nazione democratica

    La nazione democratica permette alle persone di diventare nazione loro stesse, senza dover assecondare il potere o lo stato, di diventare nazione utilizzando una politicizzazione profondamente necessaria.

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  • Confederalismo democratico

    Il confederalismo democratico è un paradigma sociale non statuale. Non è controllato da uno stato. Allo stesso tempo, il confederalismo democratico è il progetto culturale e organizzativo di una nazione democratica.

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  • Guerra e pace in Kurdistan

    I Curdi devono essere liberi di organizzarsi in modo tale da poter vivere la propria lingua e cultura e da potersi sviluppare economicamente ed ecologicamente. Curdi, Turchi ed altre culture potrebbero così vivere insieme in Turchia, sotto lo stesso tetto di una nazione democratica.

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  • La rivoluzione delle donne

    La rivoluzione di genere non riguarda solo la donna. Riguarda la civiltà vecchia di cinquemila anni della società divisa in classi che ha lasciato l’uomo in condizioni peggiori della donna. Quindi questa rivoluzione di genere significherebbe simultaneamente la liberazione dell’uomo.

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Rukhshana

La storia di Rukhshana, è come quella di Giulietta e Romeo, ma è ambientata in Afghanistan.

Nasce in una provincia povera del Nord, il Panjshir. Dopo la sua nascita, la famiglia si sposta a Kabul e va a vivere in un vecchio quartiere, in quelle case colorate, una attaccata all’altra, che si arrampicano sulla collina, in mezzo alla città, senza acqua né luce. Il padre è un lavoratore a giornata e fa molta fatica a sfamare la famiglia. Ha una mentalità chiusa e tradizionalista e non permette alle figlie di andare a scuola. Rukhshana è ancora una ragazzina quando si innamora perdutamente del figlio dei vicini, ricambiata con gioia. Il ragazzo va a casa sua diverse volte per chiederla in sposa e viene sempre rifiutato. Rukhshana è picchiata dai fratelli e dal padre e minacciata di morte se continua a frequentarlo. La sola ragione dell’opposizione della famiglia è la povertà del ragazzo. L’innamorato non si rassegna, ma il padre di Rukhshana minaccia di ucciderlo se continuerà a proporsi come fidanzato.

Rukhshana e il ragazzo non riescono a far cambiare idea al padre, ma sono innamorati e determinati a sposarsi ad ogni costo.

Un giorno, la famiglia decide di tornare in Panjshir. Rukhshana li sente parlare da dietro la porta. È spaventata, disperata. Sarebbe la fine del loro amore. Decide che è il momento di prendere in mano il suo destino. Pianifica con cura i dettagli, e scappa di casa per unirsi al ragazzo che ama. L’amore rende forti e arditi. La famiglia è furiosa. Hanno disobbedito, hanno sfidato le regole e l’autorità del padre. Devono essere puniti. Ma le ricerche non danno nessun esito. I due ragazzi sembrano spariti, la città è grande e piena di gente. La fortuna li assiste. Ce l’hanno fatta. Decidono insieme di andare in Pakistan per poter vivere il loro amore in pace, e lì si sposano come avevano deciso da molto tempo. Costruiscono la loro vita piena di amore e di cura l’uno per l’altra. Hanno 4 figli, due maschi e due femmine. Nonostante le povere condizioni di vita, sono molto felici. Rimangono in Pakistan diversi anni, solo per proteggersi dalle possibili ritorsioni della famiglia di lei.

Ne passano 14. I due sposi pensano che ormai la famiglia di Rukhshana li avrà dimenticati o perdonati. Così decidono di rientrare in patria.

Purtroppo si sbagliano. Solo una settimana dopo il loro arrivo a Kabul, il marito di Rukhshana viene ucciso dal fratello della donna.

Rukhshana è distrutta da questa tragedia. Ha perso l’uomo che ha tanto amato e si ritrova sola con quattro figli da mantenere e nessun mezzo per farlo. È analfabeta, senza istruzione né capacità di lavorare. Una vedova in Afghanistan non esiste, non ha diritti, né possibilità di decidere. È costretta a vivere con la famiglia del marito, e a sottostare ad ogni loro richiesta. Così fa Rukhshana, vive sotto tutela del cognato. Sta, adesso, con i suoi figli, in una stanza che lui le paga, ed è costretta ad obbedire a tutte le decisioni che il cognato prende per lei e per i suoi figli. Le figlie non hanno il permesso di studiare e sono confinate in casa. Solo il maschio più grande, di 13 anni va a scuola e il resto della giornata lavora. Porta dei carichi di spazzatura fuori dalla città e questo gli permette di avere un piccolo guadagno. Rukhshana, come vedova, secondo le idee della famiglia, non può lavorare. Se prova a cercare lavoro la picchiano e la insultano. È prigioniera.

È molto angosciata e pensa di non riuscire ad andare avanti con una vita così miserabile, senza dignità, né rispetto, né futuro per lei e per i suoi figli. È dipendente in tutto dai parenti del marito. La sua vita e quella dei suoi figli sono nelle loro mani. Deve obbedire a qualsiasi ordine.

“Non desidero altro che uscire un giorno da questa situazione in cui sono imprigionata. Vorrei poter decidere per me e per i miei figli, poterli mantenere e soprattutto mandarli tutti a scuola perché non siano senz’armi, né possibilità in questa difficile vita. La sola ragione per la quale ho bisogno di aiuto è quella di salvare i miei figli da questa vita miserabile e poterli aiutare a diventare degli esseri umani fieri di se stessi come il loro padre ha sempre sognato” – dice Rukhshana. Rompere la dipendenza economica è il primo, fondamentale, passo.

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Una storia del progetto Vite preziose.

La fotografia è di solo carattere grafico e non rappresenta la donna protagonista della storia. Data la attuale situazione in Afghanistan, per evitare l’identificazione delle donne i nomi sono stati modificati, così come i luoghi dove si svolgono i fatti.