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Autore: Patrizia Fabbri

Intervento di Malali Joya all’evento Voices for Peace

Cari amici, l’Afghanistan è in un momento molto critico. Da un lato, la pandemia di Covid_19 sta duramente influenzando la vita del nostro popolo, ma dall’altro, dopo due decenni di guerra, distruzione e massacro di centinaia di migliaia di civili afgani, l’amministrazione statunitense ha firmato un “accordo di pace” con i talebani. La “pace” di cui parla la Casa Bianca è solo un grande inganno nei confronti del pubblico americano e della gente del mondo.
Questa guerra brutale è lungi dall’essere finita, perché un sinistro accordo con un selvaggio gruppo terrorista armato e sostenuto da agenzie di intelligence straniere non porterà mai la pace.
Sono fermamente convinta che la pace senza giustizia non abbia senso. Cari amici, tutti voi avete sentito l’annuncio di Joe Biden sul ritiro delle truppe dall’Afghanistan entro settembre. Spero che gli occupanti lascino l’Afghanistan il più presto possibile. Ho chiesto ripetutamente che gli occupanti stranieri lascino il nostro paese.
Nessuna nazione può dare la liberazione a un’altra nazione. Negli ultimi 20 anni, gli Stati Uniti hanno ucciso circa un milione di afgani, direttamente o indirettamente. Hanno sganciato la madre di tutte le bombe, usato bombe a grappolo e fosforo bianco, creato una mafia e corrotto l’economia. Tutto questo ha inquinato il nostro ambiente e reso il paese la capitale mondiale della droga.
Purtroppo la NATO ha seguito le orme degli USA. Se USA e NATO lasciano l’Afghanistan, la spina dorsale di tutti i terroristi Jihadi, dei Talebani e dell’ISIS si romperà.
Mi auguro che, quando se ne andranno, portino via con loro tutti i terroristi. Non c’è dubbio che a breve termine, il ritiro degli occupanti stranieri può portare ad alcuni problemi di sicurezza ed economici ma nel lungo periodo è nell’interesse del nostro popolo che se ne vadano. L’assenza dei militari statunitensi significherà che l’Afghanistan non sarà considerato una minaccia per i paesi della regione come Cina, Iran, Pakistan, India e Russia e impedirà loro di intromettersi nei nostri affari interni, poiché ognuno di questi paesi ha i suoi burattini in Afghanistan per tutelare i propri interessi strategici.
L’attuale corsa agli armamenti tra le grandi potenze e le loro guerre per procura in Siria, Iraq, Palestina, Yemen, Ucraina, Sudan, Libia ecc. scatena il pericolo di una terza guerra mondiale che avrà catastrofi inimmaginabili per la Terra.
Le grandi potenze guidate dal pentagono stanno investendo su gruppi terroristici e medievali come i talebani, l’ISIS, Al Qaeda, Abu Sayyaf, Boko Haram ecc. per portare avanti i loro interessi strategici; ma i loro atti di terrore non si limitano alla povera gente delle nazioni citate ma si espandono alle città dei paesi occidentali, come abbiamo assistito a molti atti vili nelle città europee negli ultimi anni.
Fermare la guerra selvaggia e le brutalità e stabilire una pace duratura è la responsabilità morale di ogni cittadino consapevole del mondo.
Quindi è il momento di lavorare per un nuovo e migliore mondo di giustizia. Vogliamo che tutti i paesi occupanti si ritirino dall’Afghanistan, ma la sofferenza del popolo afgano ha ancora bisogno della solidarietà di movimenti, individui, partiti e attivisti di tutto il mondo che amano la giustizia e sono progressisti. Lunga vita alla libertà, alla democrazia, alla solidarietà internazionale, alla pace e alla giustizia sociale.

Per vedere l’intera sessione di Voices for Peace clicca qui

 

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Afghanistan: aiutiamo chi scappa, ma anche chi resta

Cisda: “La vera emergenza afgana è la questione democratica”
La famiglia di Sahar, con due bambini, sta attraversando oggi la porosa frontiera col Pakistan. Per cercare scampo dai talebani e superare il confine afghano, ogni persona ha pagato ai trafficanti 12000 rupie pachistane, mentre il viaggio normalmente ne costerebbe 2000.
Il prezzo è in continuo aumento, la domanda in crescita. Quindi, anche questa volta, fugge solo chi può pagare.
Con questa famiglia, di cui noi del Cisda (Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane) abbiamo notizia certa, ci sono molti altri afghani.
Affrontano lunghi tragitti a piedi ed enormi pericoli, senza che la loro sorte sia sotto i riflettori.
Dall’aeroporto di Kabul, intanto, sono già partiti diciottomila cittadini. Un’intera generazione di intellettuali e professionisti che prende letteralmente il volo verso l’Occidente.
È comprensibile che chi può fugga. Il terrore delle perquisizioni nelle case, l’incubo per le ragazze di finire in “sposa” a un combattente, le violenze e le vendette che accompagnano la presa del potere specie nelle aree rurali e remote senza testimoni, sono una tragedia innegabile che sta provocando soprattutto ulteriori rifugiati interni.
Questi erano, secondo dati ONU, già due milioni a causa degli ultimi 20 anni di guerra, per sfuggire ai bombardamenti e agli scontri di cui la Nato è stata tra i protagonisti.
Il riconoscimento dello status di rifugiato e il diritto d’asilo a chi è in pericolo sono sacrosanti e vanno applicati, secondo la Convenzione di Ginevra.
Ma trasferire in massa decine di migliaia di afgani, in Occidente o nei paesi limitrofi, non rappresenta una soluzione politica alla crisi del paese di cui siamo corresponsabili.
Un Afghanistan privato dei suoi elementi più colti, di chi sarebbe in grado di rafforzare l’alternativa democratica, sarà più facilmente asservibile agli interessi geopolitici che da sempre sono alla base delle continue interferenze nel paese.
In questo gli interessi dei talebani e di potenze straniere sono convergenti, e non è una bella notizia. Una convergenza intorno alla vera emergenza afghana: la questione politica e democratica.

CISDA risponde all’articolo di Giuliano Battiston del 4 maggio su “il manifesto”

Lettera inviata al “il manifesto” il 7 maggio 2019

Cari compagni del “il manifesto”,

abbiamo letto il pezzo di Giuliano Battiston del 4 maggio nel quale si parla della Loya Jirga a Kabul e siamo in totale dissenso. A partire dalla foto, che vede una platea di donne plaudenti.

Diciotto anni fa gli USA hanno occupato il paese e ne decidono ogni passo, a partire dalla scelta dei presidenti. Hanno dato armi e potere istituzionale a gruppi di criminali jihadisti che sono tutt’altro che espressione della democrazia. Hanno lasciato che i diritti delle donne e i diritti umani continuassero a essere calpestati (e basta andare a leggere i report di HRW per scoprirlo), hanno lasciato che la produzione e il traffico di eroina si alzasse fino ad arrivare al 95% della produzione mondiale. Hanno lasciato che nel paese penetrasse l’IS, che ogni giorno organizza attentati ai danni della popolazione civile. I talebani, quelli che gli USA hanno usato come pretesto per invadere un paese fondamentale dal punto di vista geostrategico e delle risorse, ora sono stati tolti dalla lista delle organizzazioni terroriste e sono coloro con cui si cerca di trattare in cambio di concessioni che andranno a peggiorare ulteriormente la condizione delle donne e della popolazione civile. Come si fa a credere che un gruppo di terroristi che, come l’IS, non fa che organizzare attentati per affermare la sua supremazia, che lapida le donne nella pubblica piazza per adulterio, che impedisce alle ragazze di frequentare la scuola possa avere “punti comuni” con un sistema democratico?

RAWA, l’Associazione Rivoluzionaria delle Donne Afghane, in un recente comunicato scrive che “il popolo afghano vuole la pace con tutte le sue forze, ma fare pace con i talebani, che così avranno più potere e privilegi di prima, significa tornare nell’inferno che la nostra gente ha vissuto durante il loro regime. Questa “pace” metterà solo le basi per nuove guerre, più devastanti e distruttive”.

Dichiarazioni analoghe sono state fatte da Hambastagi (il Partito della Solidarietà afghano), da Malalai Joya (ex deputata ancora in clandestinità per le minacce ricevute) e da Bilquis Roshan (senatrice nel parlamento afghano).

Se gli USA e la coalizione internazionale che li ha sostenuti avessero davvero voluto portare pace in Afghanistan avrebbero speso i miliardi di dollari che sono stati bruciati in questa vicenda per sostenere le forze laiche e democratiche del paese, invece di cercare alleanze con un pugno di criminali di guerra.

Il CISDA è un’associazione che lavora dal 1999 a fianco di diverse organizzazioni democratiche che lavorano in Afghanistan, sostenendo i loro progetti politici e sociali; abbiamo costanti contatti con loro e almeno una volta all’anno organizziamo delegazioni di persone che vogliono conoscere la situazione.

Ci auguriamo che d’ora in avanti il “manifesto” non presti il fianco a posizioni filo USA come fa il pezzo di Battiston ma ascolti e pubblichi la voce delle realtà democratiche e laiche che agiscono nel paese tra mille difficoltà.

Le compagne del CISDA

Staffetta femminista aderisce a Un ponte di corpi

Staffetta femminista italia-afghanistan raccoglie il testimone lanciato da lorena fornasir per un movimento condotto da donne che contribuisca ad aprire i confini europei e rivolge alle persone e alle organizzazioni che hanno partecipato alla rete un ponte di corpi un appello a partecipare.

Collettivo promotore di STAFFETTA FEMMINISTA ITALIA-AFGHANISTAN, un gruppo di attiviste, operatrici e volontarie che operano nella lotta alla violenza di genere; in aiuto alle migranti e ai migranti; nel campo dei diritti umani e del supporto allo sviluppo, anche in paesi in guerra; nel movimento femminista. Desideriamo operare in stretta connessione con le reti nazionali ed europee che richiedono un cambio delle politiche migratorie europee e abbiamo lavorato alla preparazione della piazza di Monza del 6 marzo per UN PONTE DI CORPI: esperienza molto generativa per la nostra idea.

Desideriamo riprendere alcune riflessioni che derivano dagli spunti offerti da Lorena e Gian Andrea, e dallo scambio fra tutte le persone che hanno partecipato alle riunioni preparatorie dell’iniziativa del 06/03/21. Le abbiamo condivise e rielaborate nel nostro collettivo di attiviste e le rilanciamo per farne ulteriormente memoria comune nella rete di UN PONTE DI CORPI:

  1. Innanzitutto, apprezziamo l’idea che il lavoro di cura, il prestare aiuto concreto per alleviare la fame e le ferite lungo le rotte, in Italia in quanto paese di transito, e nei paesi d’origine, non abbia un carattere umanitario, ma prioritariamente politico: l’attenzione alle ferite non è, e non deve mai essere, inferiore di quella che dobbiamo porre rispetto alle cause e alle responsabilità, e anche al nostro ruolo di singoli cittadini in tutto questo. Alcune realtà attive in Medioriente nello studio dei movimenti femministi locali, sottolineano da tempo la NGOization (ONGizzazione in italiano) dell’attivismo che prima era prioritariamente politico: in questo processo di mutazione, l’attenzione viene spostata sulla cura, che è quella che riceve finanziamenti dalle istituzioni umanitarie globali o da organizzazioni estere, e gradualmente lo spirito critico si spegne, mettendo a tacere la capacità di opporsi alle ingiustizie e di lavorare per il cambiamento. Questo è un processo di mutazione della natura dell’impegno civile su cui vigilare anche da noi, perché quello che manca oggi globalmente è una rappresentanza politica capace di incidere sulle scelte che influenzano i disastri che abbiamo sotto i nostri occhi.
  2. Seconda riflessione che consideriamo alla base di questa nostra esperienza del 6 marzo, è la consapevolezza che le cause delle diseguaglianze che sono alla base dei flussi migratori, risiedono innanzitutto nelle scelte politiche e negli interessi economici europei e delle nazioni potenti del mondo, compresa l’Italia. Vi parliamo dell’Afghanistan attraverso un veloce flash, perché è cruciale nella proposta che portiamo alla vostra attenzione (STAFFETTA FEMMINISTA arriverà – in questa sua prima edizione – proprio in questo paese dell’Asia centrale): da terreno di scontro del Great Game fra le grandi potenze fin dal 19° secolo, con ingente foraggiamento in armi e soldi agli attori locali e regionali dello scontro soprattutto a partire dagli anni ‘80, l’Afghanistan è diventato un narco-stato da cui proviene il 90% della produzione mondiale di oppio, e uno dei flussi più importanti di migranti forzati che percorrono la rotta balcanica per arrivare in Europa, fuggendo da 40 anni di guerra: i primi 10 con l’invasione sovietica (1979-1989), poi altri 10 di guerra civile fra signori della guerra e talebani (1990-2001 che è la fase dell’escalation della produzione di oppio); e infine altri 20 con un intervento diretto degli USA e dei suoi alleati, nei quali la produzione di oppio e eroina è aumentata a dismisura. Come mai tutta questa produzione di oppio? Da chi è controllata e tollerata? Sono interrogativi che richiedono un’analisi del ruolo degli USA e dei finanziatori regionali (Pakistan e Arabia Saudita) nel consolidamento della leadership fondamentalista in funzione strategica contro l’influenza russa e cinese e nonostante la caccia a Bin Laden nel cuore delle montagne afghane e i proclami USA di voler estirpare i campi d’oppio nel paese. La realtà è che l’oppio viaggia senza problemi attraverso le frontiere, le persone in fuga, invece, vengono bloccate più volte e in modo violento lungo il percorso. Le cause dell’esodo sono più importanti dell’esodo stesso e ci servono per capire tanti aspetti cruciali e per mettere in evidenza le responsabilità e le possibili soluzioni sullo scacchiere delle relazioni internazionali. Tutte questioni su cui come cittadinanza europea dobbiamo fare pressione cercando i canali per farle arrivare ai destinatari istituzionali che poi fanno le scelte che contano.
  3. Terza riflessione che consideriamo patrimonio comune del nostro 6 marzo, è l’idea del migrante come protagonista e non come vittima; cioè, protagonista di un suo peculiare progetto di vita che include la migrazione forzata o scelta. Non persona ridotta al ruolo esclusivo di vittima cui il sistema confinario vorrebbe costringerla a furia di violare e frustrare il suo vitale istinto di sopravvivenza. Questo sguardo è uno dei patrimoni più incisivi del nostro 6 marzo e diventa approccio alle persone poiché punta a creare alleanze fra chi offre aiuto e che ne usufruisce, e non ulteriore sudditanza. Le attiviste che operano in supporto alle donne che hanno subito violenza lo sanno bene, e dedicano un’attenzione particolare alla cosiddetta violenza secondaria, operata da chi svolge una professione o un ruolo di aiuto, e agisce da una posizione di potere che può annichilire l’autodeterminazione della persona che a quei servizi si rivolge. Anche le attiviste e le operatrici dell’accoglienza di migranti richiedenti asilo, sono state spesso coinvolte nello stesso meccanismo, ma raramente sono riuscite a convincere i gestori ad adottare uno sguardo diverso sulle persone accolte. Lo sguardo condiviso in UN PONTE DI CORPI rinforza invece positivamente un approccio alternativo già sperimentato altrove, contribuendo ad un cambiamento necessario.
  4. Quarta riflessione che consideriamo patrimonio comune del nostro 6 marzo, è l’idea che in tutto questo, nel migrare e nell’accogliere, ci siano di mezzo i corpi. I corpi dei migranti, cacciati, inseguiti, colpiti, torturati, vietati e umiliati, offesi a volte fino alla morte. I nostri, privilegiati. Almeno finché non mettono in discussione il sistema che fa funzionare tutta questa grande macchina complessa e perversa: allora anche i nostri, di corpi, vengono fotografati, ascoltati, pedinati, perquisiti, indagati, stressati, ed eventualmente puniti. O finché non diventano improduttivi, come la pandemia ci sta svelando amaramente: allora non hanno diritto alla cura, o ad un vaccino, come chi ha la sfortuna di essere straniero, clandestino, o di vivere in una periferia qualsiasi del mondo capitalista (magari una residenza per anziani).

Il 6 marzo ha messo al centro della discussione, e deve continuare a mettere al centro, tutti questi corpi che normalmente vengono visti e percepiti così differenti (bianco, invece di nero; benestante, ben vestito e/o dotato di un documento di soggiorno, invece di povero, clandestino, straccione e affamato; giovane, produttivo e degno di ricevere un vaccino, invece che vecchio, ormai inutile e destinato a morire), e che invece noi abbiamo imparato a sentire così simili, uniti in un unico destino e desiderio di vivere in pace e giustizia.

Sotto i nostri occhi, l’Europa da terra dei diritti per tutti si trasforma gradualmente in terra della loro negazione: non solo per gli estranei, ma anche per i suoi cittadini non conformi agli obiettivi del capitalismo vorace. Diventa meno democratica e abitabile per gli stessi cittadini europei mentre costruisce muri, militarizza frontiere, ripristina quelle interne, cela alla stampa pratiche illegali e violente, autorizza le sue forze dell’ordine a mettere in atto prassi discriminatorie, autorizza le multinazionali del farmaco a imporre dictat inaccettabili perché il bene comune che dovrebbe essere il cemento ideale dell’Unione, è smarrito. Come donne, come attiviste, ci sentiamo di riportare all’attenzione delle persone e delle istituzioni italiane ed europee, proprio l’istanza del bene comune, rimettendo al centro dell’attenzione pubblica i corpi, le persone, la vita.

  1. Quinta riflessione patrimonio comune di tutte e tutti noi di UN PONTE DI CORPI. L’idea del ponte nasce da una donna e diventa appello alle donne, innanzitutto a loro, che possono cogliere in modo istintivo e immediato l’idea di un ponte che è legame ricostruito raccogliendo i frammenti dolorosi di vita, spezzati dalla violenza confinaria. Questo ponte collega una donna a tante altre donne, capaci di abbracciare un confine di terra, ma subito pronte ad includere anche quelli di mare. Da un capo del ponte, donne (madri e non) e da subito anche uomini, che hanno imparato a rispettare e ad amare il potere dirompente della volontà femminile; dall’altro capo del ponte, madri che lasciano partire i propri figli alla ricerca di un destino migliore.

C’è però una storia che il nostro PONTE DI CORPI non ha ancora potuto raccontare perché ha solo iniziato un cammino che sarebbe bello e importante portare avanti. Ve la proponiamo come STAFFETTA FEMMINISTA.

I corpi che attraversano le frontiere di mare e di terra, non sono solo quelli maschili. Le donne nelle migrazioni portano con sé una doppia violenza. Chi è impegnato nell’aiuto umanitario lungo le rotte, e chi opera nei centri antiviolenza europei si confronta con una violenza di genere resa ancora più feroce dalle condizioni in cui donne e persone vulnerabili sono costrette a viaggiare. Inoltre, le donne che si mettono in viaggio, sono migranti in fuga da guerre e condizioni di violenza come gli uomini, o persone che partono perché intrappolate in condizioni di tratta e schiavitù (condizione che spesso permane nel transito e a destinazione).

Mentre sviluppano nuove strategie di aiuto, attiviste, volontarie e operatrici sono sempre più consapevoli della dimensione transnazionale del patriarcato all’origine delle guerre e della violenza di genere: occorre combatterlo, allo stesso tempo qui, lungo il percorso, e nei paesi d’origine delle donne costrette a migrare.

L’idea del collettivo di attiviste nasce dall’invito di Lorena a costruire un movimento di donne per aprire tutti i confini, per un’Europa inclusiva e giusta, che non neghi il diritto al desiderio di vivere una vita degna laddove ogni persona desideri andare. L’idea del collettivo di STAFFETTA FEMMINISTA, raccoglie il testimone di Lorena e di tutti i partecipanti al PONTE DI CORPI e lo traduce in un percorso che partendo dall’Italia arrivi in Afghanistan, lungo la rotta balcanica, mettendo a fuoco un nuovo tema: l’Europa che nega il diritto al desiderio di vivere è un’Europa dove sessismo e patriarcato non sono mai stati sconfitti definitivamente. La STAFFETTA è quindi STAFFETTA FEMMINISTA perché nasce dall’urgenza di contribuire a rispondere alle sfide contemporanee poste all’autodeterminazione delle donne sia in Europa, che altrove.

L’attacco all’autodeterminazione femminile è spesso aggravato da connessioni internazionali che valicano senza problemi confini inutilmente chiusi alla libera circolazione di persone. Ne abbiamo una prova con la decisione della Turchia di recedere dalla Convenzione di Istanbul contro la violenza di genere che legava 46 paesi grazie all’azione del Consiglio d’Europa: la decisione di recesso imposta dal Presidente Erdogan è un attacco con conseguenze ben più ampie di quelle, già gravi, che può avere in Turchia, poiché indebolisce in tutta Europa uno strumento giuridico fondamentale per la lotta contro la violenza di genere e l’omotransfobia. Questa determinazione del governo turco, motivata dall’intento si difendere l’istituzione della famiglia e bloccare una norma, che a suo dire, incoraggerebbe l’omosessualità, ha già un’eco in altri paesi a orientamento conservatore, e costituisce una nuova minaccia alla democrazia e ai diritti umani anche in Europa, legando fra loro fondamentalismi di ogni genere. Inoltre, rappresenta un’ulteriore pedina dello scacco con cui Erdogan riesce a tenere con le spalle al muro l’Unione, dopo l’accordo del 2016 che ha versato nelle casse della Turchia 6 miliardi di euro perché venisse fermato il flusso di profughi che provavano ad attraversare l’Egeo, esponendoci ad ulteriori ricatti, come accaduto nella primavera 2020, quando Erdogan ha annunciato l’apertura della frontiera con la Grecia, preteso più fondi, visti per i cittadini turchi che vogliono venire in Europa e l’estensione dell’accordo del 2016 che è stato poi prolungato di un anno.

La storia che il PONTE DI CORPI può ancora raccontare, si arricchisce di un capitolo che narra che le donne che sono rimaste all’altro capo del ponte non sono solo madri in trepidante attesa di notizie dal figlio partito per il big game, ma sono anche donne leader che, cresciute in mezzo alla guerra e al fondamentalismo, comandano eserciti (come in Kurdistan), organizzano la fuoriuscita delle altre donne dalla schiavitù, guidano forze politiche laiche e progressiste, andando villaggio per villaggio a sfidare i talebani (come in Afghanistan). Queste donne praticano la democrazia più avanzata che possiamo immaginare nei contesti meno favorevoli possibili. Testimoniano con noi che un altro mondo è possibile, e che la rivoluzione è necessaria ovunque. Queste donne sono nostre alleate contro ogni progetto di riduzione dell’autodeterminazione femminile e contro ogni fondamentalismo, e hanno bisogno del nostro supporto, perché stanno là dove bisogna stare.

STAFFETTA FEMMINISTA corre lungo la rotta balcanica per portare il proprio supporto alle organizzazioni laiche e progressiste delle donne afghane, suddividendo i 7000 km di percorso in 7 TAPPE, ognuna in carico ad un gruppo di 12 persone, per portare il loro aiuto a bambine, ragazze e adulte impegnate nel proprio percorso di riscatto dalla violenza sostenuto dalle organizzazioni femministe afghane, rinforzando un’alleanza che può contribuire a cambiare il corso degli eventi perché sostiene il carattere politico dell’azione delle nostre alleate afghane nelle loro organizzazioni di base, nei loro centri antiviolenza, nelle scuole per gli orfani di guerra e nelle classi clandestine nei villaggi, nelle aree ad alta concentrazione di sfollati interni e nei campi profughi.

STAFFETTA FEMMINISTA, appena le condizioni lo permetteranno, si realizzerà anche sul terreno, arrivando fino a Kabul per partecipare alle celebrazioni dell’8 marzo che ogni anno vengono organizzate dalle associazioni locali di attiviste.

Il progetto di STAFFETTA FEMMINISTA è possibile grazie all’esperienza di oltre vent’anni di lavoro del CISDA in Afghanistan. Il collettivo di STAFFETTA FEMMINISTA, che vede al suo interno anche l’apporto delle attiviste CISDA, si aggrega allo sforzo di UN PONTE DI CORPI, e invita una delegazione della rete a prendere parte all’iniziativa, magari costituendo un gruppo TAPPA del percorso da Monza a Kabul e partecipando, quando sarà possibile, alla delegazione che arriverà fino in Afghanistan e/o pensando a possibili iniziative comuni, da realizzare fin d’ora nella fase virtuale virtuale e nelle iniziative in presenza nelle scuole e nelle città coinvolte.

STAFFETTA FEMMINISTA nasce da un gruppo di donne, ma è aperta alla partecipazione di tutti.