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Autore: Patrizia Fabbri

Non voltiamo lo sguardo altrove

L’Occidente non è riuscito a portare democrazia e libertà delle donne, ma una nuova devastante guerra

La decisione degli USA di avviare una trattativa con i talebani, consentendo la liberazione di 5000 miliziani dalle prigioni, e di lasciare l’Afghanistan insieme a tutte le truppe della Nato, ha portato ad una situazione che non può che definirsi di emergenza umanitaria. I talebani stanno riconquistando il paese, provincia dopo provincia, lasciando dietro di loro una scia di morte e devastazione forse mai viste prima.

Secondo quanto riportato al Consiglio di Sicurezza dalla rappresentante speciale del Segretario generale dell’Onu per l’Afghanistan, Deborah Lyons, quel che sta accadendo richiama sempre più quanto avvenuto in Siria o a Sarajevo. Metà della popolazione, 18,5 milioni di persone, ha bisogno di assistenza umanitaria.

Centinaia di migliaia di sfollati si sono riversati su Kabul per scappare dalla brutalità e dalla violenza dei talebani e non hanno accesso a cibo, acqua, elettricità, medicine. Le associazioni, le onlus locali e gli attivisti con cui il Cisda lavora da oltre 20 anni, ancora una volta, si stanno attivando per accogliere i loro connazionali in fuga, nonostante il contesto insicuro e drammatico.

Vogliamo cominciare ad aiutarli con un primo doveroso gesto di umanità: stiamo raccogliendo fondi che è necessario inviare in brevissimo tempo, per far sentire che ci siamo e che continueremo a star loro accanto, anche nell’ennesima tragedia che stanno vivendo.

Vi inviamo il report che hanno pubblicato dopo una visita in un campo di sfollati nei pressi di Kabul, dove si stanno rifugiando persone provenienti dalle provincie di Kunduz e Thakar, al Nord

Vorrei che morissimo tuttiLa condizione degli sfollati nel parco Azadi di Kabul

di Zahra (nome di fantasia)

A seguito della decisione di ritirarsi dall’Afghanistan degli Stati Uniti e degli eserciti alleati della NATO le milizie talebane, con cui sono state avviate le “trattative di pace”, hanno invaso le città, preso il controllo dei capoluoghi di provincia e si sono impadronite facilmente delle vite, delle proprietà e dell’onore del nostro popolo. Migliaia di morti e feriti, saccheggi e incendi di proprietà pubbliche e di case, centinaia di migliaia di famiglie sfollate in altre province, inclusa Kabul, sono i primi risultati della resa di diversi capoluoghi di provincia ai mercenari talebani. Il regime fantoccio al potere, creato solo per salvaguardare gli interessi USA, e sorretto solo grazie all’appoggio degli americani, non ha fatto altro che tradire le persone di questo paese, lasciandolo nelle mani dei criminali jihadisti e talebani, e ora si è arreso a questi gruppi criminali.

Il 9 agosto 2021, sono andata al Parco Azadi per vedere di persona le condizioni degli sfollati dalla guerra e scrivere un rapporto. La deplorevole situazione di decine di famiglie in fuga in questo parco è una ferita per ogni essere umano. Questo rapporto è un riassunto di ciò che ho visto e sentito.

Non appena siamo scesi dalla macchina, Reyhaneh e il suo bambino di sette anni sono venuti verso di noi. Lei va incontro a ogni nuovo arrivato che entra nel parco; ci ha subito fatto vedere la sua carta d’identità per dimostrare di essere una sfollata di Takhar. Reyhaneh è rimasta per ore in una tenda sotto il sole cocente, indossando il burqa, per preparare un boccone di pane per i suoi bambini. Si è anche avvicinata ai passanti ripetendo all’infinito frasi piene di dolore: “Aiutatemi, fratelli”, “I miei bambini hanno fame“. Questa scena mi ha trafitto il cuore e mi ha infuocato il corpo, mentre imprecavo contro tutti i responsabili afghani e stranieri di tanta sofferenza. Ho iniziato a parlare con una signora che ha subito detto: “Abitavamo nella zona di Seh Takhar. Tre giorni fa, due famiglie sono fuggite. Ho cinque figli. Non abbiamo un posto dove stare. Viviamo sotto un albero e sotto il sole cocente. Siamo sfollati a causa della guerra in corso tra governo e talebani. Da entrambe le parti arrivano solo venti di morte. Nessuno ci aiuta. Non abbiamo un soldo in tasca. La nostra casa è stata data alle fiamme e siamo usciti dalla città con i vestiti che avevamo addosso, sapendo di rischiare la vita“.

Ahmad Javid piangeva, disperato e indifeso; ha appoggiato il suo corpo stanco contro un albero ed era indifferente alle grida lontane dei bambini. Forse stava pensando a un membro della sua famiglia ferito o intrappolato nelle fiamme, o a quando un colpo di mortaio ha colpito la sua casa. Ed è stato il momento peggiore della sua vita…

“Sei sfollato?” gli ho chiesto. “Siamo arrivati ieri da Kunduz. Siamo rimasti coinvolti in una feroce battaglia avvenuta durante la notte. Temendo che la situazione peggiorasse, siamo fuggiti e ci siamo nascosti dietro la prigione. Ma i talebani hanno conquistato la prigione e siamo andati all’aeroporto, dove da mesi molte persone che non hanno un posto dove andare, colpite dalla guerra e dai colpi di mortaio, vagano miseramente sotto le tende. Quando i talebani hanno attaccato la prigione sono dovuto scappare dalla pioggia di proiettili con mia moglie e cinque figli, e siamo arrivati qui, nel cuore della notte; non ho un soldo e nessuno che me ne possa prestare. Io posso sopportare la fame, ma come posso guardare negli occhi i miei figli? Vedere che piangono per la fame? Non so che fare, non riesco più a pensare, vorrei solo che morissimo tutti…”.

Fawzia, una donna di mezza età, disperata dopo la sua fuga da Herat, ci ha detto: “Vogliono conquistare quel che resta di Herat e la città è in fiamme. Quando i talebani sono entrati nella nostra zona, siamo dovuti scappare in una zona controllata dal governo. Quando abbiamo visto le uccisioni e il terrore in città, abbiamo deciso di scappare a Kabul: avevamo molta paura. Noi, una famiglia di 14 persone, vaghiamo di vicolo in vicolo da tre giorni. Tutti vengono, fanno promesse, scattano foto e poi se ne vanno. Mio cognato è stato colpito da due proiettili e mio marito è malato…”.

Con il passare dei minuti, nel parco aumentava il numero degli sfollati interni, per lo più provenienti dalle province settentrionali. Vedendo vecchi, giovani e bambini sotto il sole cocente vivere i momenti più amari della loro vita io, come essere umano, mi sono vergognata per non essere riuscita a dar loro nemmeno un piccolo aiuto. Ho visto persone scendere da veicoli blindati con i vetri oscurati, mentre le loro guardie del corpo facevano in modo che gli sfollati si allontanassero dal veicolo; fingevano di essere “sconcertati”, hanno fatto il giro del parco e, dopo essersi fatti un selfie con le famiglie di sfollati, hanno concluso lo spettacolo e se ne sono andati.

Mujib Nabina, non vedente, si è presentato come rappresentante di dieci famiglie sfollate da Takhar e ci ha detto: “Le nostre dieci famiglie sono sfollate da una zona della città di Takhar. Dopo lo scoppio della guerra, un colpo di mortaio ha colpito la nostra casa, e sei bambini sono rimasti gravemente ustionati. Di questi, quattro sono ricoverati all’ospedale pediatrico e gli altri due sono all’ospedale Esteqlal. Non abbiamo portato con noi altro che i vestiti che indossiamo. Tutta la nostra vita è stata in guerra, sotto le bombe e i colpi di mortaio. Siamo rovinati e disperati, e ora tutti vengono e scattano foto ci fanno una promessa e se ne vanno. Ci domandiamo cosa dobbiamo fare“.

Una ragazza di Kunduz, che mentre parlava tratteneva il respiro, ci ha detto, piena di dolore: “Verso le dieci del mattino sono arrivati a Kunduz e poi sono iniziati i bombardamenti sulle nostre case. Il mio fidanzato, un militare dell’esercito, si trovava con 38 colleghi nel comando di Kunduz che è stato circondato dai talebani; solo lui è sopravvissuto. Lo abbiamo portato a Kabul con grande difficoltà. Lui e i suoi colleghi non si sono arresi. Ora è ricoverato in un ospedale militare a Kabul, gravemente ferito. I talebani sono entrati e hanno saccheggiato l’edificio. Prima dell’assalto al comando i funzionari e i capi militari sono fuggiti all’aeroporto di Kunduz e da lì a Kabul, ma i poveri soldati sono stati uccisi e feriti. La mia famiglia è composta di 12 persone e solo mio fratello è rimasto a casa. Siamo usciti di casa solo con i vestiti che avevamo addosso. Chi ci ha portati da Kunduz a Kabul ha voluto 12.000 afgani [NdR, unità di moneta afghana equivalente a circa 130 euro].

In poche parole, Ghani e i suoi sono responsabili dello sfollamento e della distruzione di centinaia di migliaia di famiglie provenienti da tutte le parti dell’Afghanistan. Migliaia di talebani sono stati liberati dalle prigioni e gli occupanti stranieri, USA e Khalizad in testa, hanno consentito che questi criminali versassero il sangue dei nostri compatrioti.

da Hambastagi

 

 

 

Resistere, cercando di non esistere. Le voci delle donne afghane raccolte dal Cisda

Alle limitazioni dei diritti fondamentali imposte dai Talebani in Afghanistan durante il primo anno di ritorno al potere -dall’istruzione alla salute- si sommano la crescente povertà e insicurezza alimentare. Ecco le testimonianze custodite e rilanciate dalle attiviste del Coordinamento italiano a sostegno delle donne afghane

È il diritto di vivere che manca. Le donne scomparse dietro i drappi neri e tra le pieghe del burqa, lottano per riprenderselo. “Dovevo uscire a comprare del filo, mi serve per il mio lavoro di sarta. Il primo ordine da molti mesi, devo approfittarne. La stoffa nera mi inghiotte, tutta coperta, un vecchio corvo. Solo gli occhi respirano, vedono, li vedono. Avanzano dal fondo della strada, fermano la macchina, scendono. Sono tre, armati. Puntano dritto su di me. Gridano, non si sa perché. La mia mente corre veloce, è tutto a posto? Sono in regola? Sono coperta come vogliono loro, il cuore accelera. No, i guanti neri non li ho. Ci sono 45 gradi all’ombra. Sudo tanto che li vedo traballare in un’immagine acquatica. Sono sola, per strada. Ecco ho disobbedito. Gridano, mi spingono, sono una schifosa puttana, sì perché sono uscita a comprare del filo, senza un dannato uomo, senza i guanti, mi sento un pupazzo nelle loro mani. Nessuno mi proteggerà, tutti hanno paura. Mi accorgo che sto tremando. Mi malmenano, sempre senza smettere di urlare, mi danno un calcio, cado, se ne vanno garantendomi la loro punizione per la prossima volta. Mi arresteranno e mi frusteranno. Questo il programma. Ma per questa volta è andata bene. Avevano fretta. Mi asciugo il sudore, respiro, mi nascondo, aspettando che la macchina sparisca. Ora, finalmente, posso comprare il mio filo”.

Così racconta Amina, piccola e tenace sarta di 16 anni. “Qui si soffoca. La vita è diventata così pesante che non riesci nemmeno a respirare. Se i Talebani fossero capaci di portar via l’ossigeno da dentro i nostri polmoni, lo farebbero”, Shazia ha quattro figlie femmine ed è esasperata. I divieti per le donne sono ovunque: non ci sono leggi, solo ordini, ogni volta diversi. Ogni giorno se ne inventano di nuovi; “Così ti tengono sempre sul chi vive, sull’orlo dell’errore, di una punizione possibile”.

I disturbi mentali, la depressione, soprattutto i suicidi , sono in forte aumento tra le donne. “Cerco in tutti i modi di essere forte -dice Samia, vedova e con una famiglia da mantenere- ma la situazione di adesso è molto stressante, siamo sotto pressione, incerte, spaventate. A volte non riesco nemmeno più a prendermi cura di me stessa in modo appropriato. Devo vendere bolani ( focacce di pasta fritta ripiene di verdure) per strada, per poter nutrire la mia famiglia. È dura, la gente non ha niente, non ha nemmeno soldi per mangiarsi un bolani. Ma il peggio è che ogni giorno vengo minacciata dai Talebani; mi gridano in faccia con il fucile puntato perché non sto a casa come dovrei. Mi ripetono che sono una prostituta, che sotto la copertura dei bolani cerco clienti. Devo sopportare tutto questo, non mi faccio colpire dalle loro parole e dai loro gesti, non li ascolto. Cambio ogni giorno strada. Ogni giorno cucino di nuovo i bolani che mi hanno rubato. Se dovessi restare chiusa in casa, come vogliono loro, moriremmo tutti di fame”. Si fa di tutto per non morire di fame. La maggior parte della gente non ha posto per altri pensieri. L’inverno scorso ha decimato la popolazione, specialmente i più piccoli.

Vendere in sposa una bambina, anche di tre o quattro anni, può significare la sopravvivenza degli altri figli. Anche i piccoli maschi si vendono. Anche parti del corpo, come i reni, per 400 dollari, anche quelli dei bambini, i genitori cercano di convincere i medici riottosi. Anche loro possono vivere con un solo rene, ma nessuno può vivere senza mangiare. “Nonostante i nostri stomaci siano vuoti e i nostri piedi pesanti come il piombo, io in questo orribile momento, non voglio vendere i miei figli come fanno molti -racconta Laila-. Ho imparato a combattere in questi tempi così duri e a sostenerli. Sono riuscita a iscrivere a scuola i due maggiori e studiano sodo. Questi giorni terribili passeranno, i miei figli diventeranno grandi e io sarò finalmente felice”. Ha coraggio Laila, chissà fino a quando ancora. Chissà dove la speranza ferita perde forza, svanisce, si arrende. Ci deve essere un limite oltre il quale si dice basta.

“Nonostante i nostri stomaci siano vuoti e i nostri piedi pesanti come il piombo, io in questo orribile momento, non voglio vendere i miei figli come fanno molti” – Laila

Noshin era scappata due anni fa dal suo villaggio sotto il controllo talebano. Il capo dei miliziani voleva costringere il padre a dargliela in moglie per saldare debiti inesistenti. Ma Noshin voleva studiare essere medico, oculista per l’esattezza: questo era il destino che si era scelto. Scappa a Kabul tutta la famiglia, di notte, per evitare il disastro della sua vita. Ma da agosto nella capitale la situazione diventa troppo difficile. Non c’è lavoro, non c’è da mangiare. Tornano a vivere in campagna, dove suo padre può riprendere a fare il contadino, l’unica cosa che sa fare. “Mi sento circondata da un deserto. Niente lavoro, niente scuola, niente cibo. Non posso immaginare se e quando tutto questo potrà finire o se durerà per molti anni. Quello che mi spaventa è che i Talebani costringano mio padre a vendermi. Lui mi ha sempre protetto e sostenuto e, per questo, per evitare di ritrovarci nella situazione dalla quale eravamo fuggiti, siamo andati in un villaggio in cui nessuno ci conosce. Ma, con i Talebani dappertutto, la storia che ho già vissuto potrebbe ricominciare. Cerco di stare nascosta il più possibile perché loro cercano ragazze da comprare o da rubare. Piccole schiave dei loro poveri capricci. Non sarò una di loro. Cerco di non esistere”.

Ragazzi e ragazze non si devono vedere nemmeno da lontano. All’Università di Kabul, tre giorni alla settimana sono per le ragazze e tre per i maschi. Per le bimbe la scuola si ferma alla sesta classe (l’equivalente della nostra prima media inferiore). Anche nei parchi è lo stesso, tre giorni per uno. Nei ristoranti, le famiglie non possono mangiare insieme, le donne devono sedere nella parte destinata a loro, gli uomini dall’altra. Negli uffici amministrativi del governo le donne non possono entrare. Le cacciano via, nessuno dei loro problemi viene preso in considerazione. Non possono fare nessuna pratica, non le ascoltano.

“Da quando ci sono i Talebani al potere -racconta Sarah, che lavora ancora per una organizzazione umanitaria- la violenza contro donne e bambine ha raggiunto il suo picco. Non esiste più nessuna autorità che possa limitare questa tragedia. I suicidi di donne aumentano ogni mese. Nessuno può dire quanti siano, pochi sono registrati”. L’orrore è permesso. Ai Talebani non dispiace. Le scuole per le bambine non ci sono più e i padri sono liberi di vendere le proprie figlie, sempre più piccole, al miglior offerente.

“Donne e bambine hanno invaso le strade per chiedere l’elemosina, che spesso è l’unica risorsa che rimane -continua Sarah-. Vediamo lunghe file davanti ai panettieri: non aspettano di comprare il pane, non possono. Aspettano che qualcuno, più fortunato di loro, glielo regali, per svoltare un altro giorno. Ragazzi e uomini stanno ore fermi nelle piazze, in attesa di qualche caporale che li assuma per un giorno. Quasi sempre sono delusi”.

Dentro le scuole, quelle poche che ci sono, l’aria è pesante. Farzana è un’insegnante di Mazar-e-Sharif, nel Nord del Paese. Una delle poche città dove ancora le aule sono aperte alle ragazze. Le regole sono strettissime: “Insegnanti e studentesse devono portare vestiti e guanti neri, coprire tutto il corpo e il viso, lasciando liberi solo gli occhi. Non possono togliere il loro hijab nemmeno in classe, tutta femminile -racconta-. A noi insegnanti hanno consegnato tre libri islamici che dobbiamo imparare a memoria. Quando la squadra talebana arriva a controllare, se non rispondiamo correttamente alle domande perdiamo il posto di lavoro. Quando qualche studente ha avuto un buon risultato è severamente vietato applaudire. Dobbiamo solo gridare la parola: Mashallah!. Le loro spie sono dovunque, tra gli studenti e tra gli insegnanti, soprattutto donne. Due volte a settimana il team di controllo talebano visita la scuola e sono sempre pronti a trovare qualche cavillo cervellotico che permetta di chiudere le porte alle ragazze”.

Nelle università la vita è triste. Le giovani donne possono ancora andarci ma sono consapevoli di essere le ultime: mancano le scuole superiori. La catena del sapere si è interrotta. Molte giovani hanno perso la speranza, altrettante se ne sono andate. Quelle che resistono lo fanno per cercare di evitare un matrimonio forzato. Ogni donna in Afghanistan rischia, ogni giorno, nelle piccole cose della vita quotidiana. Quelle normalmente rassicuranti che si sono trasformate in trappole.

“Insegnanti e studentesse devono portare vestiti e guanti neri, coprire tutto il corpo e il viso, lasciando liberi solo gli occhi. Non possono togliere il loro hijab nemmeno in classe, tutta femminile” – Farzana, insegnante di Mazar-e-Sharif

Ma c’è chi rischia di più. Sono le attiviste che si sono esposte per combattere per i diritti delle donne, che hanno organizzato, negli ultimi vent’anni, centri legali, case protette, progetti di istruzione, presidi medici. Loro, che sono state un punto di riferimento per le donne della loro città e del loro Paese, erano in pericolo anche prima dell’arrivo dei Talebani a Kabul e oggi camminano su un filo sottile. Procedono sulla loro strada con fatica, con fantasia, con coraggio. Inventano progetti, vie traverse, nuovi sistemi per aggirare i divieti talebani e continuare ad aiutare le donne.

“Ormai è quasi un anno e la mia vita è stata completamente stravolta -dice Zinab, assistente sociale e attivista-. I problemi di sicurezza sono sempre al primo posto, ti ossessionano, ti lasciano addosso un disagio sottile, perfido. Tutti conoscono la mia attività passata. Abbiamo cambiato casa tre volte negli ultimi mesi, ogni volta in quartieri di Kabul diversi e lontani tra loro per cancellare le tracce. Abbiamo perso i contatti con i nostri amici e parenti, con quelle persone che frequentavano spesso la nostra casa. Siamo un pericolo anche per loro e soprattutto per i nostri figli: i miei maggiori, un ragazzo e una ragazza, studiavano all’università e ora non possono più farlo perché i loro compagni e i loro professori sanno bene chi siamo. Sanno che io mi occupavo di diritti delle donne, che avevamo case protette, che mio marito è laico e anti-talebano. Mia figlia più piccola a scuola non può più andarci. Non c’è spazio né luce per guardare il futuro, non ci sono strade. È così per tutti i nostri ragazzi, ma nessuna di noi è disposta a cedere”.

Zinab si muove sempre con il burqa, cambia ogni giorno l’ora in cui va in ufficio e torna la sera. Ha sempre paura di essere seguita, identificata, arrestata. Paura che trovino la sua casa, che minaccino la sua famiglia a causa del suo lavoro per i diritti delle donne. “Anche quando siamo in ufficio dobbiamo stare all’erta. Se dovessero arrivare i Talebani, dobbiamo essere pronte a metterci l’hijab e a separarci dai nostri collaboratori maschi”. Nonostante tutto, l’ufficio è diventato una scuola segreta, per le ragazze dalla settima classe in poi (la nostra seconda media inferiore), con un corso di cucito a fare da paravento se dovessero arrivare i Talebani. Ma la paura c’è, per le ragazze e per loro. Sono coraggiose, le allieve, forti, entusiaste. Vogliono imparare tutto quello che possono, in fretta, il cammino resta sospeso. La voglia di sorridere ritorna. In un mondo senza risate anche questo è rivoluzionario. Come lo sono i colori, banditi dai Talebani. Proteste variopinte combattono contro il nero: alcune giovani coraggiose escono senza hijab, portano foulard colorati, vestiti fiorati. Sfidano, rischiano. Ritrovano se stesse. Alle conseguenze non vogliono pensare. Finché ce la fanno.

Le giovani donne che protestavano per le strade nei mesi scorsi sono in silenzio. Le minacce, gli arresti, le torture hanno spento le voci. La tattica talebana è quella di non aggredirle subito, durante la manifestazione, con gli occhi dei social addosso che potrebbero riprenderli e mostrare al mondo il loro volto repressivo. Fotografano, pedinano, tracciano percorsi, arrestano. Dopo, quando nessuno vede, si regolano i conti. Lena, un mese fa, ha partecipato a una protesta per i diritti, per far parte del Governo, perché le venga restituito il suo lavoro. Le parole d’ordine sono sempre le stesse, semplici, essenziali: cibo, lavoro e libertà: “Ce l’hanno messa tutta per disperderci. Ci hanno inseguito una per una con i fuoristrada cercando di investirci. Per fortuna siamo riuscite tutte a scappare. Per ora dobbiamo fermarci”, racconta.

Le donne che circolano per le strade ormai sono poche e tutte coperte. Molte ragazze che hanno protestato, molti giornalisti, sono spariti. Nessuno sa dove siano e se siano vivi. Ora per punire le trasgressioni delle donne i Talebani colpiscono e incriminano i parenti maschi. La punizione e il divieto sono trasferiti direttamente dentro la famiglia: sono i mariti, i padri, i cognati a chiudere a chiave la porta. E la violenza familiare aumenta.

“Ce l’hanno messa tutta per disperderci. Ci hanno inseguito una per una con i fuoristrada cercando di investirci. Per fortuna siamo riuscite tutte a scappare. Per ora dobbiamo fermarci”, Lena

Gli attentati continuano come prima, ovunque e in qualsiasi momento. In genere colpiscono i civili, specialmente a Kabul. “La tragedia è che gli ospedali non funzionano, i medici sono fuggiti, il sistema è collassato, per cui le vittime restano senza cure, non ci sono attrezzature sanitarie -dice Manija di Rawa, l’Organizzazione rivoluzionaria delle donne afghane-. Funziona solo l’ospedale di Emergency. Le uccisioni degli ex collaboratori del precedente governo, civili e militari, non si sono fermate”.

Altre volte gli attacchi colpiscono direttamente le macchine e i mezzi militari dei miliziani islamici. I nemici, anche per loro, non mancano. Le ostilità interne tra la Rete Haqqani (militanti islamisti vicini ai Talebani) e il gruppo di Kandahar, gli attacchi dell’Isis Khorasan (la “branca” locale del sedicente Stato Islamico) che contende il terreno e gli uomini dell’Alleanza del Nord che rivogliono il potere perduto. Ma per la maggior parte sono regolamenti di conti interni. Nessun riflesso sulla stampa di questi “incidenti”.

“Qualche giorno fa -dice Hamed- è esploso un ordigno magnetico attaccato a un’automobile dei Talebani, molti di loro sono stati uccisi. Questo succedeva vicino a casa mia, ho potuto vedere da vicino, ma le notizie in tv non ne parlavano affatto. Su questi attentati i miliziani impongono una censura totale. Adesso è più facile anche perché i social media, che sfuggivano al loro controllo, vengono usati meno: non ci sono soldi per pagare la connessione, pochi se lo possono permettere”.

I media restano nel mirino. Un mondo di silenzio, di sospetto, di paura. È questo l’Afghanistan di oggi: gli attivisti, i giornalisti, anche chi scrive un solo post sui social, viene arrestato e sparisce. “Nel corso di questo anno non c’è stato nessun cambiamento tra i Talebani. Non mi aspetto che questo governo collassi -dice Nelab, militante di Rawa-. Probabilmente stanno pensando, su pressione degli americani, di includere nel governo attuale alcuni rappresentanti di quello passato. Era uno degli argomenti della Loja Jirga (termine che possiamo tradurre con “grande assemblea”, ndr) del mese scorso. Un modo per arrivare al riconoscimento internazionale di questo governo, includendo prima di tutto i “signori della guerra” con tutto il loro carico di delitti e denaro. Un modo per ridare credibilità ai Talebani, caldeggiato dagli Stati Uniti. Un altro passo verso un disastro ancora più irreversibile per il popolo afghano”.

“Nel corso di questo anno non c’è stato nessun cambiamento tra i Talebani. Non mi aspetto che questo governo collassi” – Nelab, militante dell’associazione Rawa

Le militanti di Rawa, che non hanno abbandonato il Paese, hanno un vantaggio: sono clandestine da quarant’anni. “Noi non siamo figure pubbliche, non siamo registrate, non conoscono la nostra faccia né la nostra vera identità e in qualche modo è più facile per noi”, riprende Nelab. Queste attiviste possono muoversi più liberamente per costruire i loro progetti, seguendo i percorsi di sempre, dai tempi del primo governo talebano. Ma si muovono in un mondo irto di ostacoli. “Sono tempi molto pesanti, forse più di quello che ci si aspettava. Non solo per la nostra sicurezza e sopravvivenza, ma anche perché è molto difficile coinvolgere le persone, trovare alleati -riflette Nelab-. C’è un tempo per la rivoluzione in cui la gente è chiamata ad agire, a ribellarsi e un tempo in cui le cose sono così difficili che predomina la delusione, l’abbandono, la disperazione e non si vuole più continuare la lotta. Penso che questo momento sia arrivato anche nella nostra storia. Riuscire a vivere, in qualunque modo, è già un successo. Un’attività che esaurisce”.

Le militanti di Rawa non sono donne che si scoraggiano. “Le scuole segrete per ragazze si moltiplicano, in molte province: Farah, Mazar, Jalalabad, Kabul. Le ragazze sono entusiaste: inglese, scienze, matematica, informatica, materie vietate alle donne. Insegniamo soprattutto questo”. Le studentesse rischiano molto, potrebbero essere duramente picchiate se i familiari sapessero. Sania, è una di loro: “Mio fratello è Talebano e se sapesse che frequento la scuola segreta mi picchierebbe a morte. Ci obbliga ad andare alla madrasa la mattina, ma il pomeriggio scappo a ritrovare la mia vita. Invento sempre nuove scuse, parto presto e faccio giri assurdi per non insospettire nessuno”. Sania ha trovato un posto sicuro per nascondere i suoi libri: la cucina, dove gli uomini non si avventurano mai. Pentole e fornelli proteggono il suo coraggio. Le giovani donne si organizzano anche da sole. Chi sa, mette la sua preziosa istruzione a disposizione di altre donne, nel quartiere, con le vicine, con le amiche, con le figlie, con le nonne. Un percorso di sapere condiviso, di resistenza, trasversale e difficile da fermare.

Manca il sapere ma manca soprattutto il cibo. Fin dai primi tempi dopo la presa del potere da parte dei Talebani, le attiviste di Rawa si sono date da fare per sostenere la popolazione: “Distribuiamo cibo alle famiglie -dice Nelab- un progetto indispensabile ma senza futuro perché le cose non potranno che peggiorare. Anche qui dobbiamo sfuggire al controllo talebano. Se ci vedono ci portano via tutto”. Proseguono i progetti dei piccoli gruppi di donne che coltivano zafferano e nei villaggi tra le montagne in cui ci sono scuole e presidi medici. Piccole oasi di libertà, insidiate dai Talebani. L’unità mobile sanitaria di Rawa, ben attrezzata, percorre le strade di tutto il Paese, si avventura nei luoghi più sperduti. I medici sono soprattutto donne.

“Quando a fine giugno c’è stato il terremoto nel Sud-Est dell’Afghanistan, abbiamo mandato laggiù un team medico al femminile. La situazione era catastrofica, morti ovunque, macerie e feriti senza assistenza. I Talebani ci hanno fermato e volevano impedirci di lavorare. Sono state proprio le donne, per le quali non era prevista nessuna assistenza, e gli anziani dei villaggi a protestare e richiedere il nostro aiuto. Alla fine hanno vinto loro. È stato un lavoro massacrante ma ce l’abbiamo fatta. Per molte di queste donne era il primo incontro della loro vita con un medico”.

Intanto, mentre un Paese intero sprofonda insieme alle sue donne, mentre viene annientato il suo futuro, gli occhi dell’Occidente guardano altrove. Non c’è scandalo, né reazione, né clamore della comunità internazionale. Nessuno vuole sapere. Il governo talebano sembra un fatto compiuto, accettato. Forse si pensa a riconoscerlo come legittimo. Il disastro che chiuderebbe definitivamente la prigione afghana. Distrazione, silenzio, indifferenza, oppure, semplicemente, complicità.

Cristiana Cella, giornalista, scrittrice, sceneggiatrice. Segue le vicende afghane dal 1980, quando entrò clandestinamente a Kabul, vietata ai giornalisti, per documentare la resistenza della città contro l’invasione russa.  Dal 2009 fa parte del Direttivo dell’Associazione Cisda (Coordinamento Italiano Sostegno donne afghane), ha partecipato a diverse delegazioni in Afghanistan. Ha pubblicato un libro: ‘Sotto un cielo di stoffa. Avvocate a Kabul’, edito da Città del Sole Edizioni.

Afghanistan: voci di donne dal buio

È il  diritto di vivere che manca. Le donne scomparse dietro i  drappi neri e tra le pieghe del burka, lottano per riprenderselo.

’Dovevo uscire a comprare  del filo, mi serve per il mio lavoro di sarta. Il primo ordine da molti mesi, devo approfittarne. La stoffa nera mi inghiotte, tutta coperta, un vecchio corvo, solo gli occhi respirano, vedono, li vedono. Avanzano dal fondo della strada, fermano la macchina, scendono , sono tre, armati. Puntano dritto su di me. Gridano , non si sa perché. La mia mente corre veloce, è tutto a posto? Sono in regola? sono coperta come vogliono loro, il cuore accelera… no, i guanti neri non li ho. Ci sono 45 gradi all’ombra. Sudo tanto che li vedo traballare in un immagine acquatica. Sono  sola, per strada. Ecco ho disobbedito. Gridano, mi spingono, sono una schifosa puttana, sì perché sono uscita a comprare del filo, senza un dannato uomo, senza i guanti…mi sento un pupazzo nelle loro mani. Nessuno mi proteggerà, tutti hanno paura. Mi accorgo che sto tremando. Mi malmenano, sempre senza smettere di urlare, mi danno un calcio, cado, se ne vanno garantendomi la loro punizione per la prossima volta. Mi arresteranno e mi frusteranno. Questo il programma. Ma per questa volta è andata bene. Avevano fretta. Mi asciugo il sudore, respiro, mi nascondo, aspettando che la macchina sparisca. Ora, finalmente, posso comprare il mio filo.’

Così racconta Amina, piccola, tenace, sarta di 16 anni.

‘Qui si soffoca. La vita è diventata così pesante che non riesci nemmeno a respirare. Se i Talebani fossero capaci di portar via l’ossigeno da dentro i nostri polmoni, lo farebbero.’Shazia, quattro figlie femmine,  è esasperata. I divieti per le donne sono ovunque, non ci sono leggi, solo ordini, ogni volta diversi. Ogni giorno se ne inventano di nuovi. ‘Così ti tengono sempre sul chi vive, sull’orlo dell’errore, di una punizione possibile’.

I disturbi mentali, la depressione, soprattutto i suicidi , sono in forte aumento tra le donne.

‘Cerco in tutti i modi di essere forte- dice Samia, vedova, con una famiglia da mantenere-  ma la situazione di adesso è molto stressante, siamo sotto pressione, incerte, spaventate. A volte  non riesco nemmeno più a prendermi cura di me stessa in modo appropriato. Devo vendere ‘bolani’ ( focacce di pasta fritta ripiene di verdure) per strada, per poter nutrire la mia famiglia. E’ dura, la gente non ha niente,  non ha nemmeno soldi per mangiarsi un bolani. Ma  il peggio è che ogni giorno sono minacciata dai talebani. Mi gridano in faccia con il fucile puntato  perché non sto a casa come dovrei. Mi ripetono che sono una prostituta, che sotto la copertura dei bolani  cerco clienti. Devo sopportare tutto questo, non mi faccio colpire dalle loro parole e dai loro gesti, non li ascolto. Cambio ogni giorno strada. Ogni giorno cucino di nuovo i bolani che mi hanno rubato.  Se dovessi restare chiusa in casa, come vogliono loro, moriremmo tutti di fame.”

Si fa di tutto per non morire di fame. La maggior parte della gente non ha posto per altri pensieri.  L’inverno scorso ha decimato la popolazione, specialmente i bambini.

Bambini in vendita. Vendere in sposa una piccola, anche di tre o quattro anni,  può significare la sopravvivenza degli altri figli. Anche i piccoli maschi si vendono. Anche parti del corpo, come i reni, 400 dollari, anche quelli dei bambini, i genitori cercano di convincere i medici riottosi. Anche loro possono vivere con un solo rene, ma nessuno può vivere senza mangiare.

 

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Intervista ad Hambastagi

La persona con cui parliamo non ha la videocamera accesa. Per partecipare all’intervista, ha avuto accesso alla connessione a internet in un ufficio di una ONG, dove lavora un conoscente.

Chiedo se il tempo è bello lì: è estate. Mi dice subito che il clima politico invece è molto teso. Anche la popolazione afgana è stata colpita dal corona virus, la seconda grande ondata è in corso in questo momento e sta facendo molti morti, ma la gente ha ben altro di cui preoccuparsi. Il fatto che le forze NATO, e gli Stati Uniti in primis, stiano lasciando il paese, è un evento che solleva molti interrogativi per il futuro.

Eccoci qui, a 20 anni dall’invasione delle forze NATO, in particolare quelle statunitensi, a parlare della riconquista dei talebani. A parlare della loro possibile partecipazione al governo. Centinaia di miliardi di dollari dopo, una cifra equivalente al piano Marshall, un’Afghanistan distrutto e in preda alla guerra. Decine di migliaia di morti. Nel 2001 il progetto di ricostruzione prevedeva di instaurare una “democrazia di mercato”. Ciò che questo progetto è diventato è un governo transazionale [1] in cui la partecipazione degli afgani è solo di facciata, in cui i principali beneficiari dell’aiuto internazionale sono i paesi donatori, le imprese internazionali, qualche élite afgana. Di democratico non c’è niente, solo la corruzione è diffusa quanto i campi d’oppio, e le frodi elettorali non aiutano la popolazione a dare un senso a tutto questo circo.

Hambastagi, il partito della solidarietà, ha sempre affermato di essere contrario all’occupazione straniera. Ha sempre rivendicato la liberazione del paese, la giustizia per le vittime di oltre 40 anni di guerre e la partenza delle truppe NATO. Ma, aggiunge “per noi, liberazione del paese significa partenza delle truppe ma anche la fine dei finanziamenti stranieri a tutti i signori della guerra, alle milizie, ai gruppi terroristici.” Dicono di voler lasciare il paese, ma continueranno a finanziare milizie per procura, e a manovrare il loro governo fantoccio; questa per Hambastagi non è una vittoria.

I militanti del partito sono preoccupati per la maniera, non più ufficiale, con cui gli Stati Uniti tenteranno di restare in Afghanistan. Certo, gli USA supportano già il vicino e influente Pakistan collaborando con l’ISI, il servizio segreto pachistano. Gli Stati Uniti lasceranno in Afghanistan gli uomini di diverse potenti agenzie di contractors e cellule di intelligence che non figurano nell’accordo firmato con i talebani e che rimarranno probabilmente nel paese ben oltre l’11 settembre, data simbolica scelta da Joe Biden per formalizzare la partenza. Lo scopo finale, dice, è quello di permettere ai talebani di arrivare al governo. “Non sappiamo se saranno inclusi nel governo esistente, o se tutto l’apparato governativa sarà nelle loro mani.”

“Quello che constatiamo ogni giorno qui in Afghanistan, è che i talebani stanno guadagnando terreno, anche con la complicità del governo”. Inizialmente, sono riusciti a guadagnare consenso sul rancore del popolo verso le élites al potere. Nessuno ha dimenticato gli orrori degli anni ‘90 sotto il loro regime, ma in qualche modo i talebani negli anni passati erano sono riusciti a mettere in piedi una propaganda convincente. Oggi, in quest’opera di riconquista delle provincie e soprattutto delle periferie delle grandi città, stanno perdendo credibilità agli occhi della gente. Prima di attaccare una zona, inviano lettere alla popolazione intimando loro di arrendersi, o distruggeranno tutto. Che il popolo si arrenda o meno, entrano nella provincia o nel distretto e distruggono le scuole, le cliniche, gli uffici amministrativi. Impongono di partecipare alla preghiera, alle donne di indossare il burka, di uscire solo se accompagnate da un membro maschile della famiglia e di lasciare la scuola. Le donne sono costantemente sotto pressione. Ai ragazzi maschi è permesso andare a scuola, però spesso l’istituto educativo che frequentavano è stato trasformato in una scuola coranica, in una base operativa o altro, e gli/le insegnanti sono dovuti scappare, per paura di essere arrestati o uccisi. Giornalisti, medici, infermieri spariscono o vengono assassinati. La gente ha paura. Alcune famiglie vengono cacciate dalle loro case, occupate dalle milizie. Per molti ormai non c’è più differenza tra il governo e i talebani. In alcune provincie la violenza dilaga: Kandahar, Farah, Bamyan, Takhar e Badakhshan vedono molti dei loro distretti in guerra. Il discorso che i talebani tengono sul loro cambiamento, e sull’apertura ai diritti delle donne, è tutta fuffa. “Sono più selvaggi e folli che negli anni ‘90”.

“Posso farvi un esempio. Due settimane fa, i talebani hanno attaccato due distretti vicini, a 45 minuti da Bamyan. Sapete bene che nel passato, anche a Kabul, i loro crimini contro la minoranza hazara sono sempre stati feroci. La popolazione di questi distretti ha ricevuto delle lettere da parte dei talebani dicendo che se si fossero arresi, sarebbero stati tutti perdonati e non ci sarebbe stata guerra. È la stagione del raccolto qui a Bamyan, ci sono le albicocche pronte e altri frutti o verdure. La provincia vive di agricoltura. La guerra porta con sé distruzione, perdita dei raccolti e la popolazione di quest’area non se lo può permettere. Quindi hanno lasciato tutto nelle mani dei talebani, come richiesto nella lettera. Li hanno lasciati entrare. I compagni di Hambastagi hanno dovuto evacuare la città. Sono andati a rifugiarsi in un villaggio più lontano. I talebani sono entrati nella zona, hanno razziato, bruciato le scuole, i banchi e le sedie. Hanno arrestato gli ufficiali del governo, li hanno privati di cibo e torturati. In due giorni, il popolo ha visto coi propri occhi che i talebani mentono, sono gli stessi di sempre. La popolazione è tornata a supportare il governo.” Il nostro interlocutore ha spesso scherzato dicendo che “Bamyan è come la Svizzera dell’Afghanistan. Adesso non è più così”.

I media stanno avendo un ruolo fondamentale nella preparazione della popolazione all’arrivo dei talebani. Anche Tolo News, canale TV fondato dall’ambasciata americana e molto seguito, trasmette immagini sulle conquiste e distruzioni dei talebani, mostrando il movimento come molto potente. In questo modo il canale contribuisce alla loro propaganda. Su Tolo, i talebani insistono sulla loro volontà di ottenere un accordo su un nuovo governo, prima di accettare un qualsiasi “cessate il fuoco”.

Ufficialmente, il canale TV si posiziona contro la partenza delle truppe americane, sottolineando i numerosi problemi che questa implicherà. In questo periodo, la redazione di Tolo News subisce anche una censura da parte dei talebani, che hanno intimato al canale di non dare più spazio a determinati personaggi scomodi, tra cui la portavoce di Hambastagi, Selay Ghaffar.

Secondo Hambastagi, gli Stati Uniti stanno lasciando il controllo del paese in mano al Pakistan, in stretta collaborazione con i talebani, e alla Turchia. In luglio, il presidente turco ha dichiarato di essere favorevole alla proposta americana di assumere il controllo dell’aeroporto di Kabul. Al contempo, ha elencato delle condizioni tra cui il sostegno diplomatico alla Turchia e la consegna degli impianti e della logistica finora in mano agli Stati Uniti. I talebani non sono d’accordo con questa transazione che, di fatto, li esclude dal controllo dell’aeroporto e lo affida nelle mani di uno stato membro della NATO. Erdogan si dichiara fiducioso e preparerà delle sessioni di incontro con i vertici del movimento. Nel frattempo, delle milizie di Daesh provenienti dalla Siria e dall’Irak stanno entrando in Afghanistan. Il 20 luglio, primo giorno dell’Eid, lo Stato Islamico ha rivendicato l’attacco terroristico al palazzo presidenziale afgano. Hanno lanciato sette missili, di cui 3 hanno colpito il palazzo.

Nonostante questa situazione estremamente fragile, quella parte di popolazione afgana che resiste, da 40 anni, ha deciso di non abbandonare il campo. Quelle donne e quegli uomini che si battono per creare un’alternativa e ricostruire per davvero il paese martoriato dalla guerra, sono sempre lì e, come durante il passato regime dei talebani, tengono un profilo basso ma continuano a portare avanti la loro lotta. Per il momento, dicono, non possiamo affermarci e combattere contro di loro. “Abbiamo bisogno di un’organizzazione più forte, diffusa, di una guida per il nostro popolo, ma soprattutto abbiamo bisogno che la popolazione afgana creda che un’alternativa democratica su scala nazionale sia possibile. Non siamo pronti.” Guardano al Kurdistan, ma hanno ben presente le differenze tra la due realtà. Sono certi che esiste un’alternativa afghana al governo transnazionale, alla corruzione endemica e all’estremismo religioso. Un’alternativa unica nel suo genere, che rappresenti il popolo afghano nelle sue diversità, nella sua complessità. Un’alternativa, che stanno costruendo.

[1]  Dorronsoro, Gilles. « Le gouvernement transnational de l’Afghanistan. Une si prévisible défaite ». Ed. Karthala (Paris, 2021).

Laura Quagliolo è un’attivista di CISDA

 

Campagna Stand UP With Afghan Women

La rete di Coalizione euro-afghana ha promosso la campagna Stand Up With Afghan Women.

Stand Up With Afghan Women! nasce nel giugno 2022 dalla collaborazione tra Cisda, RAWA, Hambastagi e Large Movements nell’ambito della rete di Coalizione euro-afghana per la democrazia e la laicità, network di organizzazioni già impegnate a vario titolo nella loro azione quotidiana, per la difesa dei diritti umani.

Scarica qui il Comitato promotore e le Organizzazioni aderenti

Lancio della Campagna Stand Up With Afghan Women

Da fine giugno 2022, dopo intensi mesi dedicati ad aggregare sempre più contatti tenendo aperto lo scambio con le attiviste e gli attivisti afghani, la rete di Coalizione euro-afghana lancia la CAMPAGNA STAND UP WITH AFGHAN WOMEN! attivando una Petizione incentrata su 4 obiettivi:

  • Non riconoscimento del Governo dei Talebani
  • Autodeterminazione del popolo afghano
  • Riconoscimento politico delle forze afghane progressiste e messa al bando di personaggi politici legati ai partiti fondamentalisti
  • Monitoraggio sul rispetto dei diritti umani

Invio della petizione

La petizione, aperta alle adesioni collettive e a quelle individuali (che abbiamo aggregato grazie alla piattaforma Change), si è conclusa il 25/11/23 e, in occasione delle celebrazioni per la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, il 25 novembre 2023, il Coordinamento Italiano a Sostegno delle Donne Afghane (CISDA), Large Movements Aps e AltrEconomia, insieme alle associazioni afghane Revolutionary Association of the Women of Afghanistan (RAWA) e Hambastagi (Partito della Solidarietà) hanno inviato all’attenzione delle istituzioni italiane, europee e internazionali la petizione “Stand Up With Afghan Women” .

Leggi il Comunicato stampa .