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Autore: Patrizia Fabbri

“Ci vorrà tempo ma il cambiamento per le donne afghane arriverà”

Mentre i governi (occidentali e non solo) sostengono i vari gruppi armati presenti nel Paese, l’associazione Rawa continua a lavorare per creare una nuova consapevolezza politica. Il racconto di una delle attiviste

Ci incontriamo con Maryam, alle quattro del mattino, Kabul è ancora vuota e buia, lucida di pioggia. Ci aspetta una lunga giornata. Viaggiamo per ore tra le montagne, infagottate in abiti neri che ci nascondono, sulle strade polverose del suo Paese per scoprire piccole realtà preziose nel deserto di pietre e di ingiustizia che circonda le donne. Lungo il percorso troviamo spazi di libertà, impegno, speranza e un’attività costante e combattiva. Un lavoro tenace, che continua da quarant’anni anche ora sotto i Talebani. Era il novembre 2019.

Le cose sono diventate più difficili, adesso. Ma il lavoro, per le donne della Revolutionary association of the women of Afghanistan (RAWA) non si ferma e Maryam (nome di fantasia) ce lo racconta, qui, in Italia. Il cammino che l’ha portata in Europa a ottobre non è stato facile né privo di rischi. È venuta qui per essere la voce delle donne sprofondate nel silenzio dei Talebani. Per mostrare a tutti noi che in quel Paese, dimenticato dai media e dai governi occidentali, le donne vivono una condizione infernale ma ognuna di loro combatte per mantenere viva la propria dignità. Una particolare forza di resistenza, anche all’orrore.

Difficile immaginare un futuro per l’Afghanistan. Quali sono le pedine e i giocatori in campo?
MR L’analisi è complicata e ancor di più le previsioni. Ai destini dell’Afghanistan sono intrecciati quelli di molti governi esteri e ciascuno di loro sta lavorando per i propri interessi e per contrastare i rivali. Cina e Russia si avvicinano ai Talebani per proteggere i loro affari economici e gli Usa non lo possono permettere. Così, attraverso i loro servizi segreti, sostengono lo Stato islamico (Isis) e altri gruppi di fascisti religiosi. Anche i Paesi confinanti, come Iran e Pakistan, fanno lo stesso da sempre sostenendo e usando i terroristi. Altri li accolgono con tutti gli onori come la Turchia. La divisione interna dei Talebani facilita il compito delle intelligence straniere, a caccia delle pedine più convenienti. Finché i terroristi saranno sostenuti dall’estero con denaro, armi e complicità, non saranno sconfitti. Quello che è sicuro è che i civili saranno le vittime e i fondamentalisti i vincitori. È un film che abbiamo già visto.

In Occidente si parla di resistenza armata, di opposizione ai Talebani. Chi sono?
MR La cosiddetta “resistenza” è formata da gruppi che conosciamo bene, fondamentalisti quanto i Talebani -come l’Alleanza del Nord- che hanno commesso crimini di guerra contro la popolazione nei decenni passati. Non sono diversi da chi governa oggi a Kabul, hanno solo un buon maquillage e un po’ di cultura, ma sono altrettanto oscurantisti e feroci soprattutto contro le donne. Anche il giovane Massud, che vuole essere un eroe nazionale come il padre (Ahmad Shāh Massud, assassinato nel 2001, ndr) è un burattino degli americani. Fa parte del loro gioco che, da una parte, lascia il Paese ai Talebani e li rifornisce di materiale bellico, e dall’altra sostiene personaggi come Massud, presentandolo come l’unico argine ai nuovi padroni. Puntano su due cavalli, come abbiamo già visto negli scorsi vent’anni.

Un gioco che potrebbe finire male.
MR Se i governi occidentali continuano ad armare e sostenere questi gruppi per usarli uno contro l’altro per i propri fini e bilanciare le loro influenze possiamo aspettarci una guerra civile su base etnica, come negli anni Novanta. Non vogliono liberare il Paese, vogliono solo una condivisione del potere con i Talebani. Massud all’inizio aveva trattato: aveva chiesto il 50% dei posti nel governo per i suoi. E quando ha ricevuto un rifiuto dai Talebani, ha detto che si sarebbe accontentato anche del 30%.

“Finché questi terroristi saranno sostenuti dall’estero con denaro, armi e complicità, non saranno sconfitti. Quello che è sicuro è che i civili saranno le vittime”

La nuova guardia dei war lords che si spendono in Occidente ha anche un progetto politico preciso? Quale?
MR Si tratta di un progetto federale che si propone di dividere l’Afghanistan secondo le diverse etnie. Le influenze straniere si sono concentrate su un territorio specifico o su una particolare etnia. Ognuno, protettori stranieri e gruppi fondamentalisti, avrebbe così la sua zona di influenza e il suo regno personale.

Un Afghanistan fatto a pezzi, lontano dai vostri scopi, immagino.
MR Sì, molto lontano. Noi non possiamo accettare questa prospettiva e siamo molto preoccupate. Rawa ha sempre combattuto per conquistare la giustizia sociale per tutti gli afghani, per annullare le divisioni etniche, che portano solo ad altri conflitti e rendono il Paese sempre più debole. Del resto quaranta o cinquant’anni fa l’appartenenza etnica non era importante. Adesso l’Afghanistan sta diventando una casa sicura per tutti i gruppi terroristi.

Ma la popolazione non ci sta, le giovani donne trovano il coraggio di scendere per le strade, sfidando le rappresaglie. Alzano cartelli per reclamare i loro diritti, allo studio, al lavoro, alla libertà, alla vita. Gli stessi slogan delle loro sorelle iraniane e delle donne in lotta in tutto il mondo. Quanto è diffusa l’opposizione ai Talebani?
MR Ovunque. Anche nelle zone più arretrate e conservatrici la gente vuole godere dei minimi standard umanitari, sono richieste di base, istruzione, salute, lavoro. Ormai hanno capito che non possono aspettarsi niente di tutto ciò dai Talebani. La sicurezza promessa non c’è, gli attentati continuano, le persone muoiono di fame e non possono lavorare. È insopportabile per chiunque.

Un sentimento di sfida, fatto di gesti semplici: così la piccola resistenza si nasconde nelle pieghe del quotidiano, nell’ombra della dignità ferita. Come si manifesta?
MR Con la musica ad esempio. È molto importante per noi, specialmente quella tradizionale. Alcuni musicisti sono stati arrestati e uccisi ma la gente continua a suonare dentro le case, in segreto. Quando riesci a sentirla ti apre il cuore alla speranza. Ragazze e ragazzi non hanno rinunciato ai loro interessi. Si riuniscono in piccoli gruppi leggono, dipingono, suonano, non si lasciano abbrutire. Ci sono giovani donne che hanno il coraggio di uscire tra loro e senza uomini, indossando solo un velo, senza burqa o hijab nero.

E poi ci sono le ragazze che frequentano le scuole segrete di Rawa. Rischiano, si impegnano e imparano, acquisendo armi per il futuro. Qual ruolo hanno i social media?
MR Sono diventati importanti, anche se pericolosi: è necessario proteggersi, essere attenti a nascondere le proprie tracce. Sono un luogo dove la gente può dire che cosa pensa, mostrare la propria rabbia contro i Talebani, coinvolgere gli altri. Quando il ministro dell’Educazione talebano ha dichiarato che sono le famiglie afghane a non voler mandare a scuola le bambine, è nata spontaneamente una campagna sui social media che si è diffusa molto velocemente. Piccoli messaggi e slogan a favore dell’istruzione delle donne che si sono diffusi in tutto il Paese, in qualsiasi provincia e tra le persone di tutte le etnie.

Il rischio è alto, soprattutto per il lavoro di Rawa. Quali sono gli ostacoli?
MR Anche un piccolo evento, diventa un miracolo. È complicato portare persone sotto lo stesso tetto, non insospettire i vicini, non far sentire le proprie voci da fuori, preparare un piano, una scusa plausibile per la riunione, nel caso in cui i Talebani facessero irruzione. Viaggiare per seguire i nostri progetti nelle province, è difficile: i check points talebani sono ovunque e controllano tutto. Come sempre, ci muoviamo con un basso profilo e molta cautela.

Il racconto delle messinscene che le attiviste di Rawa sono costrette a recitare per ingannare i Talebani è sorprendente. Non possiamo raccontarlo, per ovvi motivi di sicurezza. Ma come fate a portare avanti le vostre attività in queste condizioni?
MR Abbiamo una lunga esperienza della clandestinità, maturata in decenni di lavoro e di sopravvivenza, anche sotto i Talebani, e una solida rete di relazioni e sostenitori. E poi c’è l’esperienza delle lotte delle altre donne e degli altri uomini che, accanto a noi e prima di noi, hanno resistito all’oppressione.

La vostra battaglia si combatte anche nella mente delle donne, è così?
MR Molte donne pensano che non ci sia niente da fare, che la vita prigioniera che stanno vivendo sia il loro destino e che non possano fare altro se non ricorrere a quella atavica e spaventosa forza di sopportazione che fa parte della loro storia. La rassegnazione è il nemico più insidioso. Lo scopo del nostro lavoro -in questo momento in gran parte di soccorso alle prime e più urgenti necessità- è quello di creare una nuova consapevolezza politica, la fiducia e la certezza di poter cambiare le cose. Cerchiamo di spiegare che ognuna di loro può fare qualcosa. Che la politica -di cui non vogliono occuparsi- è importante e che se il governo cambiasse anche molti aspetti della loro vita quotidiana potrebbero mutare. Che potrebbero godere dei diritti che spettano loro, che la vita che fanno si può e si deve trasformare, un passo alla volta. Ci vorrà molto tempo ma il cambiamento ci sarà. E ci sarà solo se le donne ci crederanno.

 

Pubblicato su Altreconomia, n. 253

Cristiana Cella, giornalista, scrittrice, sceneggiatrice. Segue le vicende afghane dal 1980, quando entrò clandestinamente a Kabul, vietata ai giornalisti, per documentare la resistenza della città contro l’invasione russa.  Dal 2009 fa parte del Direttivo dell’Associazione Cisda (Coordinamento Italiano Sostegno donne afghane), ha partecipato a diverse delegazioni in Afghanistan. Ha pubblicato un libro: ‘Sotto un cielo di stoffa. Avvocate a Kabul’, edito da Città del Sole Edizioni.

 

La silenziosa resistenza delle donne costruisce l’Afghanistan del futuro

Nonostante la repressione dei talebani, l’Associazione rivoluzionaria delle donne afghane garantisce assistenza sanitaria e la distribuzione di alimenti nei villaggi più poveri. Costruendo reti e relazioni, il vero motore di ogni rivoluzione culturale

Che cosa significa organizzare la resistenza in un Paese riconsegnato agli aguzzini talebani dopo vent’anni di occupazione occidentale? Per un’organizzazione di donne costretta a rimanere in clandestinità anche durante gli ultimi venti anni di cosiddetta democrazia, la strategia è ben rodata: si tratta di costruire un tessuto di relazioni sociali che sfuggano al potere di turno, attraverso la solidarietà e l’esercizio attivo di empowerment delle donne, a cominciare da quelle escluse da ogni diritto.

È con questa chiave che vanno lette le iniziative dell’Associazione rivoluzionaria delle donne afghane (RAWA) che, anche in queste condizioni impossibili, continua a essere ben presente ed efficace dove nessuna organizzazione di soccorso internazionale riesce ad arrivare: le aree più remote del Paese, mai toccate dalle briciole dei mille miliardi di dollari spesi dagli ex occupanti per mostrare quel miglioramento delle condizioni di vita a giustificazione della missione militare.

L’attività umanitaria di Rawa, che va dall’assistenza sanitaria di base alla distribuzione di alimenti e generi di prima necessità, è qualitativamente ben diversa da quanto una qualsiasi organizzazione non profit potrebbe organizzare. Svolgere queste missioni implica un alto grado di consapevolezza politica in chi affronta il rischio di violare i decreti o le leggi non scritte, ma ugualmente efficaci del precedente regime fondamentalista a tutela occidentale, e grande competenza nel muoversi in clandestinità salvaguardando l’incolumità degli attivisti.

È una incredibile palestra di formazione di giovani attiviste sul campo, che crescono attraverso il lavoro di base, imparano a relazionarsi con i soggetti locali, a rafforzare e legittimare il ruolo delle donne in quei contesti arretratissimi, a individuare potenziali leader tra le donne locali con cui restare in contatto per pilotare percorsi di formazione successivi, che comportano alfabetizzazione e azione sociale collettiva in modo inscindibile. Niente indottrinamento. Si impara mettendosi al servizio della comunità, coinvolgendo dal basso, imparando insieme a prendere in mano il destino personale e collettivo.

Le domande poste ai locali per costruire consapevolezza sulle condizioni materiali di vita a partire dai bisogni concreti aprono loro gli occhi sulle responsabilità, sui soggetti coinvolti, sulle possibili piste di resistenza. C’è un grande sapere delle donne che aspetta solo di essere valorizzato e sistematizzato: serve farne tesoro per costruire un’organizzazione realmente rivoluzionaria.

In questi mesi estivi, ad esempio, squadre di volontarie -e supporter uomini- di Rawa hanno raggiunto le montagne della provincia di Logar per soccorrere un campo di sfollati interni con una unità sanitaria mobile. Nel campo due vivono una cinquantina di famiglie, ciascuna composta in media da una dozzina di membri, in maggioranza donne e bambini, che sopravvivono in tende miserabili, lontani dai centri urbani. Sono costantemente in balìa degli eventi climatici estremi che, a causa del disastro ambientale planetario, colpiscono in modo particolarmente severo questa zona del Pianeta priva di infrastrutture. Alluvioni, come quella di inizio settembre che ha mietuto migliaia di vittime in tutto il Paese, ma anche il gelo dell’inverno e le temperature eccezionali estive. Senza accesso all’acqua potabile. Gli sfollati hanno accolto l’unità sanitaria mobile con grande entusiasmo e ospitalità.

La provincia di Logar è stata scenario di conflitti tra i talebani e il governo precedente che se ne contendevano il controllo. Gli improvvisi scontri armati hanno causato più volte la perdita di ogni bene alla popolazione locale, che ripetutamente ha visto distruggere tutte le proprie scorte alimentari, unica fonte di sostentamento. Anche oggi vivono di allevamento e agricoltura, ma a malapena producono abbastanza per sostenere la propria famiglia giorno per giorno. Un anziano ha raccontato alle attiviste di Rawa che loro non avevano mai ricevuto alcuna assistenza, né dal governo né da associazioni umanitarie pubbliche o private: questa era la prima volta che qualcuno li raggiungeva. Sono completamente deprivati dei loro diritti più elementari: acqua potabile, cure sanitarie, servizi igienici, case e scuole per i bambini. Non sorprende quindi l’alto numero dei pazienti che hanno fatto ricorso alle cure sanitarie di Rawa, in maggioranza donne in gravidanza e in allattamento. Tutti segnalavano la mancanza di acqua potabile come il principale problema: la dissenteria ne è una conseguenza cronica, sia per gli adulti sia per i bambini; e l’igiene è compromessa. Molti bambini soffrono di malnutrizione e polmonite.

Le unità sanitarie mobili di Rawa si spostano in diverse province, dove selezionano dopo un’indagine accurata in quali aree intervenire. Ad esempio nel Parwan, una provincia del Nord, il luogo selezionato è stato un piccolo villaggio e bellissimo (di cui non faremo il nome) situato in una valle coperta da alberi di albicocche. Qui i pazienti soccorsi sono stati 200 tra cui donne con gravi carenze vitaminiche e bambini con diarrea e malnutrizione. È stata svolta un’attività di formazione per il controllo delle nascite, per le misure igieniche e per la prevenzione del Covid-19.

C’è un grande sapere delle donne che aspetta solo di essere valorizzato: serve farne tesoro per costruire un’organizzazione realmente rivoluzionaria 

In questa zona esiste un unico piccolo presidio sanitario, ma si trova a un’ora di cammino e non ci sono mezzi di trasporto né pubblici né privati: raggiungerlo è molto difficile sotto il sole cocente o la neve abbondante dell’inverno che cancella i sentieri. Le persone hanno raccontato che quest’anno finalmente, dopo tre anni di alluvioni che hanno distrutto i raccolti, le albicocche hanno potuto dare molto frutto. Purtroppo però il collasso economico del paese ha imposto loro prezzi di vendita da fame: sette chilogrammi di albicocche per 50 afghani (equivalenti a mezzo dollaro). Hanno quindi deciso di venderne una quota come albicocche essiccate, al prezzo di 1.100 afghani (12 dollari) per sette chilogrammi, ma temono che pochi possano permettersi di comprarle data la miseria in cui è sprofondato l’Afghanistan. Rischiano quindi di non guadagnare abbastanza per affrontare il prossimo inverno.

Il processo di essiccazione delle albicocche è totalmente gestito dalle donne che, malgrado il peso notevole del lavoro domestico, lavorano fianco a fianco con gli agricoltori uomini. Una buona percentuale degli abitanti del villaggio erano stipendiati in precedenza come dipendenti dell’esercito afghano, della polizia e delle forze di sicurezza sia governative sia private, ma con l’arrivo dei talebani molti sono fuggiti in Iran, da soli o con le proprie famiglie, e sono ancora gravemente esposti a rischio di ritorsioni.

La principale preoccupazione degli abitanti del villaggio è che le loro figlie siano private dell’istruzione. La maggior parte delle ragazze che andava a scuola ora si vede negato questo diritto a partire dal sesto grado (conclusione del ciclo di scuola primaria). Sono consapevoli, invece, che solo una generazione bene istruita può garantire un futuro al loro Paese.

 

Pubblicato su Altreconomia n. 252

Gabriella Gagliardo è un’attivista di CISDA

Jin Jiyan Azadi. La rivoluzione delle donne in Kurdistan

“Jin, Jîyan, Azadî” raccoglie le voci di venti rivoluzionarie curde e le compone in un’architettura maestosa: le combattenti ci offrono attraverso memorie private, lettere e pagine di diario una profonda riflessione su un percorso che non inizia con la riconquista di Kobane del 2015 ma ha radici ben più lontane. Per la prima volta scopriamo dalla prospettiva delle protagoniste la visione del mondo e le scelte di vita che le hanno portate alla guida di una guerra di liberazione, oltre che di un epocale progetto di trasformazione dei rapporti tra donne e uomini, tra nazioni e tra specie viventi. La loro proposta di una via d’uscita ci cattura e destabilizza i nostri canoni culturali.

a cura di Istituto Andrea Wolf

Tamu, 2022

Non voltiamo lo sguardo altrove

L’Occidente non è riuscito a portare democrazia e libertà delle donne, ma una nuova devastante guerra

La decisione degli USA di avviare una trattativa con i talebani, consentendo la liberazione di 5000 miliziani dalle prigioni, e di lasciare l’Afghanistan insieme a tutte le truppe della Nato, ha portato ad una situazione che non può che definirsi di emergenza umanitaria. I talebani stanno riconquistando il paese, provincia dopo provincia, lasciando dietro di loro una scia di morte e devastazione forse mai viste prima.

Secondo quanto riportato al Consiglio di Sicurezza dalla rappresentante speciale del Segretario generale dell’Onu per l’Afghanistan, Deborah Lyons, quel che sta accadendo richiama sempre più quanto avvenuto in Siria o a Sarajevo. Metà della popolazione, 18,5 milioni di persone, ha bisogno di assistenza umanitaria.

Centinaia di migliaia di sfollati si sono riversati su Kabul per scappare dalla brutalità e dalla violenza dei talebani e non hanno accesso a cibo, acqua, elettricità, medicine. Le associazioni, le onlus locali e gli attivisti con cui il Cisda lavora da oltre 20 anni, ancora una volta, si stanno attivando per accogliere i loro connazionali in fuga, nonostante il contesto insicuro e drammatico.

Vogliamo cominciare ad aiutarli con un primo doveroso gesto di umanità: stiamo raccogliendo fondi che è necessario inviare in brevissimo tempo, per far sentire che ci siamo e che continueremo a star loro accanto, anche nell’ennesima tragedia che stanno vivendo.

Vi inviamo il report che hanno pubblicato dopo una visita in un campo di sfollati nei pressi di Kabul, dove si stanno rifugiando persone provenienti dalle provincie di Kunduz e Thakar, al Nord

Vorrei che morissimo tuttiLa condizione degli sfollati nel parco Azadi di Kabul

di Zahra (nome di fantasia)

A seguito della decisione di ritirarsi dall’Afghanistan degli Stati Uniti e degli eserciti alleati della NATO le milizie talebane, con cui sono state avviate le “trattative di pace”, hanno invaso le città, preso il controllo dei capoluoghi di provincia e si sono impadronite facilmente delle vite, delle proprietà e dell’onore del nostro popolo. Migliaia di morti e feriti, saccheggi e incendi di proprietà pubbliche e di case, centinaia di migliaia di famiglie sfollate in altre province, inclusa Kabul, sono i primi risultati della resa di diversi capoluoghi di provincia ai mercenari talebani. Il regime fantoccio al potere, creato solo per salvaguardare gli interessi USA, e sorretto solo grazie all’appoggio degli americani, non ha fatto altro che tradire le persone di questo paese, lasciandolo nelle mani dei criminali jihadisti e talebani, e ora si è arreso a questi gruppi criminali.

Il 9 agosto 2021, sono andata al Parco Azadi per vedere di persona le condizioni degli sfollati dalla guerra e scrivere un rapporto. La deplorevole situazione di decine di famiglie in fuga in questo parco è una ferita per ogni essere umano. Questo rapporto è un riassunto di ciò che ho visto e sentito.

Non appena siamo scesi dalla macchina, Reyhaneh e il suo bambino di sette anni sono venuti verso di noi. Lei va incontro a ogni nuovo arrivato che entra nel parco; ci ha subito fatto vedere la sua carta d’identità per dimostrare di essere una sfollata di Takhar. Reyhaneh è rimasta per ore in una tenda sotto il sole cocente, indossando il burqa, per preparare un boccone di pane per i suoi bambini. Si è anche avvicinata ai passanti ripetendo all’infinito frasi piene di dolore: “Aiutatemi, fratelli”, “I miei bambini hanno fame“. Questa scena mi ha trafitto il cuore e mi ha infuocato il corpo, mentre imprecavo contro tutti i responsabili afghani e stranieri di tanta sofferenza. Ho iniziato a parlare con una signora che ha subito detto: “Abitavamo nella zona di Seh Takhar. Tre giorni fa, due famiglie sono fuggite. Ho cinque figli. Non abbiamo un posto dove stare. Viviamo sotto un albero e sotto il sole cocente. Siamo sfollati a causa della guerra in corso tra governo e talebani. Da entrambe le parti arrivano solo venti di morte. Nessuno ci aiuta. Non abbiamo un soldo in tasca. La nostra casa è stata data alle fiamme e siamo usciti dalla città con i vestiti che avevamo addosso, sapendo di rischiare la vita“.

Ahmad Javid piangeva, disperato e indifeso; ha appoggiato il suo corpo stanco contro un albero ed era indifferente alle grida lontane dei bambini. Forse stava pensando a un membro della sua famiglia ferito o intrappolato nelle fiamme, o a quando un colpo di mortaio ha colpito la sua casa. Ed è stato il momento peggiore della sua vita…

“Sei sfollato?” gli ho chiesto. “Siamo arrivati ieri da Kunduz. Siamo rimasti coinvolti in una feroce battaglia avvenuta durante la notte. Temendo che la situazione peggiorasse, siamo fuggiti e ci siamo nascosti dietro la prigione. Ma i talebani hanno conquistato la prigione e siamo andati all’aeroporto, dove da mesi molte persone che non hanno un posto dove andare, colpite dalla guerra e dai colpi di mortaio, vagano miseramente sotto le tende. Quando i talebani hanno attaccato la prigione sono dovuto scappare dalla pioggia di proiettili con mia moglie e cinque figli, e siamo arrivati qui, nel cuore della notte; non ho un soldo e nessuno che me ne possa prestare. Io posso sopportare la fame, ma come posso guardare negli occhi i miei figli? Vedere che piangono per la fame? Non so che fare, non riesco più a pensare, vorrei solo che morissimo tutti…”.

Fawzia, una donna di mezza età, disperata dopo la sua fuga da Herat, ci ha detto: “Vogliono conquistare quel che resta di Herat e la città è in fiamme. Quando i talebani sono entrati nella nostra zona, siamo dovuti scappare in una zona controllata dal governo. Quando abbiamo visto le uccisioni e il terrore in città, abbiamo deciso di scappare a Kabul: avevamo molta paura. Noi, una famiglia di 14 persone, vaghiamo di vicolo in vicolo da tre giorni. Tutti vengono, fanno promesse, scattano foto e poi se ne vanno. Mio cognato è stato colpito da due proiettili e mio marito è malato…”.

Con il passare dei minuti, nel parco aumentava il numero degli sfollati interni, per lo più provenienti dalle province settentrionali. Vedendo vecchi, giovani e bambini sotto il sole cocente vivere i momenti più amari della loro vita io, come essere umano, mi sono vergognata per non essere riuscita a dar loro nemmeno un piccolo aiuto. Ho visto persone scendere da veicoli blindati con i vetri oscurati, mentre le loro guardie del corpo facevano in modo che gli sfollati si allontanassero dal veicolo; fingevano di essere “sconcertati”, hanno fatto il giro del parco e, dopo essersi fatti un selfie con le famiglie di sfollati, hanno concluso lo spettacolo e se ne sono andati.

Mujib Nabina, non vedente, si è presentato come rappresentante di dieci famiglie sfollate da Takhar e ci ha detto: “Le nostre dieci famiglie sono sfollate da una zona della città di Takhar. Dopo lo scoppio della guerra, un colpo di mortaio ha colpito la nostra casa, e sei bambini sono rimasti gravemente ustionati. Di questi, quattro sono ricoverati all’ospedale pediatrico e gli altri due sono all’ospedale Esteqlal. Non abbiamo portato con noi altro che i vestiti che indossiamo. Tutta la nostra vita è stata in guerra, sotto le bombe e i colpi di mortaio. Siamo rovinati e disperati, e ora tutti vengono e scattano foto ci fanno una promessa e se ne vanno. Ci domandiamo cosa dobbiamo fare“.

Una ragazza di Kunduz, che mentre parlava tratteneva il respiro, ci ha detto, piena di dolore: “Verso le dieci del mattino sono arrivati a Kunduz e poi sono iniziati i bombardamenti sulle nostre case. Il mio fidanzato, un militare dell’esercito, si trovava con 38 colleghi nel comando di Kunduz che è stato circondato dai talebani; solo lui è sopravvissuto. Lo abbiamo portato a Kabul con grande difficoltà. Lui e i suoi colleghi non si sono arresi. Ora è ricoverato in un ospedale militare a Kabul, gravemente ferito. I talebani sono entrati e hanno saccheggiato l’edificio. Prima dell’assalto al comando i funzionari e i capi militari sono fuggiti all’aeroporto di Kunduz e da lì a Kabul, ma i poveri soldati sono stati uccisi e feriti. La mia famiglia è composta di 12 persone e solo mio fratello è rimasto a casa. Siamo usciti di casa solo con i vestiti che avevamo addosso. Chi ci ha portati da Kunduz a Kabul ha voluto 12.000 afgani [NdR, unità di moneta afghana equivalente a circa 130 euro].

In poche parole, Ghani e i suoi sono responsabili dello sfollamento e della distruzione di centinaia di migliaia di famiglie provenienti da tutte le parti dell’Afghanistan. Migliaia di talebani sono stati liberati dalle prigioni e gli occupanti stranieri, USA e Khalizad in testa, hanno consentito che questi criminali versassero il sangue dei nostri compatrioti.

da Hambastagi

 

 

 

Resistere, cercando di non esistere. Le voci delle donne afghane raccolte dal Cisda

Alle limitazioni dei diritti fondamentali imposte dai Talebani in Afghanistan durante il primo anno di ritorno al potere -dall’istruzione alla salute- si sommano la crescente povertà e insicurezza alimentare. Ecco le testimonianze custodite e rilanciate dalle attiviste del Coordinamento italiano a sostegno delle donne afghane

È il diritto di vivere che manca. Le donne scomparse dietro i drappi neri e tra le pieghe del burqa, lottano per riprenderselo. “Dovevo uscire a comprare del filo, mi serve per il mio lavoro di sarta. Il primo ordine da molti mesi, devo approfittarne. La stoffa nera mi inghiotte, tutta coperta, un vecchio corvo. Solo gli occhi respirano, vedono, li vedono. Avanzano dal fondo della strada, fermano la macchina, scendono. Sono tre, armati. Puntano dritto su di me. Gridano, non si sa perché. La mia mente corre veloce, è tutto a posto? Sono in regola? Sono coperta come vogliono loro, il cuore accelera. No, i guanti neri non li ho. Ci sono 45 gradi all’ombra. Sudo tanto che li vedo traballare in un’immagine acquatica. Sono sola, per strada. Ecco ho disobbedito. Gridano, mi spingono, sono una schifosa puttana, sì perché sono uscita a comprare del filo, senza un dannato uomo, senza i guanti, mi sento un pupazzo nelle loro mani. Nessuno mi proteggerà, tutti hanno paura. Mi accorgo che sto tremando. Mi malmenano, sempre senza smettere di urlare, mi danno un calcio, cado, se ne vanno garantendomi la loro punizione per la prossima volta. Mi arresteranno e mi frusteranno. Questo il programma. Ma per questa volta è andata bene. Avevano fretta. Mi asciugo il sudore, respiro, mi nascondo, aspettando che la macchina sparisca. Ora, finalmente, posso comprare il mio filo”.

Così racconta Amina, piccola e tenace sarta di 16 anni. “Qui si soffoca. La vita è diventata così pesante che non riesci nemmeno a respirare. Se i Talebani fossero capaci di portar via l’ossigeno da dentro i nostri polmoni, lo farebbero”, Shazia ha quattro figlie femmine ed è esasperata. I divieti per le donne sono ovunque: non ci sono leggi, solo ordini, ogni volta diversi. Ogni giorno se ne inventano di nuovi; “Così ti tengono sempre sul chi vive, sull’orlo dell’errore, di una punizione possibile”.

I disturbi mentali, la depressione, soprattutto i suicidi , sono in forte aumento tra le donne. “Cerco in tutti i modi di essere forte -dice Samia, vedova e con una famiglia da mantenere- ma la situazione di adesso è molto stressante, siamo sotto pressione, incerte, spaventate. A volte non riesco nemmeno più a prendermi cura di me stessa in modo appropriato. Devo vendere bolani ( focacce di pasta fritta ripiene di verdure) per strada, per poter nutrire la mia famiglia. È dura, la gente non ha niente, non ha nemmeno soldi per mangiarsi un bolani. Ma il peggio è che ogni giorno vengo minacciata dai Talebani; mi gridano in faccia con il fucile puntato perché non sto a casa come dovrei. Mi ripetono che sono una prostituta, che sotto la copertura dei bolani cerco clienti. Devo sopportare tutto questo, non mi faccio colpire dalle loro parole e dai loro gesti, non li ascolto. Cambio ogni giorno strada. Ogni giorno cucino di nuovo i bolani che mi hanno rubato. Se dovessi restare chiusa in casa, come vogliono loro, moriremmo tutti di fame”. Si fa di tutto per non morire di fame. La maggior parte della gente non ha posto per altri pensieri. L’inverno scorso ha decimato la popolazione, specialmente i più piccoli.

Vendere in sposa una bambina, anche di tre o quattro anni, può significare la sopravvivenza degli altri figli. Anche i piccoli maschi si vendono. Anche parti del corpo, come i reni, per 400 dollari, anche quelli dei bambini, i genitori cercano di convincere i medici riottosi. Anche loro possono vivere con un solo rene, ma nessuno può vivere senza mangiare. “Nonostante i nostri stomaci siano vuoti e i nostri piedi pesanti come il piombo, io in questo orribile momento, non voglio vendere i miei figli come fanno molti -racconta Laila-. Ho imparato a combattere in questi tempi così duri e a sostenerli. Sono riuscita a iscrivere a scuola i due maggiori e studiano sodo. Questi giorni terribili passeranno, i miei figli diventeranno grandi e io sarò finalmente felice”. Ha coraggio Laila, chissà fino a quando ancora. Chissà dove la speranza ferita perde forza, svanisce, si arrende. Ci deve essere un limite oltre il quale si dice basta.

“Nonostante i nostri stomaci siano vuoti e i nostri piedi pesanti come il piombo, io in questo orribile momento, non voglio vendere i miei figli come fanno molti” – Laila

Noshin era scappata due anni fa dal suo villaggio sotto il controllo talebano. Il capo dei miliziani voleva costringere il padre a dargliela in moglie per saldare debiti inesistenti. Ma Noshin voleva studiare essere medico, oculista per l’esattezza: questo era il destino che si era scelto. Scappa a Kabul tutta la famiglia, di notte, per evitare il disastro della sua vita. Ma da agosto nella capitale la situazione diventa troppo difficile. Non c’è lavoro, non c’è da mangiare. Tornano a vivere in campagna, dove suo padre può riprendere a fare il contadino, l’unica cosa che sa fare. “Mi sento circondata da un deserto. Niente lavoro, niente scuola, niente cibo. Non posso immaginare se e quando tutto questo potrà finire o se durerà per molti anni. Quello che mi spaventa è che i Talebani costringano mio padre a vendermi. Lui mi ha sempre protetto e sostenuto e, per questo, per evitare di ritrovarci nella situazione dalla quale eravamo fuggiti, siamo andati in un villaggio in cui nessuno ci conosce. Ma, con i Talebani dappertutto, la storia che ho già vissuto potrebbe ricominciare. Cerco di stare nascosta il più possibile perché loro cercano ragazze da comprare o da rubare. Piccole schiave dei loro poveri capricci. Non sarò una di loro. Cerco di non esistere”.

Ragazzi e ragazze non si devono vedere nemmeno da lontano. All’Università di Kabul, tre giorni alla settimana sono per le ragazze e tre per i maschi. Per le bimbe la scuola si ferma alla sesta classe (l’equivalente della nostra prima media inferiore). Anche nei parchi è lo stesso, tre giorni per uno. Nei ristoranti, le famiglie non possono mangiare insieme, le donne devono sedere nella parte destinata a loro, gli uomini dall’altra. Negli uffici amministrativi del governo le donne non possono entrare. Le cacciano via, nessuno dei loro problemi viene preso in considerazione. Non possono fare nessuna pratica, non le ascoltano.

“Da quando ci sono i Talebani al potere -racconta Sarah, che lavora ancora per una organizzazione umanitaria- la violenza contro donne e bambine ha raggiunto il suo picco. Non esiste più nessuna autorità che possa limitare questa tragedia. I suicidi di donne aumentano ogni mese. Nessuno può dire quanti siano, pochi sono registrati”. L’orrore è permesso. Ai Talebani non dispiace. Le scuole per le bambine non ci sono più e i padri sono liberi di vendere le proprie figlie, sempre più piccole, al miglior offerente.

“Donne e bambine hanno invaso le strade per chiedere l’elemosina, che spesso è l’unica risorsa che rimane -continua Sarah-. Vediamo lunghe file davanti ai panettieri: non aspettano di comprare il pane, non possono. Aspettano che qualcuno, più fortunato di loro, glielo regali, per svoltare un altro giorno. Ragazzi e uomini stanno ore fermi nelle piazze, in attesa di qualche caporale che li assuma per un giorno. Quasi sempre sono delusi”.

Dentro le scuole, quelle poche che ci sono, l’aria è pesante. Farzana è un’insegnante di Mazar-e-Sharif, nel Nord del Paese. Una delle poche città dove ancora le aule sono aperte alle ragazze. Le regole sono strettissime: “Insegnanti e studentesse devono portare vestiti e guanti neri, coprire tutto il corpo e il viso, lasciando liberi solo gli occhi. Non possono togliere il loro hijab nemmeno in classe, tutta femminile -racconta-. A noi insegnanti hanno consegnato tre libri islamici che dobbiamo imparare a memoria. Quando la squadra talebana arriva a controllare, se non rispondiamo correttamente alle domande perdiamo il posto di lavoro. Quando qualche studente ha avuto un buon risultato è severamente vietato applaudire. Dobbiamo solo gridare la parola: Mashallah!. Le loro spie sono dovunque, tra gli studenti e tra gli insegnanti, soprattutto donne. Due volte a settimana il team di controllo talebano visita la scuola e sono sempre pronti a trovare qualche cavillo cervellotico che permetta di chiudere le porte alle ragazze”.

Nelle università la vita è triste. Le giovani donne possono ancora andarci ma sono consapevoli di essere le ultime: mancano le scuole superiori. La catena del sapere si è interrotta. Molte giovani hanno perso la speranza, altrettante se ne sono andate. Quelle che resistono lo fanno per cercare di evitare un matrimonio forzato. Ogni donna in Afghanistan rischia, ogni giorno, nelle piccole cose della vita quotidiana. Quelle normalmente rassicuranti che si sono trasformate in trappole.

“Insegnanti e studentesse devono portare vestiti e guanti neri, coprire tutto il corpo e il viso, lasciando liberi solo gli occhi. Non possono togliere il loro hijab nemmeno in classe, tutta femminile” – Farzana, insegnante di Mazar-e-Sharif

Ma c’è chi rischia di più. Sono le attiviste che si sono esposte per combattere per i diritti delle donne, che hanno organizzato, negli ultimi vent’anni, centri legali, case protette, progetti di istruzione, presidi medici. Loro, che sono state un punto di riferimento per le donne della loro città e del loro Paese, erano in pericolo anche prima dell’arrivo dei Talebani a Kabul e oggi camminano su un filo sottile. Procedono sulla loro strada con fatica, con fantasia, con coraggio. Inventano progetti, vie traverse, nuovi sistemi per aggirare i divieti talebani e continuare ad aiutare le donne.

“Ormai è quasi un anno e la mia vita è stata completamente stravolta -dice Zinab, assistente sociale e attivista-. I problemi di sicurezza sono sempre al primo posto, ti ossessionano, ti lasciano addosso un disagio sottile, perfido. Tutti conoscono la mia attività passata. Abbiamo cambiato casa tre volte negli ultimi mesi, ogni volta in quartieri di Kabul diversi e lontani tra loro per cancellare le tracce. Abbiamo perso i contatti con i nostri amici e parenti, con quelle persone che frequentavano spesso la nostra casa. Siamo un pericolo anche per loro e soprattutto per i nostri figli: i miei maggiori, un ragazzo e una ragazza, studiavano all’università e ora non possono più farlo perché i loro compagni e i loro professori sanno bene chi siamo. Sanno che io mi occupavo di diritti delle donne, che avevamo case protette, che mio marito è laico e anti-talebano. Mia figlia più piccola a scuola non può più andarci. Non c’è spazio né luce per guardare il futuro, non ci sono strade. È così per tutti i nostri ragazzi, ma nessuna di noi è disposta a cedere”.

Zinab si muove sempre con il burqa, cambia ogni giorno l’ora in cui va in ufficio e torna la sera. Ha sempre paura di essere seguita, identificata, arrestata. Paura che trovino la sua casa, che minaccino la sua famiglia a causa del suo lavoro per i diritti delle donne. “Anche quando siamo in ufficio dobbiamo stare all’erta. Se dovessero arrivare i Talebani, dobbiamo essere pronte a metterci l’hijab e a separarci dai nostri collaboratori maschi”. Nonostante tutto, l’ufficio è diventato una scuola segreta, per le ragazze dalla settima classe in poi (la nostra seconda media inferiore), con un corso di cucito a fare da paravento se dovessero arrivare i Talebani. Ma la paura c’è, per le ragazze e per loro. Sono coraggiose, le allieve, forti, entusiaste. Vogliono imparare tutto quello che possono, in fretta, il cammino resta sospeso. La voglia di sorridere ritorna. In un mondo senza risate anche questo è rivoluzionario. Come lo sono i colori, banditi dai Talebani. Proteste variopinte combattono contro il nero: alcune giovani coraggiose escono senza hijab, portano foulard colorati, vestiti fiorati. Sfidano, rischiano. Ritrovano se stesse. Alle conseguenze non vogliono pensare. Finché ce la fanno.

Le giovani donne che protestavano per le strade nei mesi scorsi sono in silenzio. Le minacce, gli arresti, le torture hanno spento le voci. La tattica talebana è quella di non aggredirle subito, durante la manifestazione, con gli occhi dei social addosso che potrebbero riprenderli e mostrare al mondo il loro volto repressivo. Fotografano, pedinano, tracciano percorsi, arrestano. Dopo, quando nessuno vede, si regolano i conti. Lena, un mese fa, ha partecipato a una protesta per i diritti, per far parte del Governo, perché le venga restituito il suo lavoro. Le parole d’ordine sono sempre le stesse, semplici, essenziali: cibo, lavoro e libertà: “Ce l’hanno messa tutta per disperderci. Ci hanno inseguito una per una con i fuoristrada cercando di investirci. Per fortuna siamo riuscite tutte a scappare. Per ora dobbiamo fermarci”, racconta.

Le donne che circolano per le strade ormai sono poche e tutte coperte. Molte ragazze che hanno protestato, molti giornalisti, sono spariti. Nessuno sa dove siano e se siano vivi. Ora per punire le trasgressioni delle donne i Talebani colpiscono e incriminano i parenti maschi. La punizione e il divieto sono trasferiti direttamente dentro la famiglia: sono i mariti, i padri, i cognati a chiudere a chiave la porta. E la violenza familiare aumenta.

“Ce l’hanno messa tutta per disperderci. Ci hanno inseguito una per una con i fuoristrada cercando di investirci. Per fortuna siamo riuscite tutte a scappare. Per ora dobbiamo fermarci”, Lena

Gli attentati continuano come prima, ovunque e in qualsiasi momento. In genere colpiscono i civili, specialmente a Kabul. “La tragedia è che gli ospedali non funzionano, i medici sono fuggiti, il sistema è collassato, per cui le vittime restano senza cure, non ci sono attrezzature sanitarie -dice Manija di Rawa, l’Organizzazione rivoluzionaria delle donne afghane-. Funziona solo l’ospedale di Emergency. Le uccisioni degli ex collaboratori del precedente governo, civili e militari, non si sono fermate”.

Altre volte gli attacchi colpiscono direttamente le macchine e i mezzi militari dei miliziani islamici. I nemici, anche per loro, non mancano. Le ostilità interne tra la Rete Haqqani (militanti islamisti vicini ai Talebani) e il gruppo di Kandahar, gli attacchi dell’Isis Khorasan (la “branca” locale del sedicente Stato Islamico) che contende il terreno e gli uomini dell’Alleanza del Nord che rivogliono il potere perduto. Ma per la maggior parte sono regolamenti di conti interni. Nessun riflesso sulla stampa di questi “incidenti”.

“Qualche giorno fa -dice Hamed- è esploso un ordigno magnetico attaccato a un’automobile dei Talebani, molti di loro sono stati uccisi. Questo succedeva vicino a casa mia, ho potuto vedere da vicino, ma le notizie in tv non ne parlavano affatto. Su questi attentati i miliziani impongono una censura totale. Adesso è più facile anche perché i social media, che sfuggivano al loro controllo, vengono usati meno: non ci sono soldi per pagare la connessione, pochi se lo possono permettere”.

I media restano nel mirino. Un mondo di silenzio, di sospetto, di paura. È questo l’Afghanistan di oggi: gli attivisti, i giornalisti, anche chi scrive un solo post sui social, viene arrestato e sparisce. “Nel corso di questo anno non c’è stato nessun cambiamento tra i Talebani. Non mi aspetto che questo governo collassi -dice Nelab, militante di Rawa-. Probabilmente stanno pensando, su pressione degli americani, di includere nel governo attuale alcuni rappresentanti di quello passato. Era uno degli argomenti della Loja Jirga (termine che possiamo tradurre con “grande assemblea”, ndr) del mese scorso. Un modo per arrivare al riconoscimento internazionale di questo governo, includendo prima di tutto i “signori della guerra” con tutto il loro carico di delitti e denaro. Un modo per ridare credibilità ai Talebani, caldeggiato dagli Stati Uniti. Un altro passo verso un disastro ancora più irreversibile per il popolo afghano”.

“Nel corso di questo anno non c’è stato nessun cambiamento tra i Talebani. Non mi aspetto che questo governo collassi” – Nelab, militante dell’associazione Rawa

Le militanti di Rawa, che non hanno abbandonato il Paese, hanno un vantaggio: sono clandestine da quarant’anni. “Noi non siamo figure pubbliche, non siamo registrate, non conoscono la nostra faccia né la nostra vera identità e in qualche modo è più facile per noi”, riprende Nelab. Queste attiviste possono muoversi più liberamente per costruire i loro progetti, seguendo i percorsi di sempre, dai tempi del primo governo talebano. Ma si muovono in un mondo irto di ostacoli. “Sono tempi molto pesanti, forse più di quello che ci si aspettava. Non solo per la nostra sicurezza e sopravvivenza, ma anche perché è molto difficile coinvolgere le persone, trovare alleati -riflette Nelab-. C’è un tempo per la rivoluzione in cui la gente è chiamata ad agire, a ribellarsi e un tempo in cui le cose sono così difficili che predomina la delusione, l’abbandono, la disperazione e non si vuole più continuare la lotta. Penso che questo momento sia arrivato anche nella nostra storia. Riuscire a vivere, in qualunque modo, è già un successo. Un’attività che esaurisce”.

Le militanti di Rawa non sono donne che si scoraggiano. “Le scuole segrete per ragazze si moltiplicano, in molte province: Farah, Mazar, Jalalabad, Kabul. Le ragazze sono entusiaste: inglese, scienze, matematica, informatica, materie vietate alle donne. Insegniamo soprattutto questo”. Le studentesse rischiano molto, potrebbero essere duramente picchiate se i familiari sapessero. Sania, è una di loro: “Mio fratello è Talebano e se sapesse che frequento la scuola segreta mi picchierebbe a morte. Ci obbliga ad andare alla madrasa la mattina, ma il pomeriggio scappo a ritrovare la mia vita. Invento sempre nuove scuse, parto presto e faccio giri assurdi per non insospettire nessuno”. Sania ha trovato un posto sicuro per nascondere i suoi libri: la cucina, dove gli uomini non si avventurano mai. Pentole e fornelli proteggono il suo coraggio. Le giovani donne si organizzano anche da sole. Chi sa, mette la sua preziosa istruzione a disposizione di altre donne, nel quartiere, con le vicine, con le amiche, con le figlie, con le nonne. Un percorso di sapere condiviso, di resistenza, trasversale e difficile da fermare.

Manca il sapere ma manca soprattutto il cibo. Fin dai primi tempi dopo la presa del potere da parte dei Talebani, le attiviste di Rawa si sono date da fare per sostenere la popolazione: “Distribuiamo cibo alle famiglie -dice Nelab- un progetto indispensabile ma senza futuro perché le cose non potranno che peggiorare. Anche qui dobbiamo sfuggire al controllo talebano. Se ci vedono ci portano via tutto”. Proseguono i progetti dei piccoli gruppi di donne che coltivano zafferano e nei villaggi tra le montagne in cui ci sono scuole e presidi medici. Piccole oasi di libertà, insidiate dai Talebani. L’unità mobile sanitaria di Rawa, ben attrezzata, percorre le strade di tutto il Paese, si avventura nei luoghi più sperduti. I medici sono soprattutto donne.

“Quando a fine giugno c’è stato il terremoto nel Sud-Est dell’Afghanistan, abbiamo mandato laggiù un team medico al femminile. La situazione era catastrofica, morti ovunque, macerie e feriti senza assistenza. I Talebani ci hanno fermato e volevano impedirci di lavorare. Sono state proprio le donne, per le quali non era prevista nessuna assistenza, e gli anziani dei villaggi a protestare e richiedere il nostro aiuto. Alla fine hanno vinto loro. È stato un lavoro massacrante ma ce l’abbiamo fatta. Per molte di queste donne era il primo incontro della loro vita con un medico”.

Intanto, mentre un Paese intero sprofonda insieme alle sue donne, mentre viene annientato il suo futuro, gli occhi dell’Occidente guardano altrove. Non c’è scandalo, né reazione, né clamore della comunità internazionale. Nessuno vuole sapere. Il governo talebano sembra un fatto compiuto, accettato. Forse si pensa a riconoscerlo come legittimo. Il disastro che chiuderebbe definitivamente la prigione afghana. Distrazione, silenzio, indifferenza, oppure, semplicemente, complicità.

Cristiana Cella, giornalista, scrittrice, sceneggiatrice. Segue le vicende afghane dal 1980, quando entrò clandestinamente a Kabul, vietata ai giornalisti, per documentare la resistenza della città contro l’invasione russa.  Dal 2009 fa parte del Direttivo dell’Associazione Cisda (Coordinamento Italiano Sostegno donne afghane), ha partecipato a diverse delegazioni in Afghanistan. Ha pubblicato un libro: ‘Sotto un cielo di stoffa. Avvocate a Kabul’, edito da Città del Sole Edizioni.