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Autore: Patrizia Fabbri

Should I stay or should I go? Le donne afghane tra resilienza ed esilio.

Tesi di Laurea di Elisa Silvestro a.a. 2022/23

Prova finale in Sociologia dell’Immigrazione. Corso di laurea in Sociologia dell’Innovazione. Universitas Mercatorum.

dall’introduzione scritta da Elisa Silvestro

È di questi giorni la notizia che le donne in Afghanistan non possono neanche più passeggiare nei parchi di Kabul, dalla caduta della città il 15 agosto 2021 la situazione delle donne (e non solo) è andata peggiorando.

Il mio intento, con questa breve tesi, è di analizzare la situazione delle donne afgane, guardando il punto di vista sia di chi ha scelto di restare sia di chi ha scelto di emigrare, senza alcun giudizio morale ma ascoltando le due sofferenze derivate anche, dall’abbandono del Paese da parte delle diplomazie occidentali.

Ho potuto raccontare la vita di queste donne grazie all’incontro e allo scambio: la mia tesi nasce infatti dalla condivisione di esperienze racconta- te, a volte con estrema durezza, dalle donne che da anni combattono in Afghanistan per vedersi riconosciuto il diritto di esistere e chiedono di non essere dimenticate da chi ha la fortuna di essere nato in un paese dove l’iscrizione a scuola non dipende dal genere.

Abbinato al racconto della realtà e di chi la vive ci sono una serie di dati che possono aiutare a capire quanto sia difficile il migrare, come è strutturato il Paese, che strascichi hanno lasciato questi anni di guerra.

Concludo con un racconto di speranza, i progetti che attivamente vedono la luce e permettono a molte donne di accedere a un sostentamento, a scuole (purtroppo private e clandestine), che permettono insomma di pensare che un mondo migliore possa esistere.

I due punti di vista di queste donne all’apparenza potrebbero essere speculari, chi è riuscito a fuggire potrebbe voler solo dimenticare la violenza e l’esclusione di un paese governato da fondamentalisti che nascondono il loro odio dietro il Corano e chi resta che potrebbe arrogarsi un certo “peso morale” nel continuare a lottare mettendo in gioco la propria vita.

Parlando con loro in realtà ho compreso che le due posizioni sono totalmente complementari ed entrambe funzionali al primo scopo della lotta degli oppositori dei Talebani, cioè che l’Afghanistan non venga dimenticato e lasciato solo.

Per capire l’Afghanistan per prima cosa dobbiamo comprendere come mai un territorio fatto di tribù, posto in un’area povera di risorse, senza alcun sbocco al mare, si sia trasformato, o meglio sia sempre stato nel corso della sua storia un territorio di conquiste.

Per analizzare la storia afgana dobbiamo partire dalla posizione geografica che ne ha fatto un crocevia di passaggi e conquiste; come definito dal poeta Muhammad Iqbal l’Afghanistan è “il cuore dell’Asia”.

Tanti hanno cercato di controllare l’Afghanistan senza mai riuscire a governarlo con continuità. Inglesi, russi, americani – pur conquistando facilmente il potere – non sono stati capaci di mantenerlo, tanto da far conquistare all’Afghanistan l’appellativo di “tomba degli imperi”.

Questi passaggi stranieri hanno permesso alle donne di ottenere alcuni diritti, come il voto e la partecipazione a cariche pubbliche. Queste norme però non sono mai riuscite a scalzare fino in fondo la mentalità patriarcale ancorata alla religione islamica.

Fondamentale per l’emancipazione femminile è stata la possibilità di accedere alla scuola e all’università; nasce in Afghanistan una generazione di donne che vogliono lottare. Un esempio è Meena Keshwar Kamal che nel 1977 fonda RAWA (Associazione rivoluzionaria delle donne dell’Afghanistan).

L’importanza dello studio nell’emancipazione femminile è chiara fin da subito e tra i primi progetti delle attiviste c’è quello di creare scuole per le bambine, dove studiare anche le materie “illegali” come l’inglese e la matematica.

Una donna che sa leggere e scrivere è meno probabile accetti gli abusi e i soprusi.

Il primo governo talebano nel 1996 vede un’iniziale accoglienza positiva da parte della popolazione afgana, perché si dichiara portatore di pace in un paese stravolto e devastato da anni di continua guerriglia.

Questa iniziale accoglienza diminuisce alquanto in fretta, visto il clima di terrore. Chiunque è perseguibile se non accetta completamente le regole religiose, soprattutto le donne. I Talebani sono ossessionati dalla figura femminile, vogliono in tutti i modi oscurare e segregare le donne, impedendo loro di uscire se non accompagnate da un uomo e indossando il burqa, è vietato il trucco, l’uso di gioielli e di far rumore camminando.

Il ritorno dei Talebani nel 2021 è molto diverso, non è per nulla ben accolto, anzi la loro entrata a Kabul il 15 agosto è vissuta con estrema paura, chi può fugge verso l’aeroporto e spera di riuscire a lasciare il paese.

Dobbiamo anche considerare che l’Afghanistan è un paese alquanto giovane, più del 25% della popolazione è nata dopo il 2001 e non ha memoria diretta del primo governo talebano, per cui le persone sono diverse, purtroppo però i Talebani no e neanche la loro ossessione verso le donne.

Oggi il popolo afgano si può dire, pertanto, molto lontano da quello del 1996; per questo è nata una resistenza spontanea in diverse province fatta da donne e uomini che rifiutano un ritorno al “medioevo talebano”.

Le rivolte, seppur quotidiane, sono indebolite dalla situazione economica che vive il paese, il 95% degli afgani vive in emergenza alimentare e il 50% è sotto la soglia di povertà.

Associazioni come RAWA continuano in clandestinità le diverse attività (progetti di scolarizzazione, supporti sanitari, distribuzione di cibo e vestiti), e riescono a sopravvivere grazie alle reti costruite già durante il primo governo talebano.

Nascere in un paese come l’Afghanistan e decidere di restare è un atto di coraggio che quotidianamente attivisti e attiviste fanno, combattendo e op- ponendosi anche con la loro vita.

La decisione di restare non è sempre una decisione, più spesso è l’unica via. Per una donna è quasi impossibile lasciare il paese oggi: se una donna dovesse lasciare il paese dovrebbe essere accompagnata alla frontiera da un uomo, visto che da sola non può uscire, e quando anche avesse raggiunta la frontiera con Iran o Pakistan potrebbero passare mesi per un visto, il tutto con costi esorbitanti.

Chi decide di intraprendere il viaggio da clandestino, oltre a dover pagare molti soldi a chi gestisce la tratta di esseri uomini, deve considerare il rischio di non sopravvivere durante il viaggio.

L’Afghanistan ci mette davanti alle contraddizioni del capitalismo che, per business, fa accettare qualunque compromesso, dimenticando l’umanità e la dignità che ad ogni essere umano deve essere riconosciuta.

Quello che ci insegnano le donne afgane, con una forza irrefrenabile, è che solo l’istruzione e il poter accedervi può salvare il nostro futuro.

Le donne afgane ci chiedono di partecipare con loro alla battaglia sui diritti femminili universali ed è per questo che hanno indirizzato una raccolta di firme ai massimi esponenti politici globali. Partendo dalle condizioni in cui i Talebani le fanno vivere, e dalle battaglie fatte da queste coraggiose donne, il tema sul tappeto è quello dei diritti femminili che tutte le donne devono aver riconosciuti. La storia dell’Afghanistan insegna che ci vogliono anni per aver riconosciuto un diritto e basta un giorno per perderlo.

Inoltre le donne afgane ci insegnano che la loro lotta si può fare da qualunque parte del mondo e il pretendere la parità di genere vale a prescindere da dove si è nate, per questo il restare o l’emigrare non sono scelte contrapposte, ma semplicemente due modi diversi di portare avanti le stesse istanze.

Cosa mi resta da questo viaggio metaforico? L’aver incontrato donne che lottano con una speranza e una forza incredibile ovunque vivano, ed un messaggio chiaro: nessun paese, nessun popolo può essere oppresso per sempre e, per riprendere una frase di un grande drammaturgo italiano, “ha da passà ‘a nuttata” anche per le donne afgane.

 

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Kabul, crocevia del mondo

I talebani sono tornati al potere dopo vent’anni di conflitto che gli Stati Uniti e gli occidentali non sono riusciti a vincere nonostante aver investito miliardi e perso migliaia di uomini. Com’è stato possibile? Che cosa è successo nei mesi precedenti alla caduta di Kabul? Che ruolo hanno avuto l’accordo di Doha e la trattativa di Trump? Quanto hanno pesato gli errori del passato che a lungo l’Occidente non ha voluto vedere? Chi riempirà il vuoto lasciato dagli Stati Uniti? Cosa accadrà nel Paese? Chi sono i “nuovi” talebani? Come si finanziano? Hanno un consenso? Se sì, su cosa poggia, oltre alla paura? Che errori ha commesso l’America? Quale il ruolo di Cina e Russia? Un libro per decifrare una delle peggiori sconfitte dell’Occidente.

Kabul, crocevia del mondo

di Nico Piro

People, 2022,

Talebani

La scalata al potere dei talebani, il loro impatto sull’intera regione dell’Asia centrale, il loro ruolo nelle strategie delle grandi compagnie petrolifere, il mutamento della politica estera americana dagli anni Settanta a oggi. Ahmed Rashid disegna con efficacia e scrittura coinvolgente l’attuale volto del fondamentalismo islamico, spiegando perché proprio l’Afghanistan sia diventato il punto cardine del terrorismo mondiale. Partendo dagli avvenimenti storici che hanno portato alla cosiddetta “rivoluzione afgana” del 1973, il movimento dei talebani viene analizzato sotto diversi piani e aspetti – l’interpretazione del Corano, le politiche sociali, il coinvolgimento nel commercio dell’oppio, il rapporto con Osama bin Laden – e nella sua evoluzione fino all’intervento americano, conclusosi con la drammatica smobilitazione dell’estate del 2021 e il ritorno al potere dell’organizzazione degli “studenti”. Una ricostruzione storica, economica, etnica e geopolitica.

Talebani. Islam, petrolio e il grande scontro in Asia centrale

di Ahmed Rashid

Feltrinelli, 2022 edizione aggiornata – 1° edizione 2001, pp. 416

“Ci vorrà tempo ma il cambiamento per le donne afghane arriverà”

Mentre i governi (occidentali e non solo) sostengono i vari gruppi armati presenti nel Paese, l’associazione Rawa continua a lavorare per creare una nuova consapevolezza politica. Il racconto di una delle attiviste

Ci incontriamo con Maryam, alle quattro del mattino, Kabul è ancora vuota e buia, lucida di pioggia. Ci aspetta una lunga giornata. Viaggiamo per ore tra le montagne, infagottate in abiti neri che ci nascondono, sulle strade polverose del suo Paese per scoprire piccole realtà preziose nel deserto di pietre e di ingiustizia che circonda le donne. Lungo il percorso troviamo spazi di libertà, impegno, speranza e un’attività costante e combattiva. Un lavoro tenace, che continua da quarant’anni anche ora sotto i Talebani. Era il novembre 2019.

Le cose sono diventate più difficili, adesso. Ma il lavoro, per le donne della Revolutionary association of the women of Afghanistan (RAWA) non si ferma e Maryam (nome di fantasia) ce lo racconta, qui, in Italia. Il cammino che l’ha portata in Europa a ottobre non è stato facile né privo di rischi. È venuta qui per essere la voce delle donne sprofondate nel silenzio dei Talebani. Per mostrare a tutti noi che in quel Paese, dimenticato dai media e dai governi occidentali, le donne vivono una condizione infernale ma ognuna di loro combatte per mantenere viva la propria dignità. Una particolare forza di resistenza, anche all’orrore.

Difficile immaginare un futuro per l’Afghanistan. Quali sono le pedine e i giocatori in campo?
MR L’analisi è complicata e ancor di più le previsioni. Ai destini dell’Afghanistan sono intrecciati quelli di molti governi esteri e ciascuno di loro sta lavorando per i propri interessi e per contrastare i rivali. Cina e Russia si avvicinano ai Talebani per proteggere i loro affari economici e gli Usa non lo possono permettere. Così, attraverso i loro servizi segreti, sostengono lo Stato islamico (Isis) e altri gruppi di fascisti religiosi. Anche i Paesi confinanti, come Iran e Pakistan, fanno lo stesso da sempre sostenendo e usando i terroristi. Altri li accolgono con tutti gli onori come la Turchia. La divisione interna dei Talebani facilita il compito delle intelligence straniere, a caccia delle pedine più convenienti. Finché i terroristi saranno sostenuti dall’estero con denaro, armi e complicità, non saranno sconfitti. Quello che è sicuro è che i civili saranno le vittime e i fondamentalisti i vincitori. È un film che abbiamo già visto.

In Occidente si parla di resistenza armata, di opposizione ai Talebani. Chi sono?
MR La cosiddetta “resistenza” è formata da gruppi che conosciamo bene, fondamentalisti quanto i Talebani -come l’Alleanza del Nord- che hanno commesso crimini di guerra contro la popolazione nei decenni passati. Non sono diversi da chi governa oggi a Kabul, hanno solo un buon maquillage e un po’ di cultura, ma sono altrettanto oscurantisti e feroci soprattutto contro le donne. Anche il giovane Massud, che vuole essere un eroe nazionale come il padre (Ahmad Shāh Massud, assassinato nel 2001, ndr) è un burattino degli americani. Fa parte del loro gioco che, da una parte, lascia il Paese ai Talebani e li rifornisce di materiale bellico, e dall’altra sostiene personaggi come Massud, presentandolo come l’unico argine ai nuovi padroni. Puntano su due cavalli, come abbiamo già visto negli scorsi vent’anni.

Un gioco che potrebbe finire male.
MR Se i governi occidentali continuano ad armare e sostenere questi gruppi per usarli uno contro l’altro per i propri fini e bilanciare le loro influenze possiamo aspettarci una guerra civile su base etnica, come negli anni Novanta. Non vogliono liberare il Paese, vogliono solo una condivisione del potere con i Talebani. Massud all’inizio aveva trattato: aveva chiesto il 50% dei posti nel governo per i suoi. E quando ha ricevuto un rifiuto dai Talebani, ha detto che si sarebbe accontentato anche del 30%.

“Finché questi terroristi saranno sostenuti dall’estero con denaro, armi e complicità, non saranno sconfitti. Quello che è sicuro è che i civili saranno le vittime”

La nuova guardia dei war lords che si spendono in Occidente ha anche un progetto politico preciso? Quale?
MR Si tratta di un progetto federale che si propone di dividere l’Afghanistan secondo le diverse etnie. Le influenze straniere si sono concentrate su un territorio specifico o su una particolare etnia. Ognuno, protettori stranieri e gruppi fondamentalisti, avrebbe così la sua zona di influenza e il suo regno personale.

Un Afghanistan fatto a pezzi, lontano dai vostri scopi, immagino.
MR Sì, molto lontano. Noi non possiamo accettare questa prospettiva e siamo molto preoccupate. Rawa ha sempre combattuto per conquistare la giustizia sociale per tutti gli afghani, per annullare le divisioni etniche, che portano solo ad altri conflitti e rendono il Paese sempre più debole. Del resto quaranta o cinquant’anni fa l’appartenenza etnica non era importante. Adesso l’Afghanistan sta diventando una casa sicura per tutti i gruppi terroristi.

Ma la popolazione non ci sta, le giovani donne trovano il coraggio di scendere per le strade, sfidando le rappresaglie. Alzano cartelli per reclamare i loro diritti, allo studio, al lavoro, alla libertà, alla vita. Gli stessi slogan delle loro sorelle iraniane e delle donne in lotta in tutto il mondo. Quanto è diffusa l’opposizione ai Talebani?
MR Ovunque. Anche nelle zone più arretrate e conservatrici la gente vuole godere dei minimi standard umanitari, sono richieste di base, istruzione, salute, lavoro. Ormai hanno capito che non possono aspettarsi niente di tutto ciò dai Talebani. La sicurezza promessa non c’è, gli attentati continuano, le persone muoiono di fame e non possono lavorare. È insopportabile per chiunque.

Un sentimento di sfida, fatto di gesti semplici: così la piccola resistenza si nasconde nelle pieghe del quotidiano, nell’ombra della dignità ferita. Come si manifesta?
MR Con la musica ad esempio. È molto importante per noi, specialmente quella tradizionale. Alcuni musicisti sono stati arrestati e uccisi ma la gente continua a suonare dentro le case, in segreto. Quando riesci a sentirla ti apre il cuore alla speranza. Ragazze e ragazzi non hanno rinunciato ai loro interessi. Si riuniscono in piccoli gruppi leggono, dipingono, suonano, non si lasciano abbrutire. Ci sono giovani donne che hanno il coraggio di uscire tra loro e senza uomini, indossando solo un velo, senza burqa o hijab nero.

E poi ci sono le ragazze che frequentano le scuole segrete di Rawa. Rischiano, si impegnano e imparano, acquisendo armi per il futuro. Qual ruolo hanno i social media?
MR Sono diventati importanti, anche se pericolosi: è necessario proteggersi, essere attenti a nascondere le proprie tracce. Sono un luogo dove la gente può dire che cosa pensa, mostrare la propria rabbia contro i Talebani, coinvolgere gli altri. Quando il ministro dell’Educazione talebano ha dichiarato che sono le famiglie afghane a non voler mandare a scuola le bambine, è nata spontaneamente una campagna sui social media che si è diffusa molto velocemente. Piccoli messaggi e slogan a favore dell’istruzione delle donne che si sono diffusi in tutto il Paese, in qualsiasi provincia e tra le persone di tutte le etnie.

Il rischio è alto, soprattutto per il lavoro di Rawa. Quali sono gli ostacoli?
MR Anche un piccolo evento, diventa un miracolo. È complicato portare persone sotto lo stesso tetto, non insospettire i vicini, non far sentire le proprie voci da fuori, preparare un piano, una scusa plausibile per la riunione, nel caso in cui i Talebani facessero irruzione. Viaggiare per seguire i nostri progetti nelle province, è difficile: i check points talebani sono ovunque e controllano tutto. Come sempre, ci muoviamo con un basso profilo e molta cautela.

Il racconto delle messinscene che le attiviste di Rawa sono costrette a recitare per ingannare i Talebani è sorprendente. Non possiamo raccontarlo, per ovvi motivi di sicurezza. Ma come fate a portare avanti le vostre attività in queste condizioni?
MR Abbiamo una lunga esperienza della clandestinità, maturata in decenni di lavoro e di sopravvivenza, anche sotto i Talebani, e una solida rete di relazioni e sostenitori. E poi c’è l’esperienza delle lotte delle altre donne e degli altri uomini che, accanto a noi e prima di noi, hanno resistito all’oppressione.

La vostra battaglia si combatte anche nella mente delle donne, è così?
MR Molte donne pensano che non ci sia niente da fare, che la vita prigioniera che stanno vivendo sia il loro destino e che non possano fare altro se non ricorrere a quella atavica e spaventosa forza di sopportazione che fa parte della loro storia. La rassegnazione è il nemico più insidioso. Lo scopo del nostro lavoro -in questo momento in gran parte di soccorso alle prime e più urgenti necessità- è quello di creare una nuova consapevolezza politica, la fiducia e la certezza di poter cambiare le cose. Cerchiamo di spiegare che ognuna di loro può fare qualcosa. Che la politica -di cui non vogliono occuparsi- è importante e che se il governo cambiasse anche molti aspetti della loro vita quotidiana potrebbero mutare. Che potrebbero godere dei diritti che spettano loro, che la vita che fanno si può e si deve trasformare, un passo alla volta. Ci vorrà molto tempo ma il cambiamento ci sarà. E ci sarà solo se le donne ci crederanno.

 

Pubblicato su Altreconomia, n. 253

Cristiana Cella, giornalista, scrittrice, sceneggiatrice. Segue le vicende afghane dal 1980, quando entrò clandestinamente a Kabul, vietata ai giornalisti, per documentare la resistenza della città contro l’invasione russa.  Dal 2009 fa parte del Direttivo dell’Associazione Cisda (Coordinamento Italiano Sostegno donne afghane), ha partecipato a diverse delegazioni in Afghanistan. Ha pubblicato un libro: ‘Sotto un cielo di stoffa. Avvocate a Kabul’, edito da Città del Sole Edizioni.

 

La silenziosa resistenza delle donne costruisce l’Afghanistan del futuro

Nonostante la repressione dei talebani, l’Associazione rivoluzionaria delle donne afghane garantisce assistenza sanitaria e la distribuzione di alimenti nei villaggi più poveri. Costruendo reti e relazioni, il vero motore di ogni rivoluzione culturale

Che cosa significa organizzare la resistenza in un Paese riconsegnato agli aguzzini talebani dopo vent’anni di occupazione occidentale? Per un’organizzazione di donne costretta a rimanere in clandestinità anche durante gli ultimi venti anni di cosiddetta democrazia, la strategia è ben rodata: si tratta di costruire un tessuto di relazioni sociali che sfuggano al potere di turno, attraverso la solidarietà e l’esercizio attivo di empowerment delle donne, a cominciare da quelle escluse da ogni diritto.

È con questa chiave che vanno lette le iniziative dell’Associazione rivoluzionaria delle donne afghane (RAWA) che, anche in queste condizioni impossibili, continua a essere ben presente ed efficace dove nessuna organizzazione di soccorso internazionale riesce ad arrivare: le aree più remote del Paese, mai toccate dalle briciole dei mille miliardi di dollari spesi dagli ex occupanti per mostrare quel miglioramento delle condizioni di vita a giustificazione della missione militare.

L’attività umanitaria di Rawa, che va dall’assistenza sanitaria di base alla distribuzione di alimenti e generi di prima necessità, è qualitativamente ben diversa da quanto una qualsiasi organizzazione non profit potrebbe organizzare. Svolgere queste missioni implica un alto grado di consapevolezza politica in chi affronta il rischio di violare i decreti o le leggi non scritte, ma ugualmente efficaci del precedente regime fondamentalista a tutela occidentale, e grande competenza nel muoversi in clandestinità salvaguardando l’incolumità degli attivisti.

È una incredibile palestra di formazione di giovani attiviste sul campo, che crescono attraverso il lavoro di base, imparano a relazionarsi con i soggetti locali, a rafforzare e legittimare il ruolo delle donne in quei contesti arretratissimi, a individuare potenziali leader tra le donne locali con cui restare in contatto per pilotare percorsi di formazione successivi, che comportano alfabetizzazione e azione sociale collettiva in modo inscindibile. Niente indottrinamento. Si impara mettendosi al servizio della comunità, coinvolgendo dal basso, imparando insieme a prendere in mano il destino personale e collettivo.

Le domande poste ai locali per costruire consapevolezza sulle condizioni materiali di vita a partire dai bisogni concreti aprono loro gli occhi sulle responsabilità, sui soggetti coinvolti, sulle possibili piste di resistenza. C’è un grande sapere delle donne che aspetta solo di essere valorizzato e sistematizzato: serve farne tesoro per costruire un’organizzazione realmente rivoluzionaria.

In questi mesi estivi, ad esempio, squadre di volontarie -e supporter uomini- di Rawa hanno raggiunto le montagne della provincia di Logar per soccorrere un campo di sfollati interni con una unità sanitaria mobile. Nel campo due vivono una cinquantina di famiglie, ciascuna composta in media da una dozzina di membri, in maggioranza donne e bambini, che sopravvivono in tende miserabili, lontani dai centri urbani. Sono costantemente in balìa degli eventi climatici estremi che, a causa del disastro ambientale planetario, colpiscono in modo particolarmente severo questa zona del Pianeta priva di infrastrutture. Alluvioni, come quella di inizio settembre che ha mietuto migliaia di vittime in tutto il Paese, ma anche il gelo dell’inverno e le temperature eccezionali estive. Senza accesso all’acqua potabile. Gli sfollati hanno accolto l’unità sanitaria mobile con grande entusiasmo e ospitalità.

La provincia di Logar è stata scenario di conflitti tra i talebani e il governo precedente che se ne contendevano il controllo. Gli improvvisi scontri armati hanno causato più volte la perdita di ogni bene alla popolazione locale, che ripetutamente ha visto distruggere tutte le proprie scorte alimentari, unica fonte di sostentamento. Anche oggi vivono di allevamento e agricoltura, ma a malapena producono abbastanza per sostenere la propria famiglia giorno per giorno. Un anziano ha raccontato alle attiviste di Rawa che loro non avevano mai ricevuto alcuna assistenza, né dal governo né da associazioni umanitarie pubbliche o private: questa era la prima volta che qualcuno li raggiungeva. Sono completamente deprivati dei loro diritti più elementari: acqua potabile, cure sanitarie, servizi igienici, case e scuole per i bambini. Non sorprende quindi l’alto numero dei pazienti che hanno fatto ricorso alle cure sanitarie di Rawa, in maggioranza donne in gravidanza e in allattamento. Tutti segnalavano la mancanza di acqua potabile come il principale problema: la dissenteria ne è una conseguenza cronica, sia per gli adulti sia per i bambini; e l’igiene è compromessa. Molti bambini soffrono di malnutrizione e polmonite.

Le unità sanitarie mobili di Rawa si spostano in diverse province, dove selezionano dopo un’indagine accurata in quali aree intervenire. Ad esempio nel Parwan, una provincia del Nord, il luogo selezionato è stato un piccolo villaggio e bellissimo (di cui non faremo il nome) situato in una valle coperta da alberi di albicocche. Qui i pazienti soccorsi sono stati 200 tra cui donne con gravi carenze vitaminiche e bambini con diarrea e malnutrizione. È stata svolta un’attività di formazione per il controllo delle nascite, per le misure igieniche e per la prevenzione del Covid-19.

C’è un grande sapere delle donne che aspetta solo di essere valorizzato: serve farne tesoro per costruire un’organizzazione realmente rivoluzionaria 

In questa zona esiste un unico piccolo presidio sanitario, ma si trova a un’ora di cammino e non ci sono mezzi di trasporto né pubblici né privati: raggiungerlo è molto difficile sotto il sole cocente o la neve abbondante dell’inverno che cancella i sentieri. Le persone hanno raccontato che quest’anno finalmente, dopo tre anni di alluvioni che hanno distrutto i raccolti, le albicocche hanno potuto dare molto frutto. Purtroppo però il collasso economico del paese ha imposto loro prezzi di vendita da fame: sette chilogrammi di albicocche per 50 afghani (equivalenti a mezzo dollaro). Hanno quindi deciso di venderne una quota come albicocche essiccate, al prezzo di 1.100 afghani (12 dollari) per sette chilogrammi, ma temono che pochi possano permettersi di comprarle data la miseria in cui è sprofondato l’Afghanistan. Rischiano quindi di non guadagnare abbastanza per affrontare il prossimo inverno.

Il processo di essiccazione delle albicocche è totalmente gestito dalle donne che, malgrado il peso notevole del lavoro domestico, lavorano fianco a fianco con gli agricoltori uomini. Una buona percentuale degli abitanti del villaggio erano stipendiati in precedenza come dipendenti dell’esercito afghano, della polizia e delle forze di sicurezza sia governative sia private, ma con l’arrivo dei talebani molti sono fuggiti in Iran, da soli o con le proprie famiglie, e sono ancora gravemente esposti a rischio di ritorsioni.

La principale preoccupazione degli abitanti del villaggio è che le loro figlie siano private dell’istruzione. La maggior parte delle ragazze che andava a scuola ora si vede negato questo diritto a partire dal sesto grado (conclusione del ciclo di scuola primaria). Sono consapevoli, invece, che solo una generazione bene istruita può garantire un futuro al loro Paese.

 

Pubblicato su Altreconomia n. 252

Gabriella Gagliardo è un’attivista di CISDA

Jin Jiyan Azadi. La rivoluzione delle donne in Kurdistan

“Jin, Jîyan, Azadî” raccoglie le voci di venti rivoluzionarie curde e le compone in un’architettura maestosa: le combattenti ci offrono attraverso memorie private, lettere e pagine di diario una profonda riflessione su un percorso che non inizia con la riconquista di Kobane del 2015 ma ha radici ben più lontane. Per la prima volta scopriamo dalla prospettiva delle protagoniste la visione del mondo e le scelte di vita che le hanno portate alla guida di una guerra di liberazione, oltre che di un epocale progetto di trasformazione dei rapporti tra donne e uomini, tra nazioni e tra specie viventi. La loro proposta di una via d’uscita ci cattura e destabilizza i nostri canoni culturali.

a cura di Istituto Andrea Wolf

Tamu, 2022