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Autore: Patrizia Fabbri

Farzana

Farzana ha 21 anni ed è del secondo distretto di Yakawlang. Studia all’Università di Bamyan, storia, una materia a cui si è appassionata. E’ entrata all’Università per i suoi meriti, con una borsa di studio ed è contenta della sua scelta. All’inizio vuole diventare una giornalista ma si rende subito conto che è difficile trovare un lavoro in questo campo. Quello che fa, a un certo punto, non le basta più. Si rende conto che per aiutare le donne del suo paese deve svolgere una professione diversa. Molte donne muoiono ogni giorno di parto e per malattie ginecologiche. Uno dei tassi più alti del mondo. Essere un’ostetrica è il lavoro migliore per far fronte a questi disastri. Le appare sempre più evidente la necessità urgente di ostetriche per le donne della sua zona. Adesso quindi si è concentrata sulla facoltà di Ostetricia. Si è avvicinata alla politica e ha affiancato i militanti del Partito della Solidarietà, Hambastagi, nel lavorare al rinnovo di un monumento. Ha lavorato sodo, cazzuola, martello e cemento, per dimostrare ai suoi compagni che le donne non sono affatto più deboli degli uomini.

Anche lei ha bisogno di sostegno per proseguire la sua strada e aiutare le donne della sua zona, una delle più povere del paese.

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Una storia del progetto Vite preziose.

La fotografia è di solo carattere grafico e non rappresenta la donna protagonista della storia. Data la attuale situazione in Afghanistan, per evitare l’identificazione delle donne i nomi sono stati modificati, così come i luoghi dove si svolgono i fatti.

 

Fahema

Mio padre. Come fa un padre a non sapere?
Cosa pensava il giorno di due anni fa quando ha deciso di farmi sposare quest’uomo?
Il destino non c’entra. Come si fa a regalare a una figlia l’inferno?
Non posso fargliele queste domande, le faccio a me stessa, da due anni mi rimbombano nella testa. Poteva informarsi, no? In fondo lo sapevano tutti che si drogava e che la prima moglie era morta, uccisa dalle sue botte. Avanti un’altra, io. Forse è la droga che glielo fa fare, che tira fuori il buio profondo della sua anima. Non ha fatto che picchiarmi da quando sono entrata in questa casa. Non ha avuto rispetto nemmeno dei figli che aspettavo. Ho abortito per le sue botte, tre volte.
Tre bambini persi. Sono stata male, molto, problemi ginecologici. Ma per me non ci sono medicine né medici. Nemmeno da mangiare o da vestirmi. Quel poco che ho, me lo danno i miei fratelli, quello che serve a tenermi in vita.
Adesso vivo con loro ma non mi sento protetta. Non possono sostenermi ancora per molto, devo trovare un lavoro. Me lo ripetono tutti i giorni. Ma non è facile nelle mie condizioni di salute. E le cure di cui ho bisogno costano. Ho paura che mio marito venga a riprendermi e ho paura del futuro.

Aggiornamenti

Da quando Angela e Marianella sono al suo fianco, la vita di Fahema migliora. I fratelli la lasciano vivere stabilmente con loro dato che può sostenersi e soprattutto curare le sue molte ferite. Pian piano risolve i suoi gravi problemi ginecologici per gli aborti, le botte e la malnutrizione.
Sta meglio e comincia a sognare e programmare. Vorrebbe finire gli studi, andare all’Università, trovare un lavoro buono ed essere completamente indipendente.
Di matrimoni non vuole più sentir parlare e spera tanto di liberarsi del suo aguzzino per sempre. Non è cosa facile. Il marito insiste a chiederle di tornare, promettendo gentilezze e cure.
Fahema non ci casca e continua a studiare.
Finalmente il sospirato divorzio arriva, assistita dalle avvocate di Hawca, liberandola dall’angoscia.
Resiste ai fratelli che vorrebbero farla risposare. Insegna Corano ai bambini e i suoi allievi aumentano, è brava. È molto orgogliosa, anche se guadagna poco e vorrebbe insegnare anche altre materie. Alla scuola di Hawca ottiene il diploma di inglese e computer, che l’aiuteranno nella ricerca del lavoro e coltiva i suoi progetti.
Nessuno potrà più fermarla adesso!

Aggiornamento gennaio 2023

“Fahema sembrava molto felice quando l’ho sentita al telefono, riferisce Shafiqa. Lei e il marito hanno deciso di andare in Iran nei prossimi giorni”. Ecco cosa le ha detto: “Finché vivrò resterò in debito per l’aiuto che Hawca e la mia sponsor mi hanno dato. Avete salvato la mia vita e , con il vostro aiuto sono stata in grado di vivere una vita buona, piena di felicità, con mio marito. Sono incinta adesso e per il futuro dei miei figli, abbiamo deciso di andare a vivere in Iran. Io ho insegnato tanto e sarà difficile per me restare lontana dai miei studenti e dalle loro famiglie, ma era necessario prendere una decisione. Porterò con me i bei ricordi dei miei studenti. La persona che amerò sempre è la mia sponsor, tanto tanto amorevole, che mi ha sostenuto per molti anni e mi ha permesso di affrontare i miei problemi, di essere in grado di studiare e di essere capace di comprendere il vero significato della vita.” Fahema ha chiesto di far arrivare il suo messaggio alla sua sponsor. Le chiede di non dimenticare mai le donne afghane e, se ha i mezzi per aiutare un’altra Fahema, sarebbe molto bello che se ne prendesse cura, in modo che anche questa donna possa diventare consapevole e possa fronteggiare a testa alta qualsiasi ingiustizia.

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Una storia del progetto Vite preziose.

La fotografia è di solo carattere grafico e non rappresenta la donna protagonista della storia. Data la attuale situazione in Afghanistan, per evitare l’identificazione delle donne i nomi sono stati modificati, così come i luoghi dove si svolgono i fatti.

 

A Kabul un rifugio clandestino salva le donne dalla violenza domestica

Nonostante le crescenti difficoltà, una rete di afghane continua a gestire piccoli appartamenti dove accoglie vittime di abusi in fuga da padri e mariti che godono di un’impunità totale sotto il regime talebano. Il racconto di alcune attiviste.

Il luogo è segreto. Giriamo per le strade dissestate di Kabul, tra i mucchi di neve sporca, per far perdere le tracce a qualche eventuale inseguitore. Ce ne potrebbero essere tanti: commanders, Talebani, parenti che minacciano, mariti che vogliono indietro le loro mogli per continuare a fare scempio delle loro vite, vicini ansiosi di denunciare, polizia al soldo dei warlords. La strada è deserta quando arriviamo alla meta, tutto tranquillo. Siamo allo shelter, la casa protetta per le donne vittime di violenza gestita da una rete di afghane (di cui non possiamo rivelare il nome per motivi di sicurezza) con cui il Cisda collabora da vent’anni e che oggi lavora sotto la minaccia talebana. Si sono appena trasferite, lo fanno spesso, per sicurezza.

La stanza dove ci accolgono è grande, il pavimento coperto da tappeti rossi, una grande stufa al centro. Le donne che qui hanno trovato protezione se ne stanno sedute, in silenzio, si coprono e si scoprono con il velo, cullano i bimbi che hanno in braccio. Soprattutto ci guardano con un’intensità timida e solenne. Siamo in sei, ci sentiamo goffe in quella stanza di silenzio caldo e profumato di legna. Nessuno parla. Niente si muove.

Dietro agli occhi di ognuna si agita qualcosa oltre la serietà da sfingi. Poi, ecco il miracolo. Una di noi, Cristina, costruttrice di ponti, estrae dallo zaino una polaroid. Inquadra, scatta, estrae la foto, la mostra. Sorride, col suo contagioso sorriso. Pochi minuti e sono tutte in piedi, eccitate, vogliono essere fotografate con noi, con i bimbi, tra loro. Tengono in mano le immagini come tesori. Ci si guardano come in uno specchio, stupite di essere belle, stupite di essere. Faticano a riconoscersi. Il rito non vuole finire.

Scorrono fiumi di parole, in dari, in pashtu, in italiano. Il dolore sembra rarefarsi, evapora via da quella stanza piena di vita. Tutte vogliono ora raccontare le loro storie e iniziano a farlo nella loro lingua madre e nella madre di tutte le lingue, i gesti. Affannosamente le storie prendono forma. Sono affidate a noi queste storie pesanti come macigni. Raccontate con semplicità, ora che si sentono finalmente al sicuro. Era il 2017.

Nei vent’anni di occupazione degli Stati Uniti e della Nato, la violenza contro le donne, in tutte le sue forme, non è mai diminuita. Una tragedia che riguardava l’87% della popolazione femminile. I diritti sbandierati erano per poche e i cammini della maggior parte erano costellati di rabbia, attentati, violenza quotidiana, umiliazione, impensabili privazioni, nonostante le leggi. Ma allora, almeno, seppure con difficoltà, le donne attiviste potevano organizzare la salvezza per alcune di loro. Qualcuna ce la faceva a riprendersi la sua vita, a studiare e lavorare. C’erano centri legali, case protette, avvocate che difendevano le donne in tribunale. Insegnanti che rendevano le studentesse consapevoli dei loro diritti. Il 15 agosto 2021, in una notte, questo shelter, come tanti altri, è stato sgomberato nella fretta silenziosa della paura. Per i Talebani le case protette sono bordelli e le donne in cerca di aiuto prostitute. Se le avessero trovate il loro destino sarebbe precipitato.

“L’impunità totale, la connivenza e il sostegno ai comportamenti criminali maschili, hanno reso gli abusi domestici prassi quotidiana che raggiunge picchi mai visti prima” – Shafiqa N.

Oggi, sotto le aberranti leggi talebane, le donne non hanno scampo. Non c’è più niente: né giustizia, né tribunali, né scuole, né rifugi, né possibilità di salvarsi. Sono abbandonate alla violenza domestica, sociale e politica, senza speranza. “Il Paese si è trasformato in un inferno dove la vita delle persone è controllata nei minimi particolari -racconta Shafiqa N., che in questo inferno continua a lavorare al fianco delle donne-. Le minacce di morte, arresti e torture sono sempre sopra la nostra testa. Le persone spariscono. La paura non risparmia nessuno. La giustizia è stata sostituita dalla religione, la sharia è l’unico riferimento dei Talebani e non considera la violenza contro le donne un crimine. L’impunità totale, la connivenza e il sostegno ai comportamenti criminali maschili, hanno reso gli abusi domestici prassi quotidiana che raggiunge picchi mai visti prima. La disoccupazione è salita alle stelle e gli uomini senza lavoro restano a casa, frustrati, e se la prendono con le proprie mogli, anche se prima non lo avevano mai fatto. Il numero dei matrimoni precoci continua a salire. Le bimbe a scuola non ci possono andare, i padri hanno bisogno di soldi e temono che i Talebani, come spesso fanno, vengano a prendersele per darle ai loro miliziani. Così le vendono in spose sempre più presto. Mentre camminano per strada, le donne vengono controllate in continuazione dai Talebani per verificare se l’hijab è portato secondo le regole. Se qualcosa è fuori posto, sono minacciate di morte e picchiate. I mariti, disoccupati, costringono mogli e figlie a mendicare per strada. Non è un bel posto. Sono sempre più spesso prede facili di molestie e violenza sessuale da parte di Talebani o altri uomini che approfittano della loro fragilità. Da metà novembre le ragazze non possono più accedere alle palestre, ai parchi e a quei locali dove prima potevano farlo anche se in stanze e momenti separati dagli uomini. Vietato rilassarsi, divertirsi, respirare: hanno chiuso perfino i parrucchieri. Chi disobbedisce subirà ritorsioni e il locale con tutto quello che contiene sarà distrutto. Erano molte le donne che lavoravano in questo ambito che si aggiungeranno alla schiera delle recluse. Gli uomini, protetti dalla mentalità talebana, si sentono liberi di molestare e violentare le ragazze come meglio credono, in qualsiasi situazione”.

“A Mazar, una delle province in cui le ragazze possono andare a scuola fino alle superiori, nelle classi non si respira. Letteralmente. Per la costrizione all’hijab che copre bocca e naso e rende difficile fare lezione, per l’ossessiva presenza dei controlli” – Latifa, insegnante

Latifa è insegnante. Oggi, in Afghanistan, ci vuole molto coraggio per fare questo lavoro. “Quello che è rimasto del sistema educativo è completamente controllato dai Talebani. Ogni giorno una loro squadra si presenta in classe. Si possono usare solo i loro libri, siamo sottoposti a continui esami di sharia. Se sbagli qualcosa, perdi il posto. Le ragazze che frequentano l’università sono sempre più spesso molestate da professori e presidi, vengono considerate strumenti del loro piacere. Le scuole governative come quelle private sono ispezionate continuamente. A Mazar, una delle province in cui le ragazze possono andare a scuola fino alle superiori, nelle classi non si respira. Letteralmente. Per la costrizione all’hijab che copre bocca e naso e rende difficile fare lezione, per l’ossessiva presenza dei controlli, delle minacce di rettori e insegnanti che pagano o costringono i ragazzi a diventare loro spie. A riferire e registrare gli insegnanti. Ogni lezione deve cominciare con il nome di dio e, se non succede, il nostro stipendio viene tagliato per quel giorno”. Latifa è incerta, ha paura a parlare ma quando è sicura di non essere ascoltata, denuncia: “Il direttore prende le ragazze più belle e le obbliga ad avere rapporti con lui”.

Nell’ultima classe delle elementari, le bambine sono costrette ad essere esaminate dalle insegnanti. Se sono alte o presentano i primi segni di pubertà vengono allontanate. La libertà di espressione è demolita, nessuno deve lamentarsi della gestione talebana della loro vita. Arresti e omicidi sono all’ordine del giorno.

Gli spazi per le donne che non si rassegnano e continuano la loro battaglia, sono pochi. Ma nessuna di loro si arrende. Camminano in mezzo agli ostacoli con lucida consapevolezza. Di rifugi per le donne ci sarebbe bisogno più del pane. “Non possiamo più gestire uno shelter con tante donne, saremmo subito scoperte e potrebbe finire molto male -continua Shafiqa-. I Talebani considerano le Ong e le associazioni umanitarie come coperture delle intelligence, spie dei governi stranieri e sono feroci con i loro membri. Ma una casa più piccola sì, quella possiamo organizzarla, senza dare nell’occhio”.

Lo hanno fatto, con il sostegno di sponsor italiani. Un mini shelter per cinque donne e dieci bambini che sfidano i Talebani e credono in se stesse. La moquette copre il pavimento della grande stanza vuota, i muri con i segni del tempo sono coperti di piccole farfalle di carta, di alberi ritagliati. È qui che fanno scuola bimbi e mamme, usciti dal terremoto delle loro vite, liberi dalla violenza. Imparano a leggere, a scrivere, la matematica, conoscono i loro diritti e scoprono come trovare le armi per rivendicarli, conoscendo le leggi, i principi della giustizia, le procedure legali, leggono le poesie tradizionali della loro lingua, perché la poesia nutre le donne. E imparano un mestiere: artigianato e sartoria. In sei mesi riescono già a confezionare abiti, un’attività tradizionalmente femminile che i Talebani non contrastano, basta lavorare in casa, e che permette un minimo di indipendenza economica.

Tutte sanno bene quanto sia preziosa questa piccola, immensa libertà. E quanto sia difficile proteggerla. Shamsia, una di loro, ha 15 anni quando viene venduta in matrimonio a un uomo che ne ha 51 più di lei. Un fanatico che rende la sua vita un inferno. Vuole un figlio maschio, a tutti i costi. Quando sa di aspettare una femmina Shamsia è terrorizzata. Il marito e la famiglia la picchiano e le impongono di abortire. È troppo tardi e la bimba nasce, circondata da rabbia e paura. Le permettono di restare in quella sciagurata casa, se si impegna a far nascere il figlio maschio, la prossima volta. Ma per tre volte mette al mondo bimbe, solo e sempre donne. Shamsia deve proteggere le sue figlie dall’odio di quella casa e scappa, prima da amici e poi allo shelter. Ora sono tutte e quattro qui a imparare, a leggere poesie, a cucire. E a respirare di sollievo, merce preziosa di questi tempi.

 

Pubblicato su Altreconomia, n. 254

Cristiana Cella, giornalista, scrittrice, sceneggiatrice. Segue le vicende afghane dal 1980, quando entrò clandestinamente a Kabul, vietata ai giornalisti, per documentare la resistenza della città contro l’invasione russa.  Dal 2009 fa parte del Direttivo dell’Associazione Cisda (Coordinamento Italiano Sostegno donne afghane), ha partecipato a diverse delegazioni in Afghanistan. Ha pubblicato un libro: ‘Sotto un cielo di stoffa. Avvocate a Kabul’, edito da Città del Sole Edizioni.

Should I stay or should I go? Le donne afghane tra resilienza ed esilio.

Tesi di Laurea di Elisa Silvestro a.a. 2022/23

Prova finale in Sociologia dell’Immigrazione. Corso di laurea in Sociologia dell’Innovazione. Universitas Mercatorum.

dall’introduzione scritta da Elisa Silvestro

È di questi giorni la notizia che le donne in Afghanistan non possono neanche più passeggiare nei parchi di Kabul, dalla caduta della città il 15 agosto 2021 la situazione delle donne (e non solo) è andata peggiorando.

Il mio intento, con questa breve tesi, è di analizzare la situazione delle donne afgane, guardando il punto di vista sia di chi ha scelto di restare sia di chi ha scelto di emigrare, senza alcun giudizio morale ma ascoltando le due sofferenze derivate anche, dall’abbandono del Paese da parte delle diplomazie occidentali.

Ho potuto raccontare la vita di queste donne grazie all’incontro e allo scambio: la mia tesi nasce infatti dalla condivisione di esperienze racconta- te, a volte con estrema durezza, dalle donne che da anni combattono in Afghanistan per vedersi riconosciuto il diritto di esistere e chiedono di non essere dimenticate da chi ha la fortuna di essere nato in un paese dove l’iscrizione a scuola non dipende dal genere.

Abbinato al racconto della realtà e di chi la vive ci sono una serie di dati che possono aiutare a capire quanto sia difficile il migrare, come è strutturato il Paese, che strascichi hanno lasciato questi anni di guerra.

Concludo con un racconto di speranza, i progetti che attivamente vedono la luce e permettono a molte donne di accedere a un sostentamento, a scuole (purtroppo private e clandestine), che permettono insomma di pensare che un mondo migliore possa esistere.

I due punti di vista di queste donne all’apparenza potrebbero essere speculari, chi è riuscito a fuggire potrebbe voler solo dimenticare la violenza e l’esclusione di un paese governato da fondamentalisti che nascondono il loro odio dietro il Corano e chi resta che potrebbe arrogarsi un certo “peso morale” nel continuare a lottare mettendo in gioco la propria vita.

Parlando con loro in realtà ho compreso che le due posizioni sono totalmente complementari ed entrambe funzionali al primo scopo della lotta degli oppositori dei Talebani, cioè che l’Afghanistan non venga dimenticato e lasciato solo.

Per capire l’Afghanistan per prima cosa dobbiamo comprendere come mai un territorio fatto di tribù, posto in un’area povera di risorse, senza alcun sbocco al mare, si sia trasformato, o meglio sia sempre stato nel corso della sua storia un territorio di conquiste.

Per analizzare la storia afgana dobbiamo partire dalla posizione geografica che ne ha fatto un crocevia di passaggi e conquiste; come definito dal poeta Muhammad Iqbal l’Afghanistan è “il cuore dell’Asia”.

Tanti hanno cercato di controllare l’Afghanistan senza mai riuscire a governarlo con continuità. Inglesi, russi, americani – pur conquistando facilmente il potere – non sono stati capaci di mantenerlo, tanto da far conquistare all’Afghanistan l’appellativo di “tomba degli imperi”.

Questi passaggi stranieri hanno permesso alle donne di ottenere alcuni diritti, come il voto e la partecipazione a cariche pubbliche. Queste norme però non sono mai riuscite a scalzare fino in fondo la mentalità patriarcale ancorata alla religione islamica.

Fondamentale per l’emancipazione femminile è stata la possibilità di accedere alla scuola e all’università; nasce in Afghanistan una generazione di donne che vogliono lottare. Un esempio è Meena Keshwar Kamal che nel 1977 fonda RAWA (Associazione rivoluzionaria delle donne dell’Afghanistan).

L’importanza dello studio nell’emancipazione femminile è chiara fin da subito e tra i primi progetti delle attiviste c’è quello di creare scuole per le bambine, dove studiare anche le materie “illegali” come l’inglese e la matematica.

Una donna che sa leggere e scrivere è meno probabile accetti gli abusi e i soprusi.

Il primo governo talebano nel 1996 vede un’iniziale accoglienza positiva da parte della popolazione afgana, perché si dichiara portatore di pace in un paese stravolto e devastato da anni di continua guerriglia.

Questa iniziale accoglienza diminuisce alquanto in fretta, visto il clima di terrore. Chiunque è perseguibile se non accetta completamente le regole religiose, soprattutto le donne. I Talebani sono ossessionati dalla figura femminile, vogliono in tutti i modi oscurare e segregare le donne, impedendo loro di uscire se non accompagnate da un uomo e indossando il burqa, è vietato il trucco, l’uso di gioielli e di far rumore camminando.

Il ritorno dei Talebani nel 2021 è molto diverso, non è per nulla ben accolto, anzi la loro entrata a Kabul il 15 agosto è vissuta con estrema paura, chi può fugge verso l’aeroporto e spera di riuscire a lasciare il paese.

Dobbiamo anche considerare che l’Afghanistan è un paese alquanto giovane, più del 25% della popolazione è nata dopo il 2001 e non ha memoria diretta del primo governo talebano, per cui le persone sono diverse, purtroppo però i Talebani no e neanche la loro ossessione verso le donne.

Oggi il popolo afgano si può dire, pertanto, molto lontano da quello del 1996; per questo è nata una resistenza spontanea in diverse province fatta da donne e uomini che rifiutano un ritorno al “medioevo talebano”.

Le rivolte, seppur quotidiane, sono indebolite dalla situazione economica che vive il paese, il 95% degli afgani vive in emergenza alimentare e il 50% è sotto la soglia di povertà.

Associazioni come RAWA continuano in clandestinità le diverse attività (progetti di scolarizzazione, supporti sanitari, distribuzione di cibo e vestiti), e riescono a sopravvivere grazie alle reti costruite già durante il primo governo talebano.

Nascere in un paese come l’Afghanistan e decidere di restare è un atto di coraggio che quotidianamente attivisti e attiviste fanno, combattendo e op- ponendosi anche con la loro vita.

La decisione di restare non è sempre una decisione, più spesso è l’unica via. Per una donna è quasi impossibile lasciare il paese oggi: se una donna dovesse lasciare il paese dovrebbe essere accompagnata alla frontiera da un uomo, visto che da sola non può uscire, e quando anche avesse raggiunta la frontiera con Iran o Pakistan potrebbero passare mesi per un visto, il tutto con costi esorbitanti.

Chi decide di intraprendere il viaggio da clandestino, oltre a dover pagare molti soldi a chi gestisce la tratta di esseri uomini, deve considerare il rischio di non sopravvivere durante il viaggio.

L’Afghanistan ci mette davanti alle contraddizioni del capitalismo che, per business, fa accettare qualunque compromesso, dimenticando l’umanità e la dignità che ad ogni essere umano deve essere riconosciuta.

Quello che ci insegnano le donne afgane, con una forza irrefrenabile, è che solo l’istruzione e il poter accedervi può salvare il nostro futuro.

Le donne afgane ci chiedono di partecipare con loro alla battaglia sui diritti femminili universali ed è per questo che hanno indirizzato una raccolta di firme ai massimi esponenti politici globali. Partendo dalle condizioni in cui i Talebani le fanno vivere, e dalle battaglie fatte da queste coraggiose donne, il tema sul tappeto è quello dei diritti femminili che tutte le donne devono aver riconosciuti. La storia dell’Afghanistan insegna che ci vogliono anni per aver riconosciuto un diritto e basta un giorno per perderlo.

Inoltre le donne afgane ci insegnano che la loro lotta si può fare da qualunque parte del mondo e il pretendere la parità di genere vale a prescindere da dove si è nate, per questo il restare o l’emigrare non sono scelte contrapposte, ma semplicemente due modi diversi di portare avanti le stesse istanze.

Cosa mi resta da questo viaggio metaforico? L’aver incontrato donne che lottano con una speranza e una forza incredibile ovunque vivano, ed un messaggio chiaro: nessun paese, nessun popolo può essere oppresso per sempre e, per riprendere una frase di un grande drammaturgo italiano, “ha da passà ‘a nuttata” anche per le donne afgane.

 

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Kabul, crocevia del mondo

I talebani sono tornati al potere dopo vent’anni di conflitto che gli Stati Uniti e gli occidentali non sono riusciti a vincere nonostante aver investito miliardi e perso migliaia di uomini. Com’è stato possibile? Che cosa è successo nei mesi precedenti alla caduta di Kabul? Che ruolo hanno avuto l’accordo di Doha e la trattativa di Trump? Quanto hanno pesato gli errori del passato che a lungo l’Occidente non ha voluto vedere? Chi riempirà il vuoto lasciato dagli Stati Uniti? Cosa accadrà nel Paese? Chi sono i “nuovi” talebani? Come si finanziano? Hanno un consenso? Se sì, su cosa poggia, oltre alla paura? Che errori ha commesso l’America? Quale il ruolo di Cina e Russia? Un libro per decifrare una delle peggiori sconfitte dell’Occidente.

Kabul, crocevia del mondo

di Nico Piro

People, 2022,

Talebani

La scalata al potere dei talebani, il loro impatto sull’intera regione dell’Asia centrale, il loro ruolo nelle strategie delle grandi compagnie petrolifere, il mutamento della politica estera americana dagli anni Settanta a oggi. Ahmed Rashid disegna con efficacia e scrittura coinvolgente l’attuale volto del fondamentalismo islamico, spiegando perché proprio l’Afghanistan sia diventato il punto cardine del terrorismo mondiale. Partendo dagli avvenimenti storici che hanno portato alla cosiddetta “rivoluzione afgana” del 1973, il movimento dei talebani viene analizzato sotto diversi piani e aspetti – l’interpretazione del Corano, le politiche sociali, il coinvolgimento nel commercio dell’oppio, il rapporto con Osama bin Laden – e nella sua evoluzione fino all’intervento americano, conclusosi con la drammatica smobilitazione dell’estate del 2021 e il ritorno al potere dell’organizzazione degli “studenti”. Una ricostruzione storica, economica, etnica e geopolitica.

Talebani. Islam, petrolio e il grande scontro in Asia centrale

di Ahmed Rashid

Feltrinelli, 2022 edizione aggiornata – 1° edizione 2001, pp. 416