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Autore: Patrizia Fabbri

Gul Meena, Kabul

Gul ha 45 anni, molti in Afghanistan, dove l’aspettativa di vita per le donne non supera i 45. Vive a Kabul. Ha un marito molto anziano che non è in grado di lavorare.
Nonostante questo, non potendo avere figli, ne ha adottati due, un maschio e una femmina, ed è, per loro, una madre amorevole.
Gul manteneva la famiglia con il suo lavoro in un orfanotrofio di Kabul. Lavorava sodo, facendo le pulizie e lavando i panni dei bambini. Ha sempre sofferto di una forma di asma che, purtroppo, ultimamente, è molto peggiorata, tanto che è stata costretta a lasciare il lavoro.
È in grande difficoltà e non ha soldi per potersi curare. Il marito ha un piccolo appezzamento di terreno nel quale la nipote coltiva delle verdure che poi vende al mercato.
Questo permette loro di mangiare ma non a lei di curarsi per poter riprendere il lavoro. Hawca chiede di sostenerla per le cure mediche. La sua salute è importante per lei ma anche per tutta la sua famiglia.

Aggiornamenti

Quando Gul sa di avere accanto Elisa e la sua famiglia è davvero felice. Potrà curarsi e ricominciare la sua vita normale, lavorando come prima. Tutta la famiglia, il marito anziano e i due figli adottati sono sulle sue spalle e, senza l’aiuto di Elisa, non saprebbe che fare. La situazione dei suoi polmoni continua a peggiorare e viene ricoverata in ospedale.
Elisa, che conosce bene la malattia di cui soffre Gul, propone di farle avere dei farmaci migliori. Va a Kabul, per seguire un suo progetto e le porta i farmaci più nuovi di persona, incontrandola all’ospedale. Un incontro molto emozionante. Gul è davvero felice di poterla abbracciare. Con le nuove medicine sta molto meglio, riprende un po’ a lavorare e continua a curarsi. I suoi figli vanno a scuola e si impegnano molto, hanno ottimi voti e questo le dà molta speranza per il futuro.

Aggiornamento gennaio 2023

Gul Mina ricorda molto bene la gentilezza e l’affetto della sua sponsor quando si sono incontrate a Kabul. Lo ricorda con grande felicità. Dice: “Nonostante io sia ancora malata e debba curarmi con una terapia di lungo termine, fortunatamente mio figlio, che è andato in Francia, è stato accolto e adesso può lavorare e riesce anche a studiare. Questo per me è una grande gioia. Può mandarci ogni mese il denaro per le nostre spese. Io ti ringrazio dal profondo del cuore per il tuo sostegno e sono felice che tu abbia curato le mie ferite in tutti questi anni e che tu abbia sempre aiutato me e la mia famiglia. Il tuo aiuto mi ha dato la speranza e sono stata in grado di accudire i mei figli e di continuare la mia vita. Se tu non mi avessi aiutato, io forse adesso non sarei viva. Amo tanto la mia sponsor e spero di poterla di nuovo incontrare da vicino, se dovesse tornare in Afghanistan. Le mie preghiere sono sempre al suo fianco.”

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Una storia del progetto Vite preziose.

La fotografia è di solo carattere grafico e non rappresenta la donna protagonista della storia. Data la attuale situazione in Afghanistan, per evitare l’identificazione delle donne i nomi sono stati modificati, così come i luoghi dove si svolgono i fatti.

 

 

 

 

Fatima, Yakawlang

Fatima ha 22 anni e viene dalla provincia di Yakawlang, un distretto di Bamyan. Attualmente vive in città condividendo una sola stanza con altre ragazze, per portare a termine i suoi studi universitari di veterinaria, un lavoro in cui pochissime donne si cimentano in Afghanistan. Un lavoro che ti porta in giro per le aree più remote e tradizionaliste del paese.

Fatima, nonostante tutte le difficoltà che dovrà affrontare, ha deciso di percorrere questa strada e diventare veterinaria.

Ecco il suo progetto. Quando sarà laureata, userà le sue competenze andando di villaggio in villaggio per aiutare la sua gente dal punto di vista tecnico, per sostenerli nella cura degli animali e aumentare la loro consapevolezza sui disastri quotidiani dell’Afghanistan e su quello che sta succedendo nel loro paese.

Il padre di Fatima è un contadino e faceva, un tempo, anche l’allevatore di bestiame. Purtroppo ha perso la maggior parte delle sue bestie ed è stato costretto ad abbandonare l’allevamento. Coltiva grano, patate e fagioli. Questo ha significato per la sua famiglia la perdita di un importante fonte di guadagno. Una storia triste che si è ripetuta spesso intorno a loro, nel loro villaggio e nei villaggi vicini. Molti si sono trovati di fronte allo stesso problema. E’ questa la ragione per cui Fatima ha deciso di studiare veterinaria e, in seguito, assistere i suoi compaesani e gli abitanti dei villaggi vicini.

Per seguire la sua strada ha bisogno di incoraggiamento e di sostegno economico, dato che la sua famiglia ha a stento di che sfamarsi. Aiutare lei significa aiutare anche tutte le persone che lei potrà sostenere in futuro, creando salute, guadagno e consapevolezza politica.

Aggiornamento gennaio 2023

Fatima saluta e abbraccia i suoi sponsor, è molto felice di questo aiuto per lei importantissimo in questo momento. Ecco cosa ci dice: “La situazione delle donne, specialmente quelle giovani che sono state escluse dall’istruzione, è molto preoccupante. Siamo tutte spaventate per il nostro futuro, le madri si preoccupano del futuro dei loro figli. Le ragazzine sono spaventate dal loro destino. È una situazione così terribile e incerta che non riusciamo a immaginare cosa succederà, nemmeno cosa potrà accadere il giorno seguente. Poco fa alcuni uomini e donne sono stati picchiati per nulla. I talebani creano il terrore, con qualsiasi pretesto, per terrorizzare la popolazione. Loro picchiano, lapidano, bastonano. I talebani sono così insensibili e feroci che riuniscono la gente a forza nel luogo nel quale le persone vengono frustate e picchiate, li obbligano ad assistere in modo da scoraggiarli dal fare le cose proibite che gli ‘accusati’ hanno compiuto. L’atmosfera di terrore ha reso la vita molto brutta e difficile per tutti noi ma dobbiamo vivere e resistere.” Fatima è fortunata perché ha ancora un lavoro ed è molto occupata con i suoi compiti quotidiani. Questo aiuta a non cadere nella depressione. Speriamo che possa mantenerlo.

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Una storia del progetto Vite preziose.

La fotografia è di solo carattere grafico e non rappresenta la donna protagonista della storia. Data la attuale situazione in Afghanistan, per evitare l’identificazione delle donne i nomi sono stati modificati, così come i luoghi dove si svolgono i fatti.

 

Fatima, Takar

Ho 35 anni e sono di Takar, una zona povera e dimenticata del Nord Est. Anni fa mio padre mi ha fatto sposare con un uomo di 60 anni che aveva moglie e sei figli.
Ero spaventata ma poi mio marito, un contadino, ha mostrato di essere un brav’uomo. Mi vuole bene. Mi protegge dalla sua famiglia che mi odia.
Per me sono nemici, tanti e forti. Mi dicono sempre: “Quando nostro padre morirà, ti butteremo fuori di casa, finalmente!” In questi anni mi sono ammalata. Ho un tumore alla gola che mi fa soffrire. Mio marito prende un po’ dei suoi guadagni per curarmi, così loro mi odiano sempre di più. Ho un figlio e una figlia ma i soldi per la scuola non ci sono. Mio marito non sta bene adesso e ho paura. Che sarà di me e dei miei figli quando lui morirà?
Ho bisogno di avere un po’ di soldi miei per curarmi e mandare i bambini a scuola e magari metterne un po’ da parte per quando lui non ci sarà più e io sarò sola contro tutti.

Aggiornamento

Quando il marito si ammala gravemente Fatima si rivolge ad Hawca, è molto spaventata per il suo futuro e quello dei suoi figli.
L’aiuto di Augusto, Nicoletta e Viviane, le dà un po’ di autonomia. Si sente più forte nella sua battaglia. Diventa fondamentale quando il marito muore e la famiglia si scatena.
La cacciano di casa ma si terranno i figli se non sposa un uomo della famiglia odiata. Fatima non ci sta. Lascia la casa del marito e va a vivere in un posto sicuro con i figli. Trova un lavoro come domestica. Il guadagno, insieme al denaro degli sponsor, le permette di vivere e di mandare a scuola i figli.
Ma è poco, non riesce a farsi aumentare il compenso e sta cercando qualcosa di più redditizio. La famiglia non smette di tormentarla, di riproporle il matrimonio con i parenti. La scelta di Fatima, per loro, è una vergogna. Per Fatima la salvezza, la rinascita. Non ci pensa proprio a tornare indietro.
È felice della sua nuova vita, della fine del suo incubo. Non avrebbe mai potuto farcela senza i suoi amici italiani, dice. Senza di loro non avrebbe avuto altra scelta che cedere al ricatto e consegnare la sua vita alla brutalità di quella famiglia, com’è destino per le vedove afghane.

Aggiornamento gennaio 2023

“Sfortunatamente, dice Shafiqa, non siamo riusciti a contattare Fatima. Abbiamo mobilitato tutte le nostre amicizie e conoscenze in Takhar, dove Fatima vive, e abbiamo sperato di trovare sue notizie recenti. Purtroppo non c’è niente di preciso e strade che possiamo seguire per contattarla. Queste persone hanno risposto di aver sentito dire che la famiglia è andata in Iran e che i loro parenti non sono in contatto con loro. Per ora, quindi, non c’è niente di nuovo. Speriamo tutti che stiano bene e che riescano a vivere meglio in Iran.”

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Una storia del progetto Vite preziose.

La fotografia è di solo carattere grafico e non rappresenta la donna protagonista della storia. Data la attuale situazione in Afghanistan, per evitare l’identificazione delle donne i nomi sono stati modificati, così come i luoghi dove si svolgono i fatti.

 

Farzana

Farzana ha 21 anni ed è del secondo distretto di Yakawlang. Studia all’Università di Bamyan, storia, una materia a cui si è appassionata. E’ entrata all’Università per i suoi meriti, con una borsa di studio ed è contenta della sua scelta. All’inizio vuole diventare una giornalista ma si rende subito conto che è difficile trovare un lavoro in questo campo. Quello che fa, a un certo punto, non le basta più. Si rende conto che per aiutare le donne del suo paese deve svolgere una professione diversa. Molte donne muoiono ogni giorno di parto e per malattie ginecologiche. Uno dei tassi più alti del mondo. Essere un’ostetrica è il lavoro migliore per far fronte a questi disastri. Le appare sempre più evidente la necessità urgente di ostetriche per le donne della sua zona. Adesso quindi si è concentrata sulla facoltà di Ostetricia. Si è avvicinata alla politica e ha affiancato i militanti del Partito della Solidarietà, Hambastagi, nel lavorare al rinnovo di un monumento. Ha lavorato sodo, cazzuola, martello e cemento, per dimostrare ai suoi compagni che le donne non sono affatto più deboli degli uomini.

Anche lei ha bisogno di sostegno per proseguire la sua strada e aiutare le donne della sua zona, una delle più povere del paese.

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Una storia del progetto Vite preziose.

La fotografia è di solo carattere grafico e non rappresenta la donna protagonista della storia. Data la attuale situazione in Afghanistan, per evitare l’identificazione delle donne i nomi sono stati modificati, così come i luoghi dove si svolgono i fatti.

 

Fahema

Mio padre. Come fa un padre a non sapere?
Cosa pensava il giorno di due anni fa quando ha deciso di farmi sposare quest’uomo?
Il destino non c’entra. Come si fa a regalare a una figlia l’inferno?
Non posso fargliele queste domande, le faccio a me stessa, da due anni mi rimbombano nella testa. Poteva informarsi, no? In fondo lo sapevano tutti che si drogava e che la prima moglie era morta, uccisa dalle sue botte. Avanti un’altra, io. Forse è la droga che glielo fa fare, che tira fuori il buio profondo della sua anima. Non ha fatto che picchiarmi da quando sono entrata in questa casa. Non ha avuto rispetto nemmeno dei figli che aspettavo. Ho abortito per le sue botte, tre volte.
Tre bambini persi. Sono stata male, molto, problemi ginecologici. Ma per me non ci sono medicine né medici. Nemmeno da mangiare o da vestirmi. Quel poco che ho, me lo danno i miei fratelli, quello che serve a tenermi in vita.
Adesso vivo con loro ma non mi sento protetta. Non possono sostenermi ancora per molto, devo trovare un lavoro. Me lo ripetono tutti i giorni. Ma non è facile nelle mie condizioni di salute. E le cure di cui ho bisogno costano. Ho paura che mio marito venga a riprendermi e ho paura del futuro.

Aggiornamenti

Da quando Angela e Marianella sono al suo fianco, la vita di Fahema migliora. I fratelli la lasciano vivere stabilmente con loro dato che può sostenersi e soprattutto curare le sue molte ferite. Pian piano risolve i suoi gravi problemi ginecologici per gli aborti, le botte e la malnutrizione.
Sta meglio e comincia a sognare e programmare. Vorrebbe finire gli studi, andare all’Università, trovare un lavoro buono ed essere completamente indipendente.
Di matrimoni non vuole più sentir parlare e spera tanto di liberarsi del suo aguzzino per sempre. Non è cosa facile. Il marito insiste a chiederle di tornare, promettendo gentilezze e cure.
Fahema non ci casca e continua a studiare.
Finalmente il sospirato divorzio arriva, assistita dalle avvocate di Hawca, liberandola dall’angoscia.
Resiste ai fratelli che vorrebbero farla risposare. Insegna Corano ai bambini e i suoi allievi aumentano, è brava. È molto orgogliosa, anche se guadagna poco e vorrebbe insegnare anche altre materie. Alla scuola di Hawca ottiene il diploma di inglese e computer, che l’aiuteranno nella ricerca del lavoro e coltiva i suoi progetti.
Nessuno potrà più fermarla adesso!

Aggiornamento gennaio 2023

“Fahema sembrava molto felice quando l’ho sentita al telefono, riferisce Shafiqa. Lei e il marito hanno deciso di andare in Iran nei prossimi giorni”. Ecco cosa le ha detto: “Finché vivrò resterò in debito per l’aiuto che Hawca e la mia sponsor mi hanno dato. Avete salvato la mia vita e , con il vostro aiuto sono stata in grado di vivere una vita buona, piena di felicità, con mio marito. Sono incinta adesso e per il futuro dei miei figli, abbiamo deciso di andare a vivere in Iran. Io ho insegnato tanto e sarà difficile per me restare lontana dai miei studenti e dalle loro famiglie, ma era necessario prendere una decisione. Porterò con me i bei ricordi dei miei studenti. La persona che amerò sempre è la mia sponsor, tanto tanto amorevole, che mi ha sostenuto per molti anni e mi ha permesso di affrontare i miei problemi, di essere in grado di studiare e di essere capace di comprendere il vero significato della vita.” Fahema ha chiesto di far arrivare il suo messaggio alla sua sponsor. Le chiede di non dimenticare mai le donne afghane e, se ha i mezzi per aiutare un’altra Fahema, sarebbe molto bello che se ne prendesse cura, in modo che anche questa donna possa diventare consapevole e possa fronteggiare a testa alta qualsiasi ingiustizia.

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Una storia del progetto Vite preziose.

La fotografia è di solo carattere grafico e non rappresenta la donna protagonista della storia. Data la attuale situazione in Afghanistan, per evitare l’identificazione delle donne i nomi sono stati modificati, così come i luoghi dove si svolgono i fatti.

 

A Kabul un rifugio clandestino salva le donne dalla violenza domestica

Nonostante le crescenti difficoltà, una rete di afghane continua a gestire piccoli appartamenti dove accoglie vittime di abusi in fuga da padri e mariti che godono di un’impunità totale sotto il regime talebano. Il racconto di alcune attiviste.

Il luogo è segreto. Giriamo per le strade dissestate di Kabul, tra i mucchi di neve sporca, per far perdere le tracce a qualche eventuale inseguitore. Ce ne potrebbero essere tanti: commanders, Talebani, parenti che minacciano, mariti che vogliono indietro le loro mogli per continuare a fare scempio delle loro vite, vicini ansiosi di denunciare, polizia al soldo dei warlords. La strada è deserta quando arriviamo alla meta, tutto tranquillo. Siamo allo shelter, la casa protetta per le donne vittime di violenza gestita da una rete di afghane (di cui non possiamo rivelare il nome per motivi di sicurezza) con cui il Cisda collabora da vent’anni e che oggi lavora sotto la minaccia talebana. Si sono appena trasferite, lo fanno spesso, per sicurezza.

La stanza dove ci accolgono è grande, il pavimento coperto da tappeti rossi, una grande stufa al centro. Le donne che qui hanno trovato protezione se ne stanno sedute, in silenzio, si coprono e si scoprono con il velo, cullano i bimbi che hanno in braccio. Soprattutto ci guardano con un’intensità timida e solenne. Siamo in sei, ci sentiamo goffe in quella stanza di silenzio caldo e profumato di legna. Nessuno parla. Niente si muove.

Dietro agli occhi di ognuna si agita qualcosa oltre la serietà da sfingi. Poi, ecco il miracolo. Una di noi, Cristina, costruttrice di ponti, estrae dallo zaino una polaroid. Inquadra, scatta, estrae la foto, la mostra. Sorride, col suo contagioso sorriso. Pochi minuti e sono tutte in piedi, eccitate, vogliono essere fotografate con noi, con i bimbi, tra loro. Tengono in mano le immagini come tesori. Ci si guardano come in uno specchio, stupite di essere belle, stupite di essere. Faticano a riconoscersi. Il rito non vuole finire.

Scorrono fiumi di parole, in dari, in pashtu, in italiano. Il dolore sembra rarefarsi, evapora via da quella stanza piena di vita. Tutte vogliono ora raccontare le loro storie e iniziano a farlo nella loro lingua madre e nella madre di tutte le lingue, i gesti. Affannosamente le storie prendono forma. Sono affidate a noi queste storie pesanti come macigni. Raccontate con semplicità, ora che si sentono finalmente al sicuro. Era il 2017.

Nei vent’anni di occupazione degli Stati Uniti e della Nato, la violenza contro le donne, in tutte le sue forme, non è mai diminuita. Una tragedia che riguardava l’87% della popolazione femminile. I diritti sbandierati erano per poche e i cammini della maggior parte erano costellati di rabbia, attentati, violenza quotidiana, umiliazione, impensabili privazioni, nonostante le leggi. Ma allora, almeno, seppure con difficoltà, le donne attiviste potevano organizzare la salvezza per alcune di loro. Qualcuna ce la faceva a riprendersi la sua vita, a studiare e lavorare. C’erano centri legali, case protette, avvocate che difendevano le donne in tribunale. Insegnanti che rendevano le studentesse consapevoli dei loro diritti. Il 15 agosto 2021, in una notte, questo shelter, come tanti altri, è stato sgomberato nella fretta silenziosa della paura. Per i Talebani le case protette sono bordelli e le donne in cerca di aiuto prostitute. Se le avessero trovate il loro destino sarebbe precipitato.

“L’impunità totale, la connivenza e il sostegno ai comportamenti criminali maschili, hanno reso gli abusi domestici prassi quotidiana che raggiunge picchi mai visti prima” – Shafiqa N.

Oggi, sotto le aberranti leggi talebane, le donne non hanno scampo. Non c’è più niente: né giustizia, né tribunali, né scuole, né rifugi, né possibilità di salvarsi. Sono abbandonate alla violenza domestica, sociale e politica, senza speranza. “Il Paese si è trasformato in un inferno dove la vita delle persone è controllata nei minimi particolari -racconta Shafiqa N., che in questo inferno continua a lavorare al fianco delle donne-. Le minacce di morte, arresti e torture sono sempre sopra la nostra testa. Le persone spariscono. La paura non risparmia nessuno. La giustizia è stata sostituita dalla religione, la sharia è l’unico riferimento dei Talebani e non considera la violenza contro le donne un crimine. L’impunità totale, la connivenza e il sostegno ai comportamenti criminali maschili, hanno reso gli abusi domestici prassi quotidiana che raggiunge picchi mai visti prima. La disoccupazione è salita alle stelle e gli uomini senza lavoro restano a casa, frustrati, e se la prendono con le proprie mogli, anche se prima non lo avevano mai fatto. Il numero dei matrimoni precoci continua a salire. Le bimbe a scuola non ci possono andare, i padri hanno bisogno di soldi e temono che i Talebani, come spesso fanno, vengano a prendersele per darle ai loro miliziani. Così le vendono in spose sempre più presto. Mentre camminano per strada, le donne vengono controllate in continuazione dai Talebani per verificare se l’hijab è portato secondo le regole. Se qualcosa è fuori posto, sono minacciate di morte e picchiate. I mariti, disoccupati, costringono mogli e figlie a mendicare per strada. Non è un bel posto. Sono sempre più spesso prede facili di molestie e violenza sessuale da parte di Talebani o altri uomini che approfittano della loro fragilità. Da metà novembre le ragazze non possono più accedere alle palestre, ai parchi e a quei locali dove prima potevano farlo anche se in stanze e momenti separati dagli uomini. Vietato rilassarsi, divertirsi, respirare: hanno chiuso perfino i parrucchieri. Chi disobbedisce subirà ritorsioni e il locale con tutto quello che contiene sarà distrutto. Erano molte le donne che lavoravano in questo ambito che si aggiungeranno alla schiera delle recluse. Gli uomini, protetti dalla mentalità talebana, si sentono liberi di molestare e violentare le ragazze come meglio credono, in qualsiasi situazione”.

“A Mazar, una delle province in cui le ragazze possono andare a scuola fino alle superiori, nelle classi non si respira. Letteralmente. Per la costrizione all’hijab che copre bocca e naso e rende difficile fare lezione, per l’ossessiva presenza dei controlli” – Latifa, insegnante

Latifa è insegnante. Oggi, in Afghanistan, ci vuole molto coraggio per fare questo lavoro. “Quello che è rimasto del sistema educativo è completamente controllato dai Talebani. Ogni giorno una loro squadra si presenta in classe. Si possono usare solo i loro libri, siamo sottoposti a continui esami di sharia. Se sbagli qualcosa, perdi il posto. Le ragazze che frequentano l’università sono sempre più spesso molestate da professori e presidi, vengono considerate strumenti del loro piacere. Le scuole governative come quelle private sono ispezionate continuamente. A Mazar, una delle province in cui le ragazze possono andare a scuola fino alle superiori, nelle classi non si respira. Letteralmente. Per la costrizione all’hijab che copre bocca e naso e rende difficile fare lezione, per l’ossessiva presenza dei controlli, delle minacce di rettori e insegnanti che pagano o costringono i ragazzi a diventare loro spie. A riferire e registrare gli insegnanti. Ogni lezione deve cominciare con il nome di dio e, se non succede, il nostro stipendio viene tagliato per quel giorno”. Latifa è incerta, ha paura a parlare ma quando è sicura di non essere ascoltata, denuncia: “Il direttore prende le ragazze più belle e le obbliga ad avere rapporti con lui”.

Nell’ultima classe delle elementari, le bambine sono costrette ad essere esaminate dalle insegnanti. Se sono alte o presentano i primi segni di pubertà vengono allontanate. La libertà di espressione è demolita, nessuno deve lamentarsi della gestione talebana della loro vita. Arresti e omicidi sono all’ordine del giorno.

Gli spazi per le donne che non si rassegnano e continuano la loro battaglia, sono pochi. Ma nessuna di loro si arrende. Camminano in mezzo agli ostacoli con lucida consapevolezza. Di rifugi per le donne ci sarebbe bisogno più del pane. “Non possiamo più gestire uno shelter con tante donne, saremmo subito scoperte e potrebbe finire molto male -continua Shafiqa-. I Talebani considerano le Ong e le associazioni umanitarie come coperture delle intelligence, spie dei governi stranieri e sono feroci con i loro membri. Ma una casa più piccola sì, quella possiamo organizzarla, senza dare nell’occhio”.

Lo hanno fatto, con il sostegno di sponsor italiani. Un mini shelter per cinque donne e dieci bambini che sfidano i Talebani e credono in se stesse. La moquette copre il pavimento della grande stanza vuota, i muri con i segni del tempo sono coperti di piccole farfalle di carta, di alberi ritagliati. È qui che fanno scuola bimbi e mamme, usciti dal terremoto delle loro vite, liberi dalla violenza. Imparano a leggere, a scrivere, la matematica, conoscono i loro diritti e scoprono come trovare le armi per rivendicarli, conoscendo le leggi, i principi della giustizia, le procedure legali, leggono le poesie tradizionali della loro lingua, perché la poesia nutre le donne. E imparano un mestiere: artigianato e sartoria. In sei mesi riescono già a confezionare abiti, un’attività tradizionalmente femminile che i Talebani non contrastano, basta lavorare in casa, e che permette un minimo di indipendenza economica.

Tutte sanno bene quanto sia preziosa questa piccola, immensa libertà. E quanto sia difficile proteggerla. Shamsia, una di loro, ha 15 anni quando viene venduta in matrimonio a un uomo che ne ha 51 più di lei. Un fanatico che rende la sua vita un inferno. Vuole un figlio maschio, a tutti i costi. Quando sa di aspettare una femmina Shamsia è terrorizzata. Il marito e la famiglia la picchiano e le impongono di abortire. È troppo tardi e la bimba nasce, circondata da rabbia e paura. Le permettono di restare in quella sciagurata casa, se si impegna a far nascere il figlio maschio, la prossima volta. Ma per tre volte mette al mondo bimbe, solo e sempre donne. Shamsia deve proteggere le sue figlie dall’odio di quella casa e scappa, prima da amici e poi allo shelter. Ora sono tutte e quattro qui a imparare, a leggere poesie, a cucire. E a respirare di sollievo, merce preziosa di questi tempi.

 

Pubblicato su Altreconomia, n. 254

Cristiana Cella, giornalista, scrittrice, sceneggiatrice. Segue le vicende afghane dal 1980, quando entrò clandestinamente a Kabul, vietata ai giornalisti, per documentare la resistenza della città contro l’invasione russa.  Dal 2009 fa parte del Direttivo dell’Associazione Cisda (Coordinamento Italiano Sostegno donne afghane), ha partecipato a diverse delegazioni in Afghanistan. Ha pubblicato un libro: ‘Sotto un cielo di stoffa. Avvocate a Kabul’, edito da Città del Sole Edizioni.