Nonostante le crescenti difficoltà, una rete di afghane continua a gestire piccoli appartamenti dove accoglie vittime di abusi in fuga da padri e mariti che godono di un’impunità totale sotto il regime talebano. Il racconto di alcune attiviste.
Il luogo è segreto. Giriamo per le strade dissestate di Kabul, tra i mucchi di neve sporca, per far perdere le tracce a qualche eventuale inseguitore. Ce ne potrebbero essere tanti: commanders, Talebani, parenti che minacciano, mariti che vogliono indietro le loro mogli per continuare a fare scempio delle loro vite, vicini ansiosi di denunciare, polizia al soldo dei warlords. La strada è deserta quando arriviamo alla meta, tutto tranquillo. Siamo allo shelter, la casa protetta per le donne vittime di violenza gestita da una rete di afghane (di cui non possiamo rivelare il nome per motivi di sicurezza) con cui il Cisda collabora da vent’anni e che oggi lavora sotto la minaccia talebana. Si sono appena trasferite, lo fanno spesso, per sicurezza.
La stanza dove ci accolgono è grande, il pavimento coperto da tappeti rossi, una grande stufa al centro. Le donne che qui hanno trovato protezione se ne stanno sedute, in silenzio, si coprono e si scoprono con il velo, cullano i bimbi che hanno in braccio. Soprattutto ci guardano con un’intensità timida e solenne. Siamo in sei, ci sentiamo goffe in quella stanza di silenzio caldo e profumato di legna. Nessuno parla. Niente si muove.
Dietro agli occhi di ognuna si agita qualcosa oltre la serietà da sfingi. Poi, ecco il miracolo. Una di noi, Cristina, costruttrice di ponti, estrae dallo zaino una polaroid. Inquadra, scatta, estrae la foto, la mostra. Sorride, col suo contagioso sorriso. Pochi minuti e sono tutte in piedi, eccitate, vogliono essere fotografate con noi, con i bimbi, tra loro. Tengono in mano le immagini come tesori. Ci si guardano come in uno specchio, stupite di essere belle, stupite di essere. Faticano a riconoscersi. Il rito non vuole finire.
Scorrono fiumi di parole, in dari, in pashtu, in italiano. Il dolore sembra rarefarsi, evapora via da quella stanza piena di vita. Tutte vogliono ora raccontare le loro storie e iniziano a farlo nella loro lingua madre e nella madre di tutte le lingue, i gesti. Affannosamente le storie prendono forma. Sono affidate a noi queste storie pesanti come macigni. Raccontate con semplicità, ora che si sentono finalmente al sicuro. Era il 2017.
Nei vent’anni di occupazione degli Stati Uniti e della Nato, la violenza contro le donne, in tutte le sue forme, non è mai diminuita. Una tragedia che riguardava l’87% della popolazione femminile. I diritti sbandierati erano per poche e i cammini della maggior parte erano costellati di rabbia, attentati, violenza quotidiana, umiliazione, impensabili privazioni, nonostante le leggi. Ma allora, almeno, seppure con difficoltà, le donne attiviste potevano organizzare la salvezza per alcune di loro. Qualcuna ce la faceva a riprendersi la sua vita, a studiare e lavorare. C’erano centri legali, case protette, avvocate che difendevano le donne in tribunale. Insegnanti che rendevano le studentesse consapevoli dei loro diritti. Il 15 agosto 2021, in una notte, questo shelter, come tanti altri, è stato sgomberato nella fretta silenziosa della paura. Per i Talebani le case protette sono bordelli e le donne in cerca di aiuto prostitute. Se le avessero trovate il loro destino sarebbe precipitato.
“L’impunità totale, la connivenza e il sostegno ai comportamenti criminali maschili, hanno reso gli abusi domestici prassi quotidiana che raggiunge picchi mai visti prima” – Shafiqa N.
Oggi, sotto le aberranti leggi talebane, le donne non hanno scampo. Non c’è più niente: né giustizia, né tribunali, né scuole, né rifugi, né possibilità di salvarsi. Sono abbandonate alla violenza domestica, sociale e politica, senza speranza. “Il Paese si è trasformato in un inferno dove la vita delle persone è controllata nei minimi particolari -racconta Shafiqa N., che in questo inferno continua a lavorare al fianco delle donne-. Le minacce di morte, arresti e torture sono sempre sopra la nostra testa. Le persone spariscono. La paura non risparmia nessuno. La giustizia è stata sostituita dalla religione, la sharia è l’unico riferimento dei Talebani e non considera la violenza contro le donne un crimine. L’impunità totale, la connivenza e il sostegno ai comportamenti criminali maschili, hanno reso gli abusi domestici prassi quotidiana che raggiunge picchi mai visti prima. La disoccupazione è salita alle stelle e gli uomini senza lavoro restano a casa, frustrati, e se la prendono con le proprie mogli, anche se prima non lo avevano mai fatto. Il numero dei matrimoni precoci continua a salire. Le bimbe a scuola non ci possono andare, i padri hanno bisogno di soldi e temono che i Talebani, come spesso fanno, vengano a prendersele per darle ai loro miliziani. Così le vendono in spose sempre più presto. Mentre camminano per strada, le donne vengono controllate in continuazione dai Talebani per verificare se l’hijab è portato secondo le regole. Se qualcosa è fuori posto, sono minacciate di morte e picchiate. I mariti, disoccupati, costringono mogli e figlie a mendicare per strada. Non è un bel posto. Sono sempre più spesso prede facili di molestie e violenza sessuale da parte di Talebani o altri uomini che approfittano della loro fragilità. Da metà novembre le ragazze non possono più accedere alle palestre, ai parchi e a quei locali dove prima potevano farlo anche se in stanze e momenti separati dagli uomini. Vietato rilassarsi, divertirsi, respirare: hanno chiuso perfino i parrucchieri. Chi disobbedisce subirà ritorsioni e il locale con tutto quello che contiene sarà distrutto. Erano molte le donne che lavoravano in questo ambito che si aggiungeranno alla schiera delle recluse. Gli uomini, protetti dalla mentalità talebana, si sentono liberi di molestare e violentare le ragazze come meglio credono, in qualsiasi situazione”.
“A Mazar, una delle province in cui le ragazze possono andare a scuola fino alle superiori, nelle classi non si respira. Letteralmente. Per la costrizione all’hijab che copre bocca e naso e rende difficile fare lezione, per l’ossessiva presenza dei controlli” – Latifa, insegnante
Latifa è insegnante. Oggi, in Afghanistan, ci vuole molto coraggio per fare questo lavoro. “Quello che è rimasto del sistema educativo è completamente controllato dai Talebani. Ogni giorno una loro squadra si presenta in classe. Si possono usare solo i loro libri, siamo sottoposti a continui esami di sharia. Se sbagli qualcosa, perdi il posto. Le ragazze che frequentano l’università sono sempre più spesso molestate da professori e presidi, vengono considerate strumenti del loro piacere. Le scuole governative come quelle private sono ispezionate continuamente. A Mazar, una delle province in cui le ragazze possono andare a scuola fino alle superiori, nelle classi non si respira. Letteralmente. Per la costrizione all’hijab che copre bocca e naso e rende difficile fare lezione, per l’ossessiva presenza dei controlli, delle minacce di rettori e insegnanti che pagano o costringono i ragazzi a diventare loro spie. A riferire e registrare gli insegnanti. Ogni lezione deve cominciare con il nome di dio e, se non succede, il nostro stipendio viene tagliato per quel giorno”. Latifa è incerta, ha paura a parlare ma quando è sicura di non essere ascoltata, denuncia: “Il direttore prende le ragazze più belle e le obbliga ad avere rapporti con lui”.
Nell’ultima classe delle elementari, le bambine sono costrette ad essere esaminate dalle insegnanti. Se sono alte o presentano i primi segni di pubertà vengono allontanate. La libertà di espressione è demolita, nessuno deve lamentarsi della gestione talebana della loro vita. Arresti e omicidi sono all’ordine del giorno.
Gli spazi per le donne che non si rassegnano e continuano la loro battaglia, sono pochi. Ma nessuna di loro si arrende. Camminano in mezzo agli ostacoli con lucida consapevolezza. Di rifugi per le donne ci sarebbe bisogno più del pane. “Non possiamo più gestire uno shelter con tante donne, saremmo subito scoperte e potrebbe finire molto male -continua Shafiqa-. I Talebani considerano le Ong e le associazioni umanitarie come coperture delle intelligence, spie dei governi stranieri e sono feroci con i loro membri. Ma una casa più piccola sì, quella possiamo organizzarla, senza dare nell’occhio”.
Lo hanno fatto, con il sostegno di sponsor italiani. Un mini shelter per cinque donne e dieci bambini che sfidano i Talebani e credono in se stesse. La moquette copre il pavimento della grande stanza vuota, i muri con i segni del tempo sono coperti di piccole farfalle di carta, di alberi ritagliati. È qui che fanno scuola bimbi e mamme, usciti dal terremoto delle loro vite, liberi dalla violenza. Imparano a leggere, a scrivere, la matematica, conoscono i loro diritti e scoprono come trovare le armi per rivendicarli, conoscendo le leggi, i principi della giustizia, le procedure legali, leggono le poesie tradizionali della loro lingua, perché la poesia nutre le donne. E imparano un mestiere: artigianato e sartoria. In sei mesi riescono già a confezionare abiti, un’attività tradizionalmente femminile che i Talebani non contrastano, basta lavorare in casa, e che permette un minimo di indipendenza economica.
Tutte sanno bene quanto sia preziosa questa piccola, immensa libertà. E quanto sia difficile proteggerla. Shamsia, una di loro, ha 15 anni quando viene venduta in matrimonio a un uomo che ne ha 51 più di lei. Un fanatico che rende la sua vita un inferno. Vuole un figlio maschio, a tutti i costi. Quando sa di aspettare una femmina Shamsia è terrorizzata. Il marito e la famiglia la picchiano e le impongono di abortire. È troppo tardi e la bimba nasce, circondata da rabbia e paura. Le permettono di restare in quella sciagurata casa, se si impegna a far nascere il figlio maschio, la prossima volta. Ma per tre volte mette al mondo bimbe, solo e sempre donne. Shamsia deve proteggere le sue figlie dall’odio di quella casa e scappa, prima da amici e poi allo shelter. Ora sono tutte e quattro qui a imparare, a leggere poesie, a cucire. E a respirare di sollievo, merce preziosa di questi tempi.
Pubblicato su Altreconomia, n. 254
Cristiana Cella, giornalista, scrittrice, sceneggiatrice. Segue le vicende afghane dal 1980, quando entrò clandestinamente a Kabul, vietata ai giornalisti, per documentare la resistenza della città contro l’invasione russa. Dal 2009 fa parte del Direttivo dell’Associazione Cisda (Coordinamento Italiano Sostegno donne afghane), ha partecipato a diverse delegazioni in Afghanistan. Ha pubblicato un libro: ‘Sotto un cielo di stoffa. Avvocate a Kabul’, edito da Città del Sole Edizioni.