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Autore: Patrizia Fabbri

Parliamo di donne in Afghanistan con Sapeda e Cristina Rossi

Podcast realizzati dall’Associazione Orlando di Bologna dedicati alla situazione delle donne in Afghanistan che dopo il ritorno dei talebani nell’agosto 2021 quei pochi diritti faticosamente e lentamente conquistati sono stati cancellati.

L’associazione Orlando ne parla in questo podcast con Sapeda, studentessa e attivista afghana ora rifugiata in Italia, e con Cristina Rossi, attivista di CISDA, associazione da quasi vent’anni attiva in Afghanistan e in Italia a sostegno delle donne afghane.

Stop Border Violence

La rete di Coalizione euro-afghana sostiene la campagna Stop Border Violence.

Cisda ha deciso di rispondere all’appello delle forze laiche e democratiche  afghane – RAWA (Revolutionary Association of the Women of Afghanistan) e a Hambastagi (Solidarity Party of Afghanistan) e di  creare una alleanza tra queste e le Associazioni e le Reti Europee che, pur agendo in ambiti specifici, quali ad esempio il disarmo, pace e antimilitarismo, eguaglianza di genere, questione migratoria, fuoriuscita dalla Nato, individuino terreni comuni di azione per promuovere una reale democrazia sia in Afghanistan, sia in Italia e in Europa.

Essere parte attiva della rete di Coalizione euro-afghana significa anche agire in un’ottica di sostegno reciproco per mandare a buon fine le campagne e le azioni promosse o adottate dalla coalizione.

Stop Border Violence è un’iniziativa di cittadinanza europea (obiettivo, un milione di firme) per costringere la Commissione Europea a garantire e applicare a tutte le persone, comprese coloro che sono in ingresso e in transito in Europa, quanto previsto nell’art. 4 della carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea contro la tortura.

Aggiornamento importante: L’iniziativa è stata registrata dalla Commissione Europea il 12 gennaio 2023. Con questa iniziativa, noi cittadini europei rivendichiamo il nostro diritto ad essere governati secondo civiltà e legalità. La raccolta delle firme inizierà il 10 luglio 2023. Si invita alla più ampia partecipazione e diffusione in tutta l’Unione Europea.  Leggi il comunicato.

Bibi Khadija

Ho 49 anni, tantissimi qui. La guerra civile, la furia dei mujahiddin, signori della guerra, che ancora ci governano, è stata un incubo di quattro anni. Si è portata via mio marito e mio figlio maggiore. Io e mia figlia viviamo con la famiglia di mio cognato, siamo in 12. Non c’è giorno che non mi gridino addosso : ‘sei tu il problema, da anni ti diamo da mangiare gratis!’. ‘Certo, dico io, avete ragione. Io voglio lavorare e guadagnare il pane per me e per mia figlia.’ Allora loro urlano ancora di più, uno scandalo, mi dicono che sono una puttana, mi picchiano, tutti, e mi chiudono in casa. Ma io riesco lo stesso a procurarmi qualcosa, vado a fare le pulizie dai vicini, di nascosto, così quando non ci danno da mangiare, posso comprare qualcosa per noi. Difficile trovare un motivo per continuare. Forse è il sogno, ci penso sempre, mi dà forza, prima o poi ce la farò. Vorrei poter vivere da sola con mia figlia e lavorare insieme per decidere ogni giorno la nostra vita, come vogliamo, io e lei. Un sogno. Ma sono pronta a tutto per realizzarlo.

Aggiornamenti

Il sostegno di Lucia e in seguito di Elisa, che la sostiene da anni, le cambia la vita, le permette di uscire dalla trappola del ricatto familiare. L’umiliazione più grande e quotidiana, chiedere cibo, vestiti, medicine sempre alla famiglia del cognato e subire i loro ricatti, finisce all’improvviso. Un grande sospiro di sollievo, potersi comprare quello di cui si ha bisogno. Cerca di convincere i parenti a permettere che lavori fuori casa.
Sì, le dicono, magnanimi, lavora pure ma lo stipendio lo dai a noi. La prospettiva non le piace e continua a combattere e a lavorare. Le assistenti di Hawca l’aiutano a tenersi i soldi. Ma trovano finalmente la soluzione radicale per la sua vita. Bibi e la figlia vanno a vivere in un orfanotrofio conosciuto da Hawca.
Lì stanno in pace, Bibi lavora come cuoca per la struttura e la figlia può studiare. È davvero un grande successo. Ma, purtroppo, non dura. Per motivi economici questo orfanotrofio la licenzia.
Va a vivere con altre quattro famiglie in una stanza a casa di un parente. Non riesce a trovare un altro lavoro. Ha un vicino ricco e generoso che l’aiuta nelle spese di tutti i giorni ma senza l’aiuto di Elisa non ce la farebbe.

Aggiornamento gennaio 2023

Khadija manda tutto il suo affetto ai suoi sponsor e spera che continueranno ad aiutarla.

“Noi poveri, dice, possiamo arrangiarci nelle altre stagioni ma, quando viene l’inverno, dobbiamo fronteggiare enormi difficoltà. Non possiamo comprare vestiti caldi per noi e per i bambini, non possiamo scaldare le nostre stanze e i bagni, non possiamo comprare cibo sano e per questo ci ammaliamo molto facilmente. I materiali combustibili per scaldarci sono diventati molto cari. Negli anni scorsi abbiamo potuto comprare del carbone, ma adesso il carbone è salito molto di prezzo e non possiamo più permettercelo.” Soprattutto ora, Khadija ha molto bisogno di sostegno.

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Una storia del progetto Vite preziose.

La fotografia è di solo carattere grafico e non rappresenta la donna protagonista della storia. Data la attuale situazione in Afghanistan, per evitare l’identificazione delle donne i nomi sono stati modificati, così come i luoghi dove si svolgono i fatti.

 

 

 

 

 

Basera, Bamyan

Mi chiamo Basera e ho 14 anni. Vivo nella provincia di Bamyan, nel centro dell’Afghanistan. Tutto è cominciato dalla scuola. Non perché io ci andassi, no. Non c’era ancora, la stavano costruendo, non lontano da casa mia. Chissà se mio padre mi avrebbe permesso di frequentarla? Intanto era solo un mucchio di pietre. Ma c’era movimento, gente che veniva da fuori, per portare i materiali da costruzione.

Lui passava col camion, ogni giorno. Portava le pietre, rotolavano giù, con quel suono di cascata, la polvere entrava in casa. Un pomeriggio, il suo camion è andato a sbattere contro un albero. Mio padre lo ha tirato fuori dalla macchina, non si era fatto niente purtroppo. Intorno a quell’albero ha girato la mia vita, come girano i jin, gli spiriti.
Dalla parte sbagliata. Mio padre ha accolto in casa Sarvar, così si chiama, e gli ha offerto il tè. L’ho preparato io e gliel’ho portato. Mi ha guardato, in un modo che non avevo mai visto. Non mi piaceva. Il futuro, da noi, ti arriva addosso e non puoi fare niente, ma lo senti arrivare.
Mi tremavano le mani e mi sono vergognata perché le tazze tintinnavano. Lui si è messo a ridere, anche mio padre. Mi sono coperta con il velo e sono scappata via. Da quel giorno è venuto spesso a casa, quando passava col camion. Mi cercava con gli occhi, immobile, come il gatto col topo. La mia famiglia si è spostata in un altro villaggio, a Elaq, è venuto anche lì. Mio padre era contento, Sarvar gli piaceva.
Ma quel giorno la mia famiglia non c’era. Ero sola, lavavo le pentole. Lui ha capito, ha sorriso. È entrato in casa, da padrone. Non sapevo cosa fare, le gambe di pietra. L’acqua saponata per terra scorreva via. C’era caldo, silenzio. Solo le mosche si sentivano.
Non sono riuscita neanche a gridare. Senza suoni poteva non esistere.

Sono scappata nella stalla quando son tornati i miei. Mia madre mi ha sgridato perché non avevo finito di lavare le pentole. Non ho detto niente. Ancora silenzio. Una paura basta. Quando mio padre mi guardava scappavo via. Ma lo sapevo, ogni mattina, quando mi svegliavo. Il bambino nella pancia non poteva nascondersi ancora per molto.
Mia madre ha capito. Ha urlato parole cattive. La vergogna della famiglia. Non si può affrontarla quella. Mio padre non doveva sapere.
Avremmo risolto da sole la faccenda. Da sole? Come? Non mi ha risposto. Silenzio, di nuovo.

Mi ha svegliato, a notte fonda, mi ha portato nella stalla. Mi ha tagliato il ventre con un coltello per togliere il bambino. Ha chiesto aiuto a mio fratello. Lui non voleva.

Poi gliel’ho chiesto io e allora è venuto con ago e filo e mi ha ricucito la ferita. Ma qualcosa è andato storto, continuavo a perdere sangue, anche quello non poteva nascondersi. Il dolore di pietre nella pancia. Mio padre ha saputo. Mi hanno portato all’ospedale e mi hanno curato. Lì si poteva parlare.
Intanto mio padre ha trovato Sarvar. Lo hanno arrestato, volevano arrestare anche mia madre. Mio fratello è andato in prigione al suo posto. Ora sono qui, al sicuro. Sto meglio. Ma non posso starci per sempre. Vorrei tornare a casa ma ho paura che mio padre mi uccida. Vorrei vivere e vorrei tanto andare a scuola.

Aggiornamenti precedenti

Basera rimane a lungo in ospedale e poi nella Casa Protetta di Hawca. Il padre la vuole a casa ma Basera ha paura di essere uccisa. In Afghanistan la vergogna dello stupro ricade spesso sulla vittima, delitto d’onore. Con il lungo e paziente lavoro di Hawca, la famiglia capisce il male che le ha fatto.
Basera accetta di tornare a vivere con loro, sotto lo stretto controllo delle assistenti sociali di Hawca. Ciro le è vicino con il suo affetto e il suo aiuto economico. La sua vita continua a migliorare. I problemi fisici sono ormai dietro le spalle ma deve essere ancora seguita dallo psicologo per il trauma subito.

Arrivano anche Eri e Marco a sostenere la sua vita. È cambiata, è felice della sua vita, è una ragazza allegra, ha ritrovato se stessa. Quando i problemi di sicurezza e le difficoltà della vita l’angosciano, ritrova la forza pensando a chi sta peggio di lei e non ha nessun aiuto.
Segue la scuola con profitto, studia molto, impara l’inglese e, oltre a questo, cuce vestiti per le persone del suo quartiere, sogna di aprire un negozio. È sempre più brava ed è fermamente decisa a diventare una grande stilista. Pensa ogni giorno ai suoi sponsor e prega per il loro successo.

 Aggiornamento gennaio 2023

Basera è molto felice di avere degli sponsor così amorevoli vicino a lei. Ecco cosa ci dice: “Il vostro sostegno mi ha dato speranza nella vita e fiducia in me stessa. Se voi non foste entrati nella mia vita, davvero non so dove sarei e cosa mi sarebbe successo. Adesso hanno chiuso per noi tutte le porte: istruzione, lavoro, svago, parchi, scuole, palestre, parrucchieri, viaggi… ma noi stiamo combattendo per sopravvivere e per difendere i nostri diritti. Non farsi distruggere dipende da noi.” Basera insegna, tiene corsi di cucito e sartoria (da sempre vorrebbe diventare una stilista famosa) per donne e ragazze. È molto felice del suo lavoro: “Il denaro che mi mandate lo uso per comprare materiale per i miei corsi e cibo per la famiglia. Quando poi ho esaurito il denaro per il materiale, allora facciamo pratica con i vecchi vestiti che le ragazze portano. Tagliamo, cuciamo e inventiamo nuovi modelli. Purtroppo anche questa risorsa finisce. Ma non ci scoraggiamo. I miei sogni guardano lontano. Il mio desiderio è di avere un giorno un Centro per le Donne, un posto dove stare insieme e cucire i nostri abiti per poi venderli al mercato e vederli addosso alle altre donne con i colori finalmente liberi di esistere.”

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Una storia del progetto Vite preziose.

La fotografia è di solo carattere grafico e non rappresenta la donna protagonista della storia. Data la attuale situazione in Afghanistan, per evitare l’identificazione delle donne i nomi sono stati modificati, così come i luoghi dove si svolgono i fatti.

 

 

 

 

Ahdia, Laghman

Ahdia è una donna disperata, ha perso da poco suo figlio di 18 anni che era soldato nell’ANA (Afghan National Army). Ha avuto sei figli, quattro ragazze e due maschi. Come migliaia di altre famiglie afghane che vivono una situazione economica difficile, è stata costretta a far arruolare suo figlio, appena diplomato, nell’esercito. Il ragazzo ha combattuto con l’esercito solo per sei mesi. È molto comune che i nuovi arruolati, soldati giovani, siano mandati in prima linea, anche se inesperti, e spesso vengono uccisi. Un giorno bussano alla porta dei ragazzi in uniforme e annunciano alla famiglia che il loro amico e compagno è morto e che il corpo è stato trasportato a Kabul. Quando Ahdia va a Kabul per riconoscere il figlio, non può farlo perché il corpo è tutto bruciato, irriconoscibile. Sono i suoi compagni a riconoscerlo, conoscono le circostanze di quella tragedia. A quel punto possono portare a Laghman il corpo del figlio, dove vivono. Questo procedimento è molto lungo ed è una tortura insopportabile per tutta la famiglia. Ahdia racconta piangendo: ’Eravamo poveri ma vivevamo una vita relativamente felice. Nonostante io abbia sposato contro la mia volontà quest’uomo anziano, siamo stati capaci di vivere decentemente insieme. Come contadino, mio marito aveva un reddito molto basso. Lavorava nella terra di altri padroni. Eravamo una grande famiglia e vivevamo tutti insieme in un’unica stanza. Avevo comprato qualche gallina e vendendo le uova e dei polli riuscivo a portare a casa un po’ di denaro in più. Mi sono occupata della mucca del vicino per diversi anni e, in cambio dei miei servizi, il vicino mi ha dato un vitello. Dopo un po’ di tempo, sono riuscita a vendere il vitello che ormai era diventato una mucca, e con quei soldi , siamo riusciti a vivere un po’ meglio e a mandare a scuola i ragazzi.
Mio marito soffriva di una brutta asma e non abbiamo mai potuto curarlo o portarlo in un ospedale ben attrezzato, così lui è peggiorato, le sue condizioni erano instabili, e, alla fine, è morto. Dopo questa tragedia, non avevamo più nemmeno una moneta per mangiare. Tutto quello che eravamo riusciti a risparmiare se n’è andato per le cure e per il funerale. Per poter vivere e dar da mangiare ai miei figli, non avevo che una scelta: mandare il mio figlio maggiore o a raggiungere i talebani o l’Esercito. Combattere era l’unico lavoro possibile. Lui era il maggiore e gli altri fratelli erano troppo piccoli per poter lavorare e sostenerci in qualche modo. Ma solo dopo sei mesi ho avuto davanti a me il suo corpo bruciato… perché sono ancora viva? Io ho bruciato mio figlio con le mie stesse mani…’
Niente può consolare Ahdia, niente può darle speranza, ma deve comunque resistere e stare in piedi perché i suoi altri figli hanno bisogno di lei e quest’anno sono tutti abbastanza grandi per andare a scuola. Ahdia viene da un’area remota del paese, molto chiusa, dove le donne non possono lasciare la propria casa né cercare lavoro né andare a fare le faccende nelle case di altre persone. Sa bene di non essere l’unica in difficoltà economiche nel suo vicinato ma è completamente spezzata dalla perdita del figlio di cui si sente in colpa. Non è un dolore facile da sopportare e ogni giorno si sente più debole. È preoccupata per il futuro dei suoi figli e non ha nessun parente o amico che possa aiutarla o confortarla. Ha bisogno di una mano per sostenere la famiglia, finché i suoi figli possano essere abbastanza grandi da lasciare la casa e vivere autonomamente.’ Non riesco più a trovare la forza di vivere, sono una persona completamente devastata ma cosa devo fare con i miei figli? Loro devono crescere, devono vivere.’

Aggiornamenti precedenti

Il sostegno economico darebbe un po’ di pace a questa donna, permettendole di far mangiare e studiare i suoi figli, finché siano loro a portare a casa di che vivere, dato che a lei non è permesso.

Aggiornamento gennaio 2023

Ahdia vive una vita molto difficile, ma non si lamenta mai ed è molto coraggiosa. Alleva polli e vende polli e uova per strada ma guadagna davvero molto poco. Non può coprire le spese quotidiane della famiglia. È stata molto felice di ricevere il denaro della sua sponsor. “Non avevo nulla per comprare da mangiare per noi,- ci racconta – e adesso sono ricca e posso far mangiare i miei figli e stare al caldo. Grazie, ci hai salvato in questo triste inverno. Sono molto felice di averti nella mia vita, tu sei quella che sa entrare nella terribile vita delle donne e le salva dal disastro.” Ahdia non si arrende e, incoraggiata dal sostegno che riceve, continua a combattere i suoi quotidiani ostacoli.

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Una storia del progetto Vite preziose.

La fotografia è di solo carattere grafico e non rappresenta la donna protagonista della storia. Data la attuale situazione in Afghanistan, per evitare l’identificazione delle donne i nomi sono stati modificati, così come i luoghi dove si svolgono i fatti.

 

Meena Keshwar Kamal: in prima linea per i diritti delle donne afghane

Meena (1956-1987) è nata a Kabul. Durante il suo periodo scolastico, gli studenti a Kabul e in altre città afghane erano profondamente impegnati in attività sociali e nei crescenti movimenti di massa.

Meena ha lasciato l’università per dedicarsi come attivista sociale ad organizzare le donne ed educarle. Perseguendo la sua causa per ottenere il diritto alla libertà e all’espressione e conducendo attività politiche, Meena ha posto le basi per la fondazione di RAWA nel 1977.

Questa organizzazione intendeva dare voce alle donne dell’Afghanistan private dei loro diritti e costrette al silenzio. Meena iniziò una campagna contro le forze sovietiche e il loro regime fantoccio nel 1979 e organizzò numerose marce e incontri in scuole, college e all’Università di Kabul per sensibilizzare l’opinione pubblica.

Un altro grande servizio reso da lei alle donne afghane è stato il lancio di una rivista bilingue Payam-e-Zan (Il messaggio delle donne) nel 1981. Per mezzo di questa rivista RAWA ha potuto lanciare con coraggio ed efficacia la causa delle donne afghane. Payam-e-Zan ha costantemente denunciato la natura criminale dei gruppi fondamentalisti.

Meena ha anche organizzato le scuole Watan per i bambini rifugiati, un ospedale e centri di artigianato per donne rifugiate in Pakistan per sostenere finanziariamente le donne afghane.

Alla fine del 1981, su invito del governo francese, Meena ha rappresentato il movimento afghano di resistenza al Congresso del Partito Socialista Francese. La delegazione sovietica presente al Congresso, guidata da Boris Ponamaryev, ha lasciato la sala con vergogna quando i partecipanti applaudivano e Meena mostrava il segno di vittoria.

Oltre alla Francia Meena ha visitato anche vari altri Paesi europei e incontrato le personalità più importanti.

Il suo lavoro sociale attivo e la sua difesa effettiva contro le posizioni dei fondamentalisti e del regime fantoccio hanno provocato l’ira dei Sovietici e dei fondamentalisti; fu assassinata dagli agenti del KHAD (il braccio aghano del KGB) e dai loro complici a Quetta, in Pakistan, il 4 febbraio 1987.