Basera, Bamyan
Mi chiamo Basera e ho 14 anni. Vivo nella provincia di Bamyan, nel centro dell’Afghanistan. Tutto è cominciato dalla scuola. Non perché io ci andassi, no. Non c’era ancora, la stavano costruendo, non lontano da casa mia. Chissà se mio padre mi avrebbe permesso di frequentarla? Intanto era solo un mucchio di pietre. Ma c’era movimento, gente che veniva da fuori, per portare i materiali da costruzione.
Lui passava col camion, ogni giorno. Portava le pietre, rotolavano giù, con quel suono di cascata, la polvere entrava in casa. Un pomeriggio, il suo camion è andato a sbattere contro un albero. Mio padre lo ha tirato fuori dalla macchina, non si era fatto niente purtroppo. Intorno a quell’albero ha girato la mia vita, come girano i jin, gli spiriti.
Dalla parte sbagliata. Mio padre ha accolto in casa Sarvar, così si chiama, e gli ha offerto il tè. L’ho preparato io e gliel’ho portato. Mi ha guardato, in un modo che non avevo mai visto. Non mi piaceva. Il futuro, da noi, ti arriva addosso e non puoi fare niente, ma lo senti arrivare.
Mi tremavano le mani e mi sono vergognata perché le tazze tintinnavano. Lui si è messo a ridere, anche mio padre. Mi sono coperta con il velo e sono scappata via. Da quel giorno è venuto spesso a casa, quando passava col camion. Mi cercava con gli occhi, immobile, come il gatto col topo. La mia famiglia si è spostata in un altro villaggio, a Elaq, è venuto anche lì. Mio padre era contento, Sarvar gli piaceva.
Ma quel giorno la mia famiglia non c’era. Ero sola, lavavo le pentole. Lui ha capito, ha sorriso. È entrato in casa, da padrone. Non sapevo cosa fare, le gambe di pietra. L’acqua saponata per terra scorreva via. C’era caldo, silenzio. Solo le mosche si sentivano.
Non sono riuscita neanche a gridare. Senza suoni poteva non esistere.
Sono scappata nella stalla quando son tornati i miei. Mia madre mi ha sgridato perché non avevo finito di lavare le pentole. Non ho detto niente. Ancora silenzio. Una paura basta. Quando mio padre mi guardava scappavo via. Ma lo sapevo, ogni mattina, quando mi svegliavo. Il bambino nella pancia non poteva nascondersi ancora per molto.
Mia madre ha capito. Ha urlato parole cattive. La vergogna della famiglia. Non si può affrontarla quella. Mio padre non doveva sapere.
Avremmo risolto da sole la faccenda. Da sole? Come? Non mi ha risposto. Silenzio, di nuovo.
Mi ha svegliato, a notte fonda, mi ha portato nella stalla. Mi ha tagliato il ventre con un coltello per togliere il bambino. Ha chiesto aiuto a mio fratello. Lui non voleva.
Poi gliel’ho chiesto io e allora è venuto con ago e filo e mi ha ricucito la ferita. Ma qualcosa è andato storto, continuavo a perdere sangue, anche quello non poteva nascondersi. Il dolore di pietre nella pancia. Mio padre ha saputo. Mi hanno portato all’ospedale e mi hanno curato. Lì si poteva parlare.
Intanto mio padre ha trovato Sarvar. Lo hanno arrestato, volevano arrestare anche mia madre. Mio fratello è andato in prigione al suo posto. Ora sono qui, al sicuro. Sto meglio. Ma non posso starci per sempre. Vorrei tornare a casa ma ho paura che mio padre mi uccida. Vorrei vivere e vorrei tanto andare a scuola.
Aggiornamenti precedenti
Basera rimane a lungo in ospedale e poi nella Casa Protetta di Hawca. Il padre la vuole a casa ma Basera ha paura di essere uccisa. In Afghanistan la vergogna dello stupro ricade spesso sulla vittima, delitto d’onore. Con il lungo e paziente lavoro di Hawca, la famiglia capisce il male che le ha fatto.
Basera accetta di tornare a vivere con loro, sotto lo stretto controllo delle assistenti sociali di Hawca. Ciro le è vicino con il suo affetto e il suo aiuto economico. La sua vita continua a migliorare. I problemi fisici sono ormai dietro le spalle ma deve essere ancora seguita dallo psicologo per il trauma subito.
Arrivano anche Eri e Marco a sostenere la sua vita. È cambiata, è felice della sua vita, è una ragazza allegra, ha ritrovato se stessa. Quando i problemi di sicurezza e le difficoltà della vita l’angosciano, ritrova la forza pensando a chi sta peggio di lei e non ha nessun aiuto.
Segue la scuola con profitto, studia molto, impara l’inglese e, oltre a questo, cuce vestiti per le persone del suo quartiere, sogna di aprire un negozio. È sempre più brava ed è fermamente decisa a diventare una grande stilista. Pensa ogni giorno ai suoi sponsor e prega per il loro successo.
Aggiornamento gennaio 2023
Basera è molto felice di avere degli sponsor così amorevoli vicino a lei. Ecco cosa ci dice: “Il vostro sostegno mi ha dato speranza nella vita e fiducia in me stessa. Se voi non foste entrati nella mia vita, davvero non so dove sarei e cosa mi sarebbe successo. Adesso hanno chiuso per noi tutte le porte: istruzione, lavoro, svago, parchi, scuole, palestre, parrucchieri, viaggi… ma noi stiamo combattendo per sopravvivere e per difendere i nostri diritti. Non farsi distruggere dipende da noi.” Basera insegna, tiene corsi di cucito e sartoria (da sempre vorrebbe diventare una stilista famosa) per donne e ragazze. È molto felice del suo lavoro: “Il denaro che mi mandate lo uso per comprare materiale per i miei corsi e cibo per la famiglia. Quando poi ho esaurito il denaro per il materiale, allora facciamo pratica con i vecchi vestiti che le ragazze portano. Tagliamo, cuciamo e inventiamo nuovi modelli. Purtroppo anche questa risorsa finisce. Ma non ci scoraggiamo. I miei sogni guardano lontano. Il mio desiderio è di avere un giorno un Centro per le Donne, un posto dove stare insieme e cucire i nostri abiti per poi venderli al mercato e vederli addosso alle altre donne con i colori finalmente liberi di esistere.”
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Una storia del progetto Vite preziose.
La fotografia è di solo carattere grafico e non rappresenta la donna protagonista della storia. Data la attuale situazione in Afghanistan, per evitare l’identificazione delle donne i nomi sono stati modificati, così come i luoghi dove si svolgono i fatti.