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Autore: Patrizia Fabbri

Meena Keshwar Kamal: in prima linea per i diritti delle donne afghane

Meena (1956-1987) è nata a Kabul. Durante il suo periodo scolastico, gli studenti a Kabul e in altre città afghane erano profondamente impegnati in attività sociali e nei crescenti movimenti di massa.

Meena ha lasciato l’università per dedicarsi come attivista sociale ad organizzare le donne ed educarle. Perseguendo la sua causa per ottenere il diritto alla libertà e all’espressione e conducendo attività politiche, Meena ha posto le basi per la fondazione di RAWA nel 1977.

Questa organizzazione intendeva dare voce alle donne dell’Afghanistan private dei loro diritti e costrette al silenzio. Meena iniziò una campagna contro le forze sovietiche e il loro regime fantoccio nel 1979 e organizzò numerose marce e incontri in scuole, college e all’Università di Kabul per sensibilizzare l’opinione pubblica.

Un altro grande servizio reso da lei alle donne afghane è stato il lancio di una rivista bilingue Payam-e-Zan (Il messaggio delle donne) nel 1981. Per mezzo di questa rivista RAWA ha potuto lanciare con coraggio ed efficacia la causa delle donne afghane. Payam-e-Zan ha costantemente denunciato la natura criminale dei gruppi fondamentalisti.

Meena ha anche organizzato le scuole Watan per i bambini rifugiati, un ospedale e centri di artigianato per donne rifugiate in Pakistan per sostenere finanziariamente le donne afghane.

Alla fine del 1981, su invito del governo francese, Meena ha rappresentato il movimento afghano di resistenza al Congresso del Partito Socialista Francese. La delegazione sovietica presente al Congresso, guidata da Boris Ponamaryev, ha lasciato la sala con vergogna quando i partecipanti applaudivano e Meena mostrava il segno di vittoria.

Oltre alla Francia Meena ha visitato anche vari altri Paesi europei e incontrato le personalità più importanti.

Il suo lavoro sociale attivo e la sua difesa effettiva contro le posizioni dei fondamentalisti e del regime fantoccio hanno provocato l’ira dei Sovietici e dei fondamentalisti; fu assassinata dagli agenti del KHAD (il braccio aghano del KGB) e dai loro complici a Quetta, in Pakistan, il 4 febbraio 1987.

Zahida, Nuristan

15 mucche. È questo il prezzo della sua vita. Ha 12 anni Zahida, venduta in moglie a un uomo più vecchio di suo padre. Vive in Nuristan, un paese di foreste e montagne, dove si fermarono i soldati di Alessandro Magno, dove riti e religione animisti sono stati cancellati, alla fine dell’800, dall’islamizzazione.

Qui, la gente lavora nei campi. Soprattutto le donne, sulla propria terra o su quella degli altri. Un uomo si sposa per questo. Anche il marito di Zahida. Vuole una donna forte che possa lavorare senza tregua, al suo posto. Subito dopo il matrimonio obbligano la giovanissima moglie a lavorare fino allo stremo delle forze.

Del resto l’hanno pagata bene. Zahida non sa niente, né dei rapporti tra marito e moglie, né del lavoro che il marito pretende da lei. È ancora una bambina, magra, piccola, stupefatta. Non vuole andare nei campi a lavorare, si distrae, vuole giocare. Ha paura. Il marito si infuria. Ci pensa lui a farle capire come stanno le cose. La picchia e la insulta tutti i giorni. Ha una figlia, la mamma bambina. Un altro lo perde per le botte del marito.

Quando il marito muore, Zahida sospira di sollievo. Pensa che la sua vita sarà più facile. I beni del marito saranno ora suoi e potrà vivere bene. Ma non è così. I cognati si prendono tutto, pretendendo di aver fatto un prestito al fratello e di aver pagato per le 15 mucche che lei è costata. Zahida diventa proprietà dei cognati. Sta peggio di prima.

Dopo un anno la sbattono fuori di casa. Non sa dove andare, torna dai suoi. Vecchi, deboli, poverissimi. Così, è di nuovo nei campi, altrui, questa volta. È il solo sostegno della famiglia, dei genitori e della figlia di 6 anni, e deve lavorare sodo. La sua vita è durissima. Il suo padrone la tratta come una schiava, ricattandola con i pochi soldi che le dà. Anche d’inverno, quando i contadini possono riposare, non ha tregua. Spazza la neve dal tetto, lava i panni della famiglia con l’acqua gelata, sgobba tutto il giorno per loro. Si sente già vecchia a 23 anni.

Aggiornamenti

Zahida ha bisogno di aiuto, per alzare la testa, per respirare, finalmente, dopo 11 anni, per riposare, per curare la sua fragile salute, per stare con la sua bambina, con la certezza di poterla sfamare e magari mandare a scuola, verso un destino migliore. Lucia e Mirella, da qualche mese, hanno cura di lei e la speranza ritorna. Potranno mangiare meglio, tutti, e la bimba potrà andare a scuola.

Aggiornamento a gennaio 2023

Intorno a Zahida, nel suo quartiere, le donne si organizzano. Lei adesso ha imparato a leggere e a scrivere in dari, con l’aiuto di una vicina. È felice per questo, perché così potrà insegnare a sua figlia quello che ha imparato e sostenerla nei suoi studi, che ormai può seguire solo a casa. Ci dice Zahida:

“Con il drammatico cambiamento della nostra situazione ho deciso di partecipare a un corso di sartoria e cucito. Lo sto seguendo da due mesi, regolarmente, e ho imparato a cucire vestiti. La mia insegnante dice che se avessi una macchina da cucire mia a casa, potrei imparare più velocemente e usarla per cominciare a lavorare.” È questo il suo programma. Ringrazia tanto le sue sponsor e dice che la presenza di queste persone nella sua vita l’ha cambiata completamente.

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Una storia del progetto Vite preziose.

La fotografia è di solo carattere grafico e non rappresenta la donna protagonista della storia. Data la attuale situazione in Afghanistan, per evitare l’identificazione delle donne i nomi sono stati modificati, così come i luoghi dove si svolgono i fatti.

Shahzia, Kabul

Ho 31 anni e sono della provincia di Kabul. Ho studiato, sono insegnante e avevo uno stipendio.
Mi piaceva tanto il mio lavoro, i bambini mi volevano bene. Poi mi sono sposata e tutto è finito.
Una vita perduta. La famiglia di mio marito ha una mentalità chiusa, mio cognato non mi permette di lavorare fuori casa.
È una vergogna per una donna, dicono, una vergogna per la famiglia. Ma anche vivere di stenti con l’elemosina degli altri è una vergogna. Ho 4 figli e un marito che non può lavorare. Il mio lavoro sarebbe indispensabile. Ha molti problemi di salute, ai piedi, allo stomaco, alla testa. Anch’io ho problemi di salute, ginecologici e ai reni.
Ma i soldi per curarci non ci sono. Siamo tutti un peso per la famiglia di mio marito. È la dignità che mi manca, la dignità di vivere con le proprie risorse, la possibilità di essere curati e capaci di provvedere a noi stessi. Ci penso tutti i giorni. Una soluzione c’è, l’unica possibile: un lavoro da fare a casa, so cucire bene e potrei anche insegnarlo…

Aggiornamenti

Il primo aiuto di Maria Pia e Laura serve per la salute di Shahzia e del marito. Non si sono mai curati e la loro situazione è critica.
Finalmente possono farlo e i bambini vanno a scuola anziché a lavorare o a mendicare. Shahzia spera, una volta guarita, di poter lavorare fuori casa, come un tempo. Ma né la famiglia né il marito glielo permettono.
La vita è difficile, i problemi economici pressanti, e il marito ogni tanto perde la testa e diventa violento con lei e i bambini. Arriva l’aiuto di Angelika che la segue in questi anni. Shahzia ha un grande impegno quotidiano: convincere il marito a non interrompere la scuola dei figli e a premetterle di lavorare.
Ecco quello che ottiene: potrà lavorare solo in una scuola femminile come donna delle pulizie. Ma con un campo così ristretto è difficile trovare lavoro, anche perché, per la sua salute, non può fare lavori pesanti. Il suo lavoro di insegnante rimane una chimera.
Intanto il marito si mette a vendere per la strada i ‘bolani’, involtini di verdura, e ‘ashak’, ravioli. Se ne vedono molti per le strade di Kabul.
Non è un lavoro facile. Non puoi farci affidamento, d’estate, ad esempio si vende molto meno, devi cambiare posto ogni giorno, pagare le tasse sul Karachi, un carretto a motore sul quale vendere la merce.
Ma quel che è peggio, la polizia disturba continuamente il lavoro, con ricatti e richieste di denaro. Qualche mese fa il marito di Shahzia è stato duramente picchiato da un poliziotto che voleva dei soldi per lasciarlo lavorare. Per Shahzia è impossibile sostituirlo, non è nemmeno immaginabile, soprattutto in una famiglia così. Ora il sostegno di Angelika serve per curare le ferite del marito.

Aggiornamento 2023

Shazia è una donna molto coraggiosa e paziente e affronta tutte le sfide che la vita le ha messo davanti senza mai lamentarsi. Riesce a far studiare i suoi figli con il poco denaro che guadagna, vendendo snack per la strada. Vende bolani (pasta fritta ripiena di verdure), ashak (ravioli di porri con carne e yoghurt), sambosa e altri cibi, resistendo alle aggressioni dei talebani che spesso le distruggono tutto il lavoro, la insultano e la trattano da prostituta perché non sta a casa come prescritto. Fa di tutto per non far sentire ai suoi figli che non hanno un padre. “Per continuare l’educazione dei miei figli cerco dei corsi gratuiti, dice Shazia. Stanno frequentando corsi di Inglese e di Corano. Ogni sera, prima di dormire prego che i miei bambini possano un giorno essere liberi dalla povertà e dall’oppressione, che possano avere un futuro.” Manda tutto il suo amore alle sue sponsor.

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Una storia del progetto Vite preziose.

La fotografia è di solo carattere grafico e non rappresenta la donna protagonista della storia. Data la attuale situazione in Afghanistan, per evitare l’identificazione delle donne i nomi sono stati modificati, così come i luoghi dove si svolgono i fatti.

Seema, Bamyan

Mi chiamo Seema e sono di Bamyan. Ho 35 anni. Sono sposata da 20 anni con mio cugino, tossicodipendente.
A 15 anni mio padre ha venduto la mia vita a lui. Una lunga catena di giorni sempre uguali, con le sue botte dentro
Dal primo giorno mi ha picchiata, è un’abitudine, sembra non possa farne a meno. Ha sempre bisogno di soldi per la droga. Sa che ne ho e li vuole. Per questo mi picchia. Gliene do un po’, gli altri li nascondo e lui lo sa, non gli bastano mai. Ma io non parlo, devo difenderli per le mie figlie. Lavoro, per farle crescere e mandarle a scuola. Mi metto il burka e vado a pulire le case degli altri.
Mi piace lavorare, pulire mi piace, pulire tutta la sporcizia che ho intorno. È un segreto il mio lavoro tra me e le mie figlie. Quando se ne accorge mi picchia anche per questo.
Quando esce l’aria della casa diventa più leggera. Possiamo respirare e immaginare una vita senza di lui. Ma poi torna sempre.
Da un anno le cose sono peggiorate. Esce poco e io non posso lavorare.
Niente più scuola per le mie figlie, i soldi non bastano. Le ragazze sono cresciute e lui se n’è accorto. Ha cominciato a picchiare anche loro. Questo no, è troppo.
Non posso proteggerle e ho paura del futuro. Ho paura perché adesso lui ha un lavoro: fa prostituire delle ragazze, le vende agli amici drogati come lui. Ho paura che faccia quello che ha minacciato, vendere anche le bambine, le sue. Devo portarle via di qui e farle studiare.

Aggiornamenti

Aprire la porta sulla vita di Seema è come affacciarsi su un incubo. È soprattutto per proteggere le sue figlie che si rivolge al Centro Legale.
L’aiuto di Francesca e la presenza delle assistenti di Hawca le permette di mandarle finalmente a scuola e di proteggerle dalla prostituzione alla quale il padre le aveva destinate.
Anche Seema inizia a studiare per poter cercare un lavoro e realizzare il sogno di vivere da sola con loro.
Vuole il divorzio ma non è facile. Il marito non vuole e minaccia di tenersi le figlie. Per averle con sé dopo il divorzio ha bisogno di un lavoro. Lo trova, fa la cuoca per un ufficio del Governo e la situazione migliora.
Da quattro anni è Marianella a occuparsi di lei con il suo denaro e il suo affetto. È Seema a portare i soldi a casa e questo le dà un certo potere che, unito alle pressioni di Hawca, le permette di tenere sotto controllo le pericolose iniziative del marito. Cerca di vendere la sua figlia maggiore a due vecchi ma il suo business fallisce. Seema smette di lavorare per un po’ perché mette al mondo un’altra bimba. Le ragazze continuano la scuola e sono molto brave.
Ora il fratello l’aiuta. Le ha dato una stanza nella sua casa e ha potuto finalmente lasciare la casa del marito. Vive con la famiglia del fratello. È un grande sollievo ma l’angoscia per il futuro delle sue figlie non l’abbandona un minuto. Trova un altro lavoro in una casa di persone ricche che la sfruttano fino a farla ammalare. Deve smettere. Ora è di nuovo senza lavoro ma non smette di combattere per il futuro delle sue figlie.

Aggiornamento 2023

“Quando le ho parlato al telefono, ci racconta Shafiqa, Sima era veramente contenta. Sua figlia era riuscita ad avere un posto di insegnante in una scuola privata, dove insegna dari a più di 60 studenti, per tre ore al giorno. Questo lavoro è per lei e per la madre la salvezza.” “Io, dice Sima, sono sempre malata e prendo regolarmente le medicine. Quello che mia figlia guadagna è molto poco. E non so se riuscirò a coprire le spese del cibo, che è sempre più caro e della legna per scaldarci nell’inverno. Prego le mie sponsor di continuare a darci una mano e le ringrazio tanto per il loro meraviglioso aiuto.” Manda loro tutto il suo affetto.

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Una storia del progetto Vite preziose.

La fotografia è di solo carattere grafico e non rappresenta la donna protagonista della storia. Data la attuale situazione in Afghanistan, per evitare l’identificazione delle donne i nomi sono stati modificati, così come i luoghi dove si svolgono i fatti.

Safia, Kabul

Ho 32 anni vivo alla periferia di Kabul. Sono nata quando i russi sono entrati nel mio paese.
La pace non so cosa sia, è un tempo lontano, nei ricordi di mia madre. Sembra una favola, finta. Era il ’96 quando mio marito è morto.
Da quattro anni i capi mujahiddin si sbranavano come cani rabbiosi intorno a un osso, Kabul. Si moriva anche solo per andare a cercare un po’ d’acqua.
Vivevamo come topi, chiusi, terrorizzati, nelle nostre case. Allora sono arrivati i talebani, dicendo, come dicono tutti prima di sparare, di portare la pace.
Nel mio quartiere, eravamo tagiki, lì si era installato Massud per attaccare i talebani.
I combattimenti erano feroci. Massud ha perso, è scappato nella sua roccaforte del Panshir. Lui e i suoi sono scappati. Ma noi siamo rimasti, da soli, a subire la vendetta talebana. Molte persone innocenti sono state massacrate, bastava la nostra faccia, bastava che venissimo dal Panshir.
Mio marito è stata una di queste vittime. Ero giovane allora, e avevo già tre figli, molto piccoli. Per i bambini vivere era una scommessa
Il mio figlio maschio si è ammalto. Tubercolosi. Due anni fa è morto. Finché c’era lui, vivere con la famiglia di mio cognato era sopportabile, mi difendeva. Ma da due anni, io e le mie figlie siamo prigioniere di questa famiglia. Mio cognato non vuole che vadano a scuola, né che io lavori fuori casa.
Mia cognata mi grida tutto il giorno: ’Fino a quando dobbiamo darvi da mangiare?’ Minaccia continuamente di buttarci fuori casa. Quando mio cognato torna dal lavoro, ci accusa di qualsiasi sciocchezza e lui ci picchia, ogni sera.
La mia speranza sono le mie figlie. Che possano avere un’altra vita, che non debbano sentirsi vecchie a 30 anni. Se avessi un po’ di soldi miei, potrei mandarle di nuovo a scuola, potrei lasciare questa casa, dove non ci vogliono, e cercare un piccolo lavoro. Trovare almeno la pace dentro.

Aggiornamenti

È una madre coraggiosa, Safia. Sono le sue figlie la sua speranza. Per loro combatte ogni giorno, con l’aiuto di Paola che le sta accanto da molti anni.
Può provvedere a se stessa e alle figlie e non deve subire più le violente e continue umiliazioni della famiglia del marito. Ma i problemi sono sempre dietro l’angolo per lei. Il cognato si è messo in mente di sposare la figlia, ancora una bimba. Safia si oppone con tutte le sue forze. Le sue figlie non devono conoscere il suo inferno. Ha dalla sua il sostegno di Paola e la presenza delle assistenti di Hawca. Il felice ricatto è sempre lo stesso.
Se la bimba non andrà più a scuola i soldi finiranno e lui dovrà di nuovo mantenerle. Così cambia strategia e programma. Ora vuole sposare la bimba di Safia con suo figlio. La piccola, che ha già imparato a difendersi, rifiuta, sostenuta dalle sue alleate. Safia riesce a trovare un lavoro, va a fare le pulizie fuori casa e guadagna qualcosa. Ma in famiglia non la prendono bene e adesso il cognato vuole sposare Safia a tutti i costi. Forte dell’aiuto che riceve, riesce finalmente a dire basta e a scappare da quella casa.
Trova una stanza in affitto per lei e le figlie, lavora molto, fa le pulizie e continua a mandare le figlie a scuola, con l’aiuto di Paola.
La famiglia non smette con le sue minacce e Safia ha paura di lasciare le figlie da sole, cerca sempre di lavorare vicino casa. Le condizioni d’insicurezza della città non aiutano di certo. Questa vita diventa troppo difficile e Safia trova un parente che le dà una stanza in casa sua.
Così risparmia l’affitto e ha qualcuno accanto per proteggere lei e le figlie dalle ossessionanti pressioni della famiglia. Si sente più tranquilla e decide di adottare un bimbo, forse per riempire il vuoto del suo figlio maggiore, morto anni prima. Il piccolo cresce bene ed è la gioia di madre e sorelle.
È molto felice e le figlie continuano la scuola con la speranza di diplomarsi e lavorare presto per un futuro più luminoso. Ultimamente hanno celebrato la sua circoncisione. Le sorelle lo hanno riempito di regalini.

Aggiornamento gennaio 2023

Safia sembra molto contenta ma anche preoccupata per la figlia che si è appena sposata. È andata all’estero col marito e spera che, una volta sistemati, possano aiutarla economicamente.

Dice Safia, rivolta alla sua sponsor: “Tu mi sostieni da molti anni e davvero non so come ringraziarti per tutto quello che fai. Hai salvato la mia vita e quella delle mie figlie. Se puoi sostenermi ancora per qualche mese ne sarò felice. Appena mia figlia sarà in grado di aiutarmi potrai dare questo denaro a un’altra donna in difficoltà che ne avrà bisogno. Spero che questo possa accadere ma non sono sicura che mia figlia sia in grado di farlo.” Così chiede ancora aiuto finché potrà essere autonoma con l’aiuto della figlia sposata.

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La fotografia è di solo carattere grafico e non rappresenta la donna protagonista della storia. Data la attuale situazione in Afghanistan, per evitare l’identificazione delle donne i nomi sono stati modificati, così come i luoghi dove si svolgono i fatti.

Parwana, Takar

Parwana non è ancora nata quando suo padre muore. La madre è costretta, secondo l’ infelice usanza del suo paese, a sposare il cognato. Per la madre di Parwana è la sola soluzione per potersi prendere cura dei suoi tre figli. La prima moglie del cognato però non è affatto d’accordo, non vuole questo matrimonio e glielo fa pagare ogni giorno. La sua mamma sopporta tutte le angherie soltanto per poter stare con le sue tre figlie. Per la legge tradizionale, se una vedova sposa un uomo fuori dalla famiglia, perde la custodia dei figli.

Quando Parwana ha 14 anni il padre/zio la vende in matrimonio per una bella somma. Nonostante sia ancora piccola, Parwana ha una buona vita con il marito e la sua famiglia e dà alla luce tre bambini. Nel quinto anno del loro matrimonio, il marito viene ucciso. Parwana, a 20 anni, inizia la miserabile vita della vedova. Per fortuna, il marito ha lasciato una piccola attività commerciale avviata, sufficiente a nutrire la famiglia di 4 persone. Ce la possono fare.

Il padre di Parwana però, che ricorda il dolce sapore del denaro avuto dalla vendita della ragazza, decide di ripetere l’affare La rapisce, portandola via con la forza dalla sua casa e dai suoi figli e la vende in matrimonio a un uomo anziano, già padre di 6 figli. La minaccia continuamente. La prospettiva è questa: se osa ribellarsi o fuggire le taglierà la testa lui stesso con un coltello. Non ha scelta. Dopo il matrimonio, i suoi figli rimangono completamente soli e abbandonati. Crescono lavorando come schiavi nelle case dei loro parenti.

Sa tutto e ogni tanto riesce a vederli di nascosto, ma non c’è niente che possa fare per salvarli. Ogni giorno è una pena schiacciante per lei. Qualche anno dopo, il secondo marito, già molto vecchio, muore. Ora Parwana vive con i suoi tre figli, avuti dal secondo matrimonio, ma è in gravi difficoltà economiche.

Dice Parwana: “La perdita del mio primo marito mi ha bruciato come una fiamma. Non posso dimenticare la mia sofferenza e quella dei miei figli. Adesso sono malata ma continuo a ricamare e cucire per dar da mangiare ai miei figli. A volte non riesco a vendere niente ma devo comunque sopravvivere. Se avessi un lavoro e un salario regolare, sarei in grado di mandare i mei figli a scuola e di allontanare da loro un futuro pieno di ferite come il mio.”

Aggiornamento gennaio 2023

Dopo l’arrivo dei talebani la vita di Parwana è diventata difficile. Sa fare dei bellissimi ricami e questo era il suo lavoro, li vendeva bene al mercato. “Ma oggi nessuno ha più soldi per queste cose, dice Parwana, nessuno se le può permettere e gli affari vanno male. E poi sotto il burka o l’hijab nero nessuno vede i ricami, per belli che siano. Ci hanno fatto passare la voglia delle cose belle e di curarci del nostro aspetto. Lavoro tutta la notte, ricamando alla luce di una lampada ad olio. Così i miei occhi si sono indeboliti. Continuo a sperare di vendere i miei ricami e di poter comprare da mangiare per i miei figli e per riscaldarci in questo duro inverno, ma le cose non vanno per niente bene.” Una collega di Hawca, ci racconta Shafiqa, è stata a casa sua e le ha portato un pacco di cibo e del denaro per la legna. Ringrazia tanto la sua sponsor e chiede di essere ancora aiutata finché non riuscirà a stare in piedi da sola, sulle sue gambe.

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Una storia del progetto Vite preziose.

La fotografia è di solo carattere grafico e non rappresenta la donna protagonista della storia. Data la attuale situazione in Afghanistan, per evitare l’identificazione delle donne i nomi sono stati modificati, così come i luoghi dove si svolgono i fatti.