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Autore: Patrizia Fabbri

Un dialogo tra Italia e Afghanistan su diritti delle donne e laicità

La decisione, adottata da Erdoğan nel 2020, di ritirare la Turchia dalla Convenzione di Istanbul segna una svolta. Cisda e Trama di Terre sottolineano l’urgenza di sensibilizzare l’opinione pubblica sulla reale natura dell’Islam politico

Cisda e Trama di Terre di Imola (associazione interculturale impegnata a consolidare le relazioni tra donne native e migranti e a contrastare le discriminazioni e la violenza maschile in tutte le sue forme) celebrano il 12esimo anniversario della firma della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica (nota come Convenzione di Istanbul) su Altreconomia, con una conversazione tra Maria Cristina Rossi, attivista di Cisda e Tiziana Dal Pra, fondatrice di Trama di Terre, attivista e formatrice.

Cristina/Cisda. Come associazione femminista impegnata dall’epoca del primo governo talebano a sostenere le organizzazioni che in Afghanistan combattono la violenza maschile contro le donne e il fondamentalismo religioso, guardiamo con preoccupazione agli esiti del recesso dalla Convenzione imposto alla Turchia dal presidente Recep Tayyip Erdoğan nel 2020. Lo scenario è inquietante: la presenza di Istanbul garantiva nella sostanza e sul piano simbolico, un ponte tra Europa, Asia e il resto del mondo, indispensabile per combattere la violenza a livello transnazionale.

Tiziana/Trama di Terre. La Convenzione, strumento essenziale per i suoi quattro obiettivi (prevenire, proteggere, perseguire e politiche integrate) e per il suo carattere vincolante rinforzato da un organismo di monitoraggio, introduce nuove tipologie di reato per molti dei Paesi firmatari quali le mutilazioni genitali femminili, lo stalking, l’aborto forzato, la sterilizzazione forzata e il matrimonio forzato, di cui la nostra associazione si occupa dal 2009 a seguito delle prime segnalazioni, raccolte con l’aiuto di mediatrici culturali e in collaborazione con la Regione Emilia-Romagna. Nel 2010 dopo una missione in Marocco, da cui proveniva allora il maggior numero di donne di origine straniera residenti sul territorio e dove i matrimoni precoci erano moltissimi, abbiamo aperto la prima casa rifugio per ragazze in fuga dalle unioni forzate e dal controllo familiare e comunitario.

Le nostre antenne sono soprattutto le insegnanti. Ci contattano quando una loro allieva ha paura che i genitori non le permetteranno di rientrare in Italia dopo le vacanze. Il solo biglietto di andata in tasca è un segnale. La voce gira ormai tra le giovani di seconda generazione, alcune temono di essere costrette a sposare un proprio parente una volta rientrate nel Paese d’origine. I casi che hanno trovato risonanza sulla stampa italiana riguardano ragazze di origine pakistana, ma gli omicidi di Hina Saleem (nel 2006), di Sana Cheema (nel 2018) e di Saman Abbas (nel 2021) sono solo la punta di un iceberg.

Come si evince dal report “Global estimates of modern slavery: forced labour and forced marriage”, curato da Organizzazione mondiale per le migrazioni, Organizzazione internazionale per il lavoro e Walk free, 22 milioni di persone sono state costrette al matrimonio forzato nel 2021. Un fenomeno in crescita, strettamente legato a consuetudini e pratiche patriarcali consolidate, che assume caratteristiche specifiche in base ai contesti. Oltre l’85% dei casi è riconducibile a pressioni familiari e i due terzi si verificano in Asia e nel Pacifico. In Italia, grazie alla legge 69/2021 denominata “Codice rosso”, è stata introdotta nel codice penale questa fattispecie di reato, ma si registra una carenza relativamente a evidenza dei dati, misure di sostegno alle vittime (aspetto gravissimo), agli obiettivi fondamentali della prevenzione e della formazione: che deve essere di sistema, per coinvolgere tutta la rete dei servizi responsabili di prevenzione e presa in carico.

Avendo fin dall’inizio avuto a che fare con casi riguardanti ragazze e donne appartenenti a famiglie di religione musulmana, ci siamo trovate di fronte a un importante interrogativo, che non riguarda solo l’incidenza degli elementi culturali e religiosi. Ma anche il ruolo dell’Islam che agisce sul piano politico. Oggi ci troviamo ad essere parte civile nel processo per l’omicidio di Saman Abbas accanto ad associazioni islamiche in corsa per una maggiore agibilità politica e istituzionale in Italia. Oltre il “ponte” di Istanbul, le donne afghane, iraniane e turche sono sotto attacco, ma lo siamo tutte quando l’uso politico del discorso religioso uccide la laicità. È cruciale sensibilizzare l’opinione pubblica sulla reale natura dell’Islam politico, nella sua versione feroce, ma anche in quella “moderata”, che cambia la narrazione sui diritti fondamentali della donna di volta in volta, a seconda della convenienza.

Cristina/Cisda. Diverse sono le argomentazioni anti-Convenzione avanzate dall’Islam politico, di cui Erdoğan è un esponente di punta, con alleati potenti come il Qatar e la Fratellanza musulmana: la “via moderata”, ormai ben radicata in tutta Europa, di cui parla “Qatar papers. Il libro nero dell’Islam” (Rizzoli, 2019) di Christian Chesnot e Georges Malbrunot. L’inchiesta documenta come l’Italia sia il Paese europeo che ha ricevuto il sostegno finanziario più consistente da parte del Qatar Charity, con il maggior numero di moschee, associazioni e centri islamici finanziati. In tutta Europa i finanziamenti hanno avuto come intermediari esponenti di punta della confraternita come lo sceicco egiziano Youssuf Al-Qaradawi, noto per le sue dichiarazioni omofobe, antisemite e misogine su Al Jazeera (compresa la legittimazione delle violenze del marito sulla moglie) e per aver messo a punto gli strumenti teorici destinati alla popolazione musulmana minoritaria nelle società laiche, secondo una visione totalizzante della religione.

Centri e associazioni di questa rete, promuovono un intenso attivismo dei loro componenti. Fondano associazioni, istituzioni culturali e scolastiche di ogni ordine e grado; operano intensamente sul piano interreligioso, diffondendo la visione di una donna di cui si promuovono castità e dedizione al compito educativo dei figli; organizzano giornate aperte delle moschee ed eventi per quella mondiale dell’hijab; formano giovani donne e uomini al matrimonio islamico basato sul rifiuto dell’endogamia; promuovono la mediazione delle controversie di coppia all’interno della comunità; utilizzano strategie definite di entrismo clientelare, sfruttando esigenze elettorali delle forze politiche (in particolare socialiste e democratiche), partendo dal livello amministrativo locale. Formano imam in centri dove si utilizzano testi in cui la sharia è legge civile e politica, e non solo un codice morale. Gli esponenti della “via moderata” corrono per aggiudicarsi un ruolo predominante nel percorso di riconoscimento governativo, nel contesto di una concorrenza intra-associativa elevata.

La classe politica italiana, che da Expo 2015 ha forti interessi in comune con il Qatar, li premia. Arrivano le intese e i patti con l’“Islam che prega”, che pur non amando la definizione, utilizza l’argomento della collaborazione per la sicurezza contro l’“Islam che spara”, per accreditarsi. Pazienza per la tenuta democratica (di cui i diritti umani sono il primo elemento), come abbiamo visto in un’altra recente inchiesta, questa volta giudiziaria (il cosiddetto Qatargate).

Tiziana/Trama di Terre. La narrativa anti-Convenzione politicamente e religiosamente argomentata, di cui Women against violence Europe mette in luce miti, interpretazioni distorte e rischi, prevede oltre al rifiuto del carattere vincolante della norma internazionale rispetto agli ordinamenti dei singoli Stati impegnati a permeare il discorso politico con quello religioso e nazionalista con conseguenze già evidenti sull’esigibilità dei diritti e delle tutele, anche una polemica pretestuosa sul “genere”. Si accusa la Convenzione di affermare i valori Lgbtq+: ma essa richiama il principio di non discriminazione sessuale che già ispira molti altri trattati e legislazioni nazionali.

Cristina/Cisda. Inoltre, la Convenzione di Istanbul non definisce un modello di famiglia e non promuove il divorzio, come sostiene chi l’accusa, ma protegge le vittime di violenza in qualsiasi contesto avvenga, a partire da quello domestico. È la violenza che distrugge le famiglie, non la Convenzione. Luciana Capretti in “La jihad delle donne” (Salerno editrice, 2017) riporta la traduzione del Corano realizzata da Hamza Roberto Piccardo, ufficialmente riconosciuta dall’Arabia Saudita: “Gli uomini sono preposti alle donne […] Ammonite quelle di cui temete l’insubordinazione, lasciatele sole nei loro letti, battetele. Se poi vi obbediscono, non fate più nulla contro di esse”.

Piccardo, noto esponente dell’associazionismo islamico, precisa che questa forma di punizione maritale (percosse) è permessa dal Profeta in caso estremo, a condizione di risparmiare il volto e che i colpi vengano inferti con un fazzoletto o con il bastoncino che si usa per la pulizia dei denti. Forse è utile essere consapevoli che le migliori armi contro l’“Islam che spara” non possono essere delegate all’“Islam che prega”, come la difesa dei confini europei non dovrebbe servire a finanziare Erdoğan e a violare i diritti.

Pubblicato su Altraeconomia n. 259

Maria Cristina Rossi è un’attivista di CISDA

Jeans, maglione e barba corta: l’opposizione ai Talebani resiste

Inizia a piovigginare. La gente arriva alla spicciolata e silenziosa, continua ad aumentare. La polizia in assetto antisommossa è schierata. Siamo al parco di Shahr-e-Naw, nel cuore di Kabul, nel novembre del 2019. Il governo ha vietato i cortei per le strade, troppi attentati. Si può protestare solo in questo recinto tra gli alberi, circondato da una rete di metallo, come un pollaio. La manifestazione è organizzata da Hambastagi, il Partito della solidarietà, l’unico laico, progressista e democratico del Paese. Si protesta contro la liberazione di tre Talebani, membri della potente rete Haqqani, in cambio di due professori americani, rapiti nel 2016. I tre tagliagole stanno per tornare in libertà e l’indignazione è forte tra la gente. Il recinto è ormai pieno e si decide, nonostante i divieti, di uscire dalla gabbia. Le persone si avvicinano, discretamente, stringono mani, sussurrano cauti la loro approvazione. In quel periodo gli iscritti al partito erano in crescita, circa 33mila: per lo più giovani, uomini e tante donne. Famiglie intere che lavoravano insieme per il loro Paese.

I militanti di Hambastagi c’erano sempre ad accoglierci all’uscita dell’aeroporto quando arrivavamo dall’Italia, con il loro entusiasmo e il loro incrollabile impegno. Stavano al nostro fianco per tutto il tempo in cui la delegazione Cisda restava in Afghanistan. La nostra sicurezza era nelle loro mani esperte: un pick-up con dieci uomini fidati e ben armati ci seguiva dappertutto. Guidavano i nostri passi, sorridenti e discreti. Loro sapevano, erano ben informati. I militanti del partito lavoravano un po’ dovunque: nel governo, nella polizia, perfino nei servizi segreti. Una rete informativa fondamentale per chi porta avanti un lavoro politico pericoloso, anche allora, prima del regime talebano. Ora possiamo incontrare Nassim, portavoce del Partito, soltanto per telefono.

Come vivono oggi i membri di Hambastagi?
Non possiamo più esporci. Manifestazioni e proteste pubbliche sono diventate molto pericolose, i Talebani fanno arresti di massa. I prigionieri, il più delle volte, spariscono. Anche qualcuno di noi è stato detenuto e torturato e siamo riusciti a salvarlo per miracolo. Il nostro partito era ufficialmente registrato: abbiamo bruciato tutti i documenti ma chi si era esposto di più, anche in tv, e ha scelto di rimanere nel Paese, deve cambiare casa in continuazione per sopravvivere. Ormai lavoriamo in clandestinità e portiamo aiuto alla popolazione devastata dalla povertà, che riguarda ormai anche la classe media, senza più risparmi; sosteniamo, accanto all’Associazione rivoluzionaria delle donne afghane (Rawa) e alle militanti del partito, le necessità e le speranze delle donne.

I Talebani avevano promesso che ci sarebbe stata più sicurezza, è così?
No, purtroppo. Quasi ogni giorno ci sono attacchi suicidi, combattimenti, esplosioni ma sui media non se ne parla. Sono notizie censurate.

Chi sono i responsabili? Isis, Talebani?
Entrambi. La guerra tra Isis Khorasan e Talebani è scatenata. Il primo ha basi forti in Afghanistan, soprattutto nel Nord-Est, raccoglie gruppi e miliziani scontenti dei Talebani. Cercano di destabilizzare il governo in tutti i modi, anche provocando rappresaglie. Coltivano l’odio della popolazione che porta nuovi adepti al loro gruppo. Anche le rivalità tra le diverse fazioni dei Talebani sfociano spesso in attacchi armati. Poi ci sono gli scontri interetnici.

Quali scenari aprirebbe un collasso del governo?
L’ennesima guerra civile. Potrebbe succedere, ce l’aspettiamo, magari non subito. Per ora nessuno Stato estero ha interesse a eliminare i Talebani e loro staranno insieme finché avranno soldi da dividersi.

Da dove arrivano questi soldi?
Hanno i proventi del traffico di droga e del contrabbando, ci sono le tasse che riscuotono regolarmente. Per aumentarle, in questa situazione di crisi economica, incoraggiano molto le imprese private. Se porti denaro puoi aggirare anche le loro regole. La corruzione è altissima. Dalle Nazioni Unite arrivano al governo 40 milioni di dollari a settimana, formalmente per l’aiuto umanitario. Sappiamo da nostre fonti come li dividono: ogni capo militare prende la propria parte e la distribuisce alle sue milizie e per la gente affamata rimane molto poco. I Talebani non fanno nessun report di spesa all’Onu. È probabile che, nelle clausole segrete degli accordi di Doha, fosse anche previsto il sostegno economico, per vie traverse, al governo installato con la partenza degli americani.

Ci sono ingerenze esterne all’Afghanistan?
I Paesi esteri usano le fazioni talebane per contrastare le altre potenze e proteggere i propri interessi. Oltre agli Stati Uniti ci sono Cina, Iran, Pakistan, Russia, i sauditi e i Paesi del golfo. Ognuno arma i suoi Talebani o i suoi jihadisti.

Come si sta muovendo la Cina?
Pechino è molto presente in Afghanistan, un’avanzata non gradita dagli altri competitor sul terreno, soprattutto dagli Usa. Hanno iniziato parecchi progetti soprattutto nel Nord per estrarre gas e petrolio. Poi ci sono litio, rame, ferro: si accordano con i Talebani per lo sfruttamento delle miniere. A Kabul hanno la loro ambasciata, ristoranti e alberghi. Lo scorso dicembre uno di questi è stato fatto saltare in aria.

Qual è il gioco del Qatar?
È sempre stato un mediatore tra Talebani e Usa, è sempre coinvolto in ogni trattativa e fa da ponte nel sostegno ai Talebani da parte degli americani. Anche questo, presumibilmente, era negli accordi segreti di Doha. Qatar, Emirati e Turchia hanno poi fornito soldi e protezione a molti warlords, come Mohamed Atta, o Dostum e a membri del passato governo, come Ashraf Ghani. Hanno lasciato il campo libero in cambio di una vita ricca e protetta in questi Paesi.

Prima di salutarlo gli chiediamo se si è fatto crescere la barba. “Non c’è un ordine preciso e io ne approfitto -risponde Nassim-. Con gli uomini i Talebani non sono così accaniti come lo sono con le donne, dipende da chi ti trovi davanti. Con la barba ‘giusta’ sei più tranquillo ma io continuo a tagliarla con soddisfazione, ogni mattina, e mi vesto come mi avete sempre visto: con jeans e maglione. Una piccola forma di protesta privata”.

Pubblicato su Altraeconomia n. 258

Cristiana Cella, giornalista, scrittrice, sceneggiatrice. Segue le vicende afghane dal 1980, quando entrò clandestinamente a Kabul, vietata ai giornalisti, per documentare la resistenza della città contro l’invasione russa.  Dal 2009 fa parte del Direttivo dell’Associazione Cisda (Coordinamento Italiano Sostegno donne afghane), ha partecipato a diverse delegazioni in Afghanistan. Ha pubblicato un libro: ‘Sotto un cielo di stoffa. Avvocate a Kabul’, edito da Città del Sole Edizioni.

L’8 marzo “clandestino” delle donne afghane che resistono ai Talebani

Buio. Temperature polari, neve, fango e ancora buio. Di sera la città scompare nell’oscurità. L’elettricità c’è raramente. Le luci stradali e quelle dentro le case sono spente. I passi incerti degli uomini per strada, come fantasmi. Resti di una vita che non c’è più. Miliziani ovunque, posti di blocco. Sono vestiti meglio i Talebani: buone divise, mezzi potenti, armi efficienti, ereditati dall’esercito e dagli americani. È questa la Kabul che ritrova Rehana, militante della Revolutionary association of the women of Afghanistan (Rawa) dopo una lunga assenza. Nemmeno nelle case si sta al sicuro. I miliziani arrivano, sono una cinquantina. Circondano un quartiere, chiudono le strade. Poi entrano nelle abitazioni e perquisiscono, buttano all’aria tutto. Dicono di cercare armi ma rovistano anche nella biancheria delle donne. Alcune tra le nostre amiche attiviste hanno subito questa avventura. Se sei da sola in casa, convocano un testimone maschio altrimenti non potrebbero entrare. Mostrano a tutti che hanno il controllo del Paese, seminano paura. E ci riescono benissimo.

La paura è entrata infatti nella pelle di tutti. Rehana racconta di averla davanti agli occhi ogni giorno quando prende l’autobus. Ha tempo di osservare dalla sua postazione di donna, schiacciata con le altre, in fondo. I posti buoni sono per gli uomini. Uomini spenti, sguardi opachi. Ascolta la desolazione, l’avvilimento, le storie delle donne. Si scambiano lo sconforto. Non c’è lavoro, non c’è da mangiare, niente per scaldarsi, non possono comprare nemmeno un pezzo di sapone per lavarsi. Le mamme si preoccupano per le figlie. Troppo vuoto nella mente. I disturbi psichici aumentano. Non c’è scuola, né lavoro, né distrazioni, né vita sociale. I Talebani si sono mangiati i loro sogni. Chiuse in casa, spesso una sola stanza, da mesi non possono uscire. È pericoloso: i miliziani possono portarsele via.

Dopo il devastante terremoto che ha colpito Turchia e Siria il 6 febbraio molti hanno preso d’assalto l’aeroporto di Kabul, con l’obiettivo di salire sugli aerei che partono per portare soccorso: file di automobili come nell’agosto 2021, tanti venivano anche da altre province. La Turchia è la meta da raggiungere a qualsiasi costo: i Talebani sono spiazzati, fanno fatica ad arginare l’assalto, si spara fino a tarda sera. La gente, in città, pensa che ci sia stato un attentato. Khader non è riuscito a partire: “Comunque qui si muore. Preferisco perdere la vita sotto le macerie di un terremoto che qui”.

Nel buio delle strade succede di tutto e al mattino si trovano i cadaveri. Il 9 febbraio, i Talebani hanno dichiarato di averne raccolti 148 nel corso del mese precedente. Si muore di freddo, di fame, di droga, per mano talebana, per l’aggressione da parte di un criminale, per omicidio, per attacchi suicidi.

La stessa cupa prigione è saldamente installata nella mente degli uomini. Sahar, insegnante, racconta cos’è successo nel suo quartiere a una famiglia che conosce di vista. Un padre, Faiz, ama sua figlia quindicenne (così dice): bella, istruita, allegra, ne è fiero. La sorveglia costantemente: lei è preziosa, il suo migliore affare. La vende in sposa, con suo grande profitto, a un suo collega, un uomo rispettabile, più anziano di lui.

Lei, Zahra, invece, ha altri progetti. È innamorata e si vede di nascosto con il suo fidanzato Amid, progettano la fuga. Ora che il padre l’ha promessa, non esce più. Il ragazzo di notte riesce a entrare nella sua stanza, vuole vederla. Sono vicini, si tengono le mani. Faiz, padre che ama sua figlia, controlla. La vita di Zahra gli appartiene, l’affare è già combinato. Tutta la casa controlla, anche i muri, gli scricchiolii, i pavimenti: tutte spie di Faiz. Allarmato, entra nella stanza, Amid scappa dalla finestra. Faiz prende il suo fucile e gli spara, ma ormai il ragazzo è sparito nel buio.

Così, si gira, con la furia negli occhi, mentre la figlia gli urla che vuole sposare Amid, solo lui. Non ci pensa molto, riempie il corpo della sua bambina di pallottole. Zahra viene uccisa. Il padre solleva il cadavere, così leggero e lo getta nel cortile. I vicini si affacciano, le donne urlano. Faiz è ancora lì, con il fucile in mano e spinge via con i piedi il corpo della figlia. I vicini, spaventati, denunciano l’omicidio alle autorità. Eccoli, i “giudici”, con il turbante di traverso, armati fino ai denti. Gli occhi accesi da chissà quale delirio. Vedono il corpo della ragazza, nessuno ha osato spostarlo. Entrano in casa dove la madre non smette di singhiozzare. Parlano con Faiz. Ascoltano, annuiscono. I vicini spiano dalle finestre. Escono nel cortile per assistere alla “giustizia talebana”’. Ecco, ora sarà frustato, arrestato, ucciso, si dicono. Se lo porteranno via. Se lo merita. Ma i Talebani si complimentano con lui, gli danno pacche sulle spalle, lo lodano senza ritegno: “Hai fatto il tuo dovere. Ora il tuo onore è salvo e la sharia rispettata. Tua figlia era una puttana”. Giustizia è fatta.

Oggi, in Afghanistan, i reati contro le donne non hanno nemmeno la dignità di essere delitti, sono comportamenti governati dalla sharia. Giustificati, accettati, accolti dentro la vita di ogni giorno. I codici cambiano e sono i Talebani a dettarli. La giustizia è sprofondata nel fanatismo. Oggi, nel silenzio del mondo, i Talebani fanno quello che vogliono. Impongono le loro pene: amputazioni, lapidazioni, frustate. E la voce delle donne, inascoltata, perde forza e si prosciuga. Sulle leggi che proteggevano le donne i Talebani non si esprimono nemmeno: per loro non sono mai esistite. Basta la sharia. Copre ogni caso sottoposto alla giustizia. La violenza degli uomini non è più un crimine, tanto meno quella domestica, non è oggetto di alcuna sanzione, è colpa delle donne che non hanno saputo servire bene i loro mariti. L’impunità nutre gli abusi, si annida nelle case, diventa a poco a poco la regola, un tarlo, una malattia. Il triste potere di annichilire devasta il cervello e l’anima degli uomini. Imprigiona la loro mente più del corpo delle donne.

Chi ha difeso le donne è sotto tiro: avvocate, giudici, procuratrici, vivono nascoste sotto continua minaccia di morte. Sono conosciute e rischiano molto. Non basta impedire loro di lavorare, per i Talebani vanno eliminate. Soprattutto per quei padri e quei mariti che, a causa loro, erano stati imprigionati. Questi uomini sono stati tutti liberati dai Talebani, già nella loro corsa verso Kabul nell’agosto 2021. Ex prigionieri e combattenti hanno saccheggiato le case di donne giudici. E vogliono la loro vendetta. “Pochissime si rivolgono alle corti talebane per i loro problemi -dice Mirwais, avvocato penalista-. Per i nuovi governanti le donne non valgono nulla e tutte le decisioni vengono prese in loro assenza, in corti improvvisate, alla presenza degli anziani della tribù e della famiglia, solo maschi. Sono le vittime a rischiare: sanzioni, prigione o violenze sessuali da parte dei giudici”. La stampa non c’è più ma qualche notizia sulla “giustizia talebana” filtra sui social network. Ci sono state donne lapidate in diverse province, in quella di Badakhshan in particolare. A Ghowr una donna si è suicidata per sfuggire a questa crudele esecuzione. Nella provincia di Takhar, 40 giovani sono stati frustati in mezzo alla strada e messi in prigione per non aver osservato le prescrizioni su hijab e barbe. Scendere in strada è come andare in guerra.

L’8 marzo in Afghanistan non c’è nulla da festeggiare. Non c’era nemmeno nei vent’anni passati quando, tranne poche eccezioni, la giustizia per le donne restava una chimera. Ma le militanti afghane che si battono per i diritti delle loro sorelle ci tengono molto a celebrare questa festa. Per loro è sempre stato un giorno importante e lo è ancora. “Serve a ricordarci le vittorie delle donne -dice Gulnaz, militante di Rawa-. Se loro ce l’hanno fatta, ce la faremo anche noi. Ci vorrà molto tempo ma le cose cambieranno. Oggi sappiamo che continueremo a combattere, con le armi della consapevolezza, dell’istruzione, della cura, della resistenza e con la forza della vita stessa. È questa che dobbiamo celebrare oggi”. Rawa e le altre associazioni di donne continuano a lottare. Trovano ogni escamotage per realizzare quello che serve: scuole, rifugi, ambulatori. Tutto segreto, per una vita che non si fa schiacciare. Continuano a inventare e a dare speranza alle donne. Rawa ci sarà l’8 marzo: le militanti arriveranno per l’occasione addirittura da altre province. Nonostante tutto, nei modi più fantasiosi, riusciranno ad affermare la certezza che qualcosa si può sempre fare per arginare l’orrore e nutrire la forza delle donne. Un giorno di coraggio che, ancora, i Talebani e gli altri tagliagole non sono riusciti a devastare.

Pubblicato su Altraeconomia n. 257

Cristiana Cella, giornalista, scrittrice, sceneggiatrice. Segue le vicende afghane dal 1980, quando entrò clandestinamente a Kabul, vietata ai giornalisti, per documentare la resistenza della città contro l’invasione russa.  Dal 2009 fa parte del Direttivo dell’Associazione Cisda (Coordinamento Italiano Sostegno donne afghane), ha partecipato a diverse delegazioni in Afghanistan. Ha pubblicato un libro: ‘Sotto un cielo di stoffa. Avvocate a Kabul’, edito da Città del Sole Edizioni.

Podcast Libere su Cristina Cattafesta

Il cuore di Cristina Cattafesta batteva per le donne afghane, con le quali si schierava e per le quali combatteva rivendicando i loro diritti: prima di tutto, la loro libertà. Fondatrice del CISDA, Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane, oggi Cristina è ancora capace di ispirare le nuove generazioni.

Il podcast, realizzato da Officine del Podcast, è inserito nella raccolta Libere, storie di donne uniche, talentuose e caparbie, irrequiete e coraggiose, controcorrente. Libere.

Sulla pelle degli afghani si disputa un nuovo “grande gioco”, al ribasso

Una piccola mossa diversiva sullo scacchiere internazionale della grande partita afghana e l’esistenza insignificante di milioni di donne e bambini precipita in un baratro. “Quando scende la notte, tutti teniamo gli occhi fissi sulla porta, nella speranza che magari qualcuno ci porti qualcosa da mangiare”, racconta Fatima, mamma di tre figli che non riesce più a sfamare, a un’attivista di una Ong locale che a sua volta ha perso il lavoro a causa del decreto emesso dai Talebani a fine dicembre in cui si vieta alle donne di svolgere anche questo tipo di attività.

La nostra fonte ci racconta poi la storia di una collega, Sanam, impiegata in un’altra Ong locale, che come lei ha perso il lavoro: il marito è disoccupato e tossicodipendente, lei ha terminato con grande fatica i suoi studi e questo le ha permesso di mantenere i suoi tre figli (Ali, Zia e Hamad) che sono ancora piccoli e vanno a scuola. “Dopo la proibizione del lavoro femminile nelle istituzioni non governative, non abbiamo niente da mangiare anche per un giorno intero -è il racconto di Sanam-. Io ho incubi la notte e talvolta parlo da sola. Mi sento molto depressa e appena chiudo gli occhi vedo il giorno in cui moriremo tutti di freddo e di fame. Ogni giorno, senza eccezione, mio marito mi picchia perché non ci sono soldi in casa. Se non fosse per i miei figli non ci penserei un momento e metterei fine alla mia vita miserabile. La morte è peggio di questa vita?”.

In Occidente i commentatori di geopolitica discutono sul perché, nel volgere di pochi giorni, i Talebani abbiano deciso di aggiungere altre due assurde proibizioni alla lunga lista che impedisce alle donne afghane di esistere. Il 20 dicembre 2022 il ministero dell’Istruzione ha promulgato il divieto per le studentesse di frequentare le università pubbliche e private, comprese le facoltà in cui la loro presenza era ancora tollerata. Nemmeno le ragazze ormai vicine alla laurea -e che nel volgere di pochi anni avrebbero potuto garantire servizi essenziali alla popolazione- potranno continuare a studiare. Due giorni dopo, il 24 dicembre, è stata la volta del ministro dell’Economia che ha vietato alle donne di lavorare anche nelle Ong (internazionali e soprattutto locali) anche per quei residui interventi volti a contenere la catastrofe umanitaria che travolge il Paese.

Scelte suicide, da parte di uno Stato che rischia seriamente di collassare completamente. Perché queste scelte e perché adesso? Secondo la BBC persian, tra agosto e novembre 2022 le istituzioni internazionali hanno consegnato al governo di Kabul 560 milioni di dollari. Per le Nazioni Unite i Talebani hanno cercato sempre più di indirizzare queste risorse verso uomini a loro fedeli. Così, mentre i funzionari pubblici continuano a non essere pagati (benché il loro numero sia molto ridotto e l’amministrazione sia quasi inesistente) i soldi sono stati utilizzati per finanziare la sicurezza (ovvero le milizie talebane, unica opportunità di lavoro per uomini ridotti alla fame) e per risarcire le famiglie degli attentatori suicidi. Alla popolazione neanche le briciole. Ma molti più posti di blocco lungo le strade, dove ormai le donne non si vedono più.

A fine novembre 2022 si è riunito a Ginevra il consiglio di amministrazione del Fondo fiduciario per l’Afghanistan (Afghan fund) per discutere dell’impiego di 3,5 miliardi di dollari (su un totale di 7,1 miliardi di riserve estere di Kabul congelate dopo la presa del potere dei Talebani) che potrebbero essere sbloccati per coprire i pagamenti del debito afghano alle istituzioni finanziarie internazionali. Oltre che per pagare le importazioni di energia, la stampa dei passaporti e altri servizi, stabilizzando inoltre la valuta locale. Anche se, secondo la Banca mondiale, la valuta locale si starebbe già stabilizzando grazie ad altre entrate dei Talebani e questo intervento non sarebbe necessario.

Tra i quattro fiduciari del Fondo, oltre all’ambasciatore statunitense in Svizzera e a una funzionaria del ministero degli Esteri elvetico, compaiono un ex governatore della Banca centrale afghana e un accademico statunitense che fa parte del Consiglio supremo dell’istituto. Vale la pena ricordare che durante gli anni dell’occupazione occidentale il sistema finanziario afghano si è rivelato estremamente permeabile alla corruzione.

L’episodio più eclatante è stato il fallimento della Kabul bank, fondata nel 2004 e coinvolta sei anni dopo in uno scandalo epocale: i signori della guerra al potere, sostenuti dalla Nato, hanno fatto sparire quasi un miliardo di dollari. L’indagine giudiziaria che ne è seguita ha le tinte fosche di un thriller, come testimonia il documentario “Inside the billion dollar Kabul Bank crash” di Al Jazeera. “Il disastro bancario ha colpito i risparmi di molte famiglie afgane e ha lasciato un’eredità che ha contribuito agli eventi in Afghanistan a distanza di anni”, denuncia l’emittente. Che ben documenta, grazie a WikiLeaks, anche le responsabilità degli Stati Uniti nel coprire i principali responsabili, per i loro strettissimi legami con il governo afghano allora in carica, così da evitare che lo scandalo compromettesse totalmente la credibilità del sistema politico-finanziario a tutela occidentale.

Le trattative in corso a Ginevra mostrano come, a fine 2022, i rapporti tra Washington e Kabul si stiano distendendo. Il ministro della Difesa afghano ha cavalcato questa apertura, recandosi in visita negli Emirati Arabi, dove ha incontrato il 6 dicembre scorso il primo ministro Mohammed bin Rashid Al Maktoum per discutere di affari e della possibilità di un governo “più inclusivo”. Una prospettiva caldeggiata dagli Usa e da parecchi governi occidentali, che vorrebbero poter superare il mancato riconoscimento diplomatico del regime che gli stessi hanno aiutato a reinsediarsi a Kabul con la firma degli accordi di Doha. L’obiettivo finale sembra essere quello di contrastare gli ottimi affari che i loro concorrenti internazionali stanno negoziando con i Talebani. Il 7 gennaio 2023 la Cina ha firmato un contratto della durata di 25 anni per l’esplorazione e l’estrazione di petrolio intorno al fiume Amu nel Nord dell’Afghanistan: un investimento da 540 milioni di dollari nei primi tre anni. A questo si aggiungano altre trattative commerciali in corso tra i Talebani e la Russia, l’Iran, la Turchia, il Pakistan, l’Arabia Saudita, potenze regionali in concorrenza con l’Occidente.

Il rischio di venire tagliati fuori da ricchi affari ammorbidisce l’intransigenza di facciata dei governi europei e di quello statunitense. Questi ultimi devono fare un minimo i conti con la propria opinione pubblica, rispetto alle violazioni dei diritti umani (con una particolare attenzione alla condizione femminile) da parte dei talebani: per questo motivo non sono nelle condizioni di riconoscere apertamente il governo talebano senza prima ricevere segnali di ravvedimento sui provvedimenti contro le donne e apertamente contrari al diritto, adottati dall’estate 2021 in poi.

In questo terribile gioco al ribasso, le fazioni più radicali dei Talebani puntano sulla possibilità di rafforzare il proprio peso all’interno delle diverse correnti del loro stesso governo. Così mentre il loro ministro della Difesa a Dubai discute della possibilità di un governo “inclusivo” a Kabul vengono promulgati nuovi editti a spese delle donne. “Un governo ‘inclusivo’ sarebbe una catastrofe -ci dicono le attiviste di Rawa (l’Associazione rivoluzionaria delle donne dell’Afghanistan)-. Significherebbe includere esponenti del passato regime, fondamentalisti e misogini quanto i Talebani. E proprio in quanto tali disposti a condividere con loro il potere. E non sarebbe un vantaggio per le donne afghane nemmeno se tra loro sedessero anche esponenti femminili, legate a quelle famiglie e a quei partiti: la loro presenza servirebbe solo a legittimare il sistema vigente, senza portare alcuna differenza sostanziale.”

Nelle cancellerie occidentali i principi dell’autodeterminazione e della democrazia non trovano applicazione quando si tratta di definire l’assetto politico di un Paese come l’Afghanistan. Prospettare come soluzione un “governo inclusivo”, senza domandarsi come questo possa definirsi rappresentativo della volontà della maggioranza della popolazione, significa proseguire sulla linea di condotta che ha consentito il ritorno dei Talebani. Significa negare alle organizzazioni anti-fondamentaliste, in particolare a quelle che sono espressione delle donne, come Rawa, la possibilità di far sentire la propria voce. “Il suo nome è Fatima, ma viene chiamata mamma-di-Zahir, perché in Afghanistan non è comune per una donna mantenere il proprio nome, dopo la nascita di un figlio maschio. Fatima ha tre bambini: Zahir, il più piccolo, Samia (15 anni) e Halima (nove). Sette anni fa Fatima ha perso suo marito in un incidente stradale e per tutto questo tempo si è guadagnata da vivere come ricamatrice -ci racconta un’attivista afghana-. La sua unica speranza erano le figlie, che ha sempre mandato a scuola in modo che un giorno potessero proseguire gli studi e trovare un buon lavoro”.

Ma con il ritorno dei Talebani, le porte delle scuole si sono chiuse per le ragazze e l’unica speranza di Fatima si è spenta: le sue figlie non possono più studiare, inoltre con la miseria e la disoccupazione che ha colpito il Paese, nessuno consegna più qualcosa da ricamare a Fatima. Oggi la donna e i suoi bambini vivono in una piccola stanza umida, senza bagno né cucina. Passano giorni e notti interi sopportando i morsi della fame; qualche volta i vicini offrono loro un po’ del proprio cibo.

Attraverso il racconto dell’attivista è possibile ascoltare l’eco terribile della parole di Fatima: “Quando scende la notte, tutti teniamo gli occhi fissi sulla porta, nella speranza che qualcuno ci porti qualcosa da mangiare. A vedere i miei figli che tremano, esausti per la fame e il freddo, faccio esperienza della morte più e più volte, ogni momento. C’è un corso clandestino di alfabetizzazione vicino casa mia. Vado a seguire questo corso con le mie figlie per due ore al giorno. Quando l’insegnante ha detto a Samia e Halima di non venire più, perché loro erano già state studentesse e non avevano bisogno di imparare a leggere e scrivere, ho spiegato che noi venivamo lì per riscaldarci almeno due ore al giorno. Io vedo i miei figli morire ogni secondo e vorrei ogni secondo non essere mai nata”.

Pubblicato su Altraeconomia n. 256

Gabriella Gagliardo è un’attivista di CISDA

Parliamo di donne in Afghanistan con Reha Nawin e Silvia Ricchieri

Podcast realizzati dall’Associazione Orlando di Bologna dedicati alla situazione delle donne in Afghanistan che dopo il ritorno dei talebani nell’agosto 2021 quei pochi diritti faticosamente e lentamente conquistati sono stati cancellati.

L’associazione Orlando ne parla in questo podcast con Reha Nawin, sociologa afghana e attivista per i diritti umani ora rifugiata in Italia, e con Silvia Ricchieri, cooperante di COSPE, una Ong dal 2002 attiva in Afghanistan e in Italia in progetti a sostegno delle donne afghane.