Skip to main content

Autore: Patrizia Fabbri

“Sono in molti a doversi vergognare per la distruzione dell’Afghanistan”

Bilqis Roshan, ex senatrice impegnata per i diritti delle donne, è dovuta fuggire dal Paese. Continua a denunciare i crimini dei Talebani e le responsabilità dei governi stranieri che li sostengono, ancora oggi. L’abbiamo intervistata.

Beviamo tè allo zafferano in tazze di porcellana bianca con il marchio in oro del Parlamento afghano. La stanza è grande con poltrone in stile barocco (qui piace molto) e grandi mazzi di fiori finti, impacchettati nella plastica. Un edificio sontuoso, che ricorda un castello medioevale, adornato da marmi, colonne, cupole di rame e vetro costruito con soldi indiani. Con lo stesso stile è stato realizzato l’edificio di fronte: il palazzo reale di Darul Aman, appena inaugurato. Delle spettrali rovine, ricordo della guerra civile, che sovrastavano la città non c’è più traccia. Era il 2019 ed ero a Kabul per incontrare Bilqis Roshan, senatrice del Parlamento afghano dal 2011 e attivista per i diritti delle donne. La gente la saluta con rispetto quando la incontra: “Quando gli americani se ne andranno daranno l’Afghanistan in regalo ai Talebani su un piatto d’argento”.

Quella previsione si è avverata: “Come vedi, avevo ragione”, racconta Roshan quattro anni dopo. Oggi è riuscita ad arrivare in Europa ed è salva.

Roshan, come ricordi il 15 agosto del 2021?

Ero nel mio ufficio al Parlamento. C’era molta tensione. Il futuro stava arrivando e non aveva una bella faccia. L’avanzata dei Talebani proseguiva inesorabile. Kabul stava per essere consegnata nelle loro mani. Poi è arrivata la notizia: hanno preso Surobi, cittadina a sessanta chilometri dalla capitale, lungo la strada per Jalalabad. Sarebbero potuti entrare nel mio ufficio in una manciata di ore. I Talebani mi minacciavano da anni e non era una buona idea farsi trovare lì e quindi me ne sono andata subito, con il mio autista. La città era irriconoscibile, non avevo mai visto una cosa simile: migliaia di macchine, mezzi militari, persone che correvano, un caos spaventoso. La notizia aveva innescato il panico, che pareva inarrestabile. Non si avanzava di un millimetro. Sono scesa dalla macchina e ho proseguito a piedi, per due ore, per arrivare a casa.

Che ne è stato dei tuoi colleghi?

Alcuni sono rimasti, erano Talebani o comunque dalla loro parte e li hanno aspettati a braccia aperte. Per chi aveva partecipato agli Accordi di pace in Qatar, gli americani avevano già programmato da tempo il protocollo per lasciare il Paese: passaporti, visti, biglietti aerei. Sono partiti in fretta. È stato così per tutti i signori della guerra e i membri del governo.

Anche per le tue colleghe?

Sì. Quelle parlamentari come Fawzia Koofi e altre deputate, che giuravano sul cambiamento positivo dei Talebani, sul loro rispetto dei diritti delle donne sono state le prime a scappare. La maggior parte delle parlamentari erano solo dei burattini in mano agli ex presidenti Hamid Karzai e Ashraf Ghani, non hanno mai lavorato per migliorare la condizione delle nostre donne. Ti racconto un episodio. Nell’agosto 2020, si è svolta una loya jirga (la tradizionale assemblea del popolo afghano con più di tremila delegati, ndr) in cui si doveva decidere se liberare gli ultimi 400 Talebani ancora detenuti: i più pericolosi tra i cinquemila già scarcerati nell’ambito delle trattative per gli Accordi di pace in Qatar. I Talebani ne pretendevano il rilascio, minacciando ritorsioni, per iniziare i colloqui intra-afghani di pace e gli americani premevano in questa direzione. Mentre parlava Ghani io mi sono alzata con un cartello: “Liberare questi selvaggi Talebani è un tradimento del nostro Paese”. Sono stata attaccata dalle mie colleghe, insultata, aggredita fisicamente e cacciata dall’assemblea. Questa vergognosa liberazione è stata approvata con il loro sostegno. Dovrebbero chiedere scusa alle donne del loro Paese per averle consegnate ai Talebani.

Quando hai deciso di andartene?

Non volevo partire. Speravo ancora di poter fare qualcosa per la mia gente. Poi, giorno dopo giorno, la gabbia si è chiusa intorno a noi. Alla fine, il 13 febbraio 2023, amici e sostenitori mi hanno pregato di andarmene: stava diventando troppo pericoloso e comunque non riuscivo più ad aiutare nessuno. Dopo l’arrivo dei Talebani a Kabul ho dovuto vivere nascosta, cambiare casa ogni due o tre giorni. I miei sostenitori mi ospitavano, ma la mia presenza li metteva in pericolo. Ero sempre in ansia per loro. Mi sentivo soffocare.

È difficile stare lontana dal tuo Paese?

È molto duro. Ascoltare le terribili notizie che mi raggiungono, tagliata fuori da tutto, è estremamente frustrante.

Cosa ti manca di più?

Il legame forte che ho costruito con la mia gente. Ero la loro voce, li ascoltavo e li potevo aiutare con la posizione di potere che avevo in Parlamento. Non poterlo più fare è molto triste.

Nei mesi in cui sei rimasta a Kabul, hai visto qualche possibilità di resistenza organizzata ai talebani?

Prima o poi il mio popolo inizierà una resistenza. Il 90% della popolazione odia i Talebani. La situazione è insostenibile: si vive nella paura, ogni valore di umanità è sparito. Forse ci vorranno dieci anni, o venti, o anche cento ma dovrà emergere una ribellione organizzata. Non c’è un’altra strada, l’unico modo è quello di resistere ai Talebani, di cacciarli. Nessuna nazione può essere liberata dagli altri. È una responsabilità nostra quella di ottenere la libertà, ce lo insegna la storia degli ultimi decenni.

In quale scenario i Talebani potrebbero cadere?

Se non fossero sostenuti dagli Stati Uniti non resisterebbero più di due mesi. Non hanno nessuna base popolare. Hanno il problema dei finanziamenti e dei conflitti interni che stanno crescendo. Ma il punto principale è un altro. I Talebani non sono una forza indipendente costruita su una base di consenso popolare. Tutto quello che fanno è suggerito o imposto dalle intelligence dei loro vari padroni: Stati Uniti, Qatar, Pakistan e Arabia Saudita. Fanno parte di un gioco orchestrato da Washington. Sia i Talebani sia il governo precedente sono burattini nelle mani dello stesso padrone: quando non soddisfano più le aspettative vengono sostituiti. Era stato così anche nel precedente periodo talebano. Tra un po’ potrebbero anche tornare i warlords che si tengono pronti con tutti i loro soldi rubati e le loro armi. Nessuna pedina viene completamente scartata. Possono sempre servire.

Al di là della propaganda, di questi vent’anni di presenza occidentale non è rimasto molto.

No, lo abbiamo visto. Tutto quello che è stato costruito in vent’anni è un castello di carte. I miliardi spesi, le vite umane, l’addestramento delle truppe, la cosiddetta democrazia, il Parlamento in cui ho lavorato, tutto è collassato in un solo giorno. Nessuna base reale, tutto è stato fatto solo per gli interessi strategici degli Stati Uniti e della Nato. A noi è rimasta la cenere.

Pensi che i Talebani verranno riconosciuti, prima o poi, dalla comunità internazionale?

Si sta preparando il terreno. Le Nazioni Unite, ad esempio, fanno molte pressioni su Kabul affinché venga revocato il divieto alle ragazze di frequentare la scuola. Importante, certo, ma non l’unica tragica conseguenza del governo talebano. Focalizzare tutto su questo problema è una tattica pericolosa. Può diventare un punto di scambio: se i talebani decideranno di riaprire le scuole, allora la comunità internazionale dovrà accettarli. E gli altri crimini non verranno più presi in considerazione.

I warlords sono scappati ma i gruppi terroristici no. È così?

L’Isis Khorasan (Isis-K) continua ad attaccare i Talebani e ci sono spesso attentati contro i civili: è il nuovo nemico, il nuovo spauracchio. La propaganda ci dice: state con i Talebani altrimenti l’Isis verrà nelle case a rapire le vostre mogli. Almeno i Talebani questo non lo fanno. Ma ci sono altri gruppi. Il mio Paese sta diventando un hub dei terroristi. Una sorta di supermercato in cui qualunque Stato estero può comprare le sue milizie (talebane o altre) e usarle per i propri interessi. Un addestramento che inizia dalla scuola.

Le scuole per i bambini maschi sono madrase?

In pratica sì. Sono incubatrici di terrorismo. Mentre nelle moschee propagandano le loro feroci regole contro le donne, nelle scuole i Talebani insegnano solo il Corano, la sharia, l’uso delle armi, la loro Storia: gli attentati suicidi che hanno commesso, glorificano i martiri che si sono fatti esplodere, insegnano quanti morti e quali vantaggi questi attentati abbiano portato. Un lavaggio del cervello.

Quali sono adesso i tuoi progetti?

Non sono qui per fare una vita tranquilla e in disparte. Sarò presente ovunque si possa parlare di Afghanistan per far conoscere la vera realtà del mio Paese. Voi però, dovete spiegare alla vostra gente, in America e in Europa, che i loro soldi non sono stati usati per il popolo afghano ma per sostenere warlords, Talebani e criminali. Della distruzione del mio Paese sono in molti a doversi vergognare.

Bilqis Roshan è stata membro del Parlamento afghano. Nell’agosto 2020 si è opposta alla liberazione di 400 Talebani detenuti nel Paese (uno dei punti previsti dagli Accordi di pace in corso in Qatar) ed è stata duramente attaccata anche da altre deputate.

Pubblicato su Altreconomia n. 261

Cristiana Cella, giornalista, scrittrice, sceneggiatrice. Segue le vicende afghane dal 1980, quando entrò clandestinamente a Kabul, vietata ai giornalisti, per documentare la resistenza della città contro l’invasione russa.  Dal 2009 fa parte del Direttivo dell’Associazione Cisda (Coordinamento Italiano Sostegno donne afghane), ha partecipato a diverse delegazioni in Afghanistan. Ha pubblicato un libro: ‘Sotto un cielo di stoffa. Avvocate a Kabul’, edito da Città del Sole Edizioni.

Chi ha spianato la strada ai fondamentalisti in Afghanistan

Khost 1980. Il buio e la fatica si portano via le ultime parole stanche dei combattenti. Si sistemano per la notte, posando il fucile accanto a loro, accudendolo come un bambino. La cena (riso, yogurt e uva) offerta dal comandante Bul Bul è un miracolo, tra i buchi profondi delle bombe, gli echi di qualche assalto notturno, in quello sperduto villaggio diventato il suo quartier generale. “I russi sono già passati di qui, per questo è un posto sicuro -dice mentre sorride, con un sorriso che fa quasi luce-. Quando tornerai, l’anno prossimo, ti farò fare il giro dell’Afghanistan su un elicottero russo. Sarà bellissimo e non dovrai più camminare a piedi!”. Guardiamo insieme quel piccolo sogno. Nessuno di noi ci crede. “Davvero -insiste- in un paio di mesi prenderemo Khost”.

È per questo che siamo qui. La città è in fondo alla valle, la vediamo. Il bersaglio: l’aeroporto, con gli MI24, micidiali elicotteri russi da combattimento. Abbiamo passato la giornata a spiarne i movimenti. La notte seguente ci sarà battaglia. Bul Bul mi spiega i dettagli dell’assalto: “Da quella collina potrai vedere bene gli MI24 che saltano in aria”. Come per un programma di fuochi artificiali. Il comandante Bul Bul (il primo a sinistra nella fotografia di apertura scattata da Cristiana Cella nel 1980) fa parte in segreto del Fronte nazionale unito, una formazione che raggruppa laici, democratici, militanti di sinistra e islamici moderati. Combattono i russi ma anche i gruppi fondamentalisti -che si sono stabiliti a Peshawar, in Pakistan- e stanno diventando sempre più forti, terrorizzando la popolazione dei villaggi che attraversiamo.

Una guerra su due fronti, difficile da reggere con poche armi, soldati contadini senza esperienza militare e comandanti più abituati ai libri che ai fucili. Così, come altri militanti, Bul Bul sceglie di infiltrarsi in gruppi islamisti ben armati e numerosi, prendere il controllo di un piccolo esercito personale e aiutare altre formazioni che combattono con le sue stesse idee. È un capo rispettato e porta la sua guerra anche nelle menti delle persone. Una preziosa opportunità. Mostra loro il futuro dell’Afghanistan, libero, democratico, dove l’uguaglianza dei diritti di uomini e donne e di afghani di tutte le etnie sia la base per un futuro di pace. L’antidoto al veleno integralista, venuto da oltre confine, che comincia a circolare. Le sue previsioni sono lucide e puntuali, non c’è spazio per le illusioni.

“La guerra sarà lunga e sempre più violenta. Alla fine, i russi se ne andranno. Ma se, al posto loro, arriveranno i mujaheddin, sarà molto peggio. Sono come cani furiosi e fanatici, si azzanneranno tra loro portando alla rovina tutto il Paese”. Purtroppo è andata proprio così. Il doppio fronte di guerra si porterà via più di 60mila militanti laici, democratici e islamici moderati. In Afghanistan qualcuno li chiama ancora “i veri mujaheddin”, contrapponendoli ai jihadi, capi delle fazioni fondamentaliste. È all’interno di queste famiglie di combattenti che sono cresciuti gli uomini e le donne liberi che oggi contrastano i talebani in una impari lotta di resistenza.

Qualche mese prima del nostro incontro con Bul Bul, nella primavera del 1979, molto lontano dalle montagne afghane, negli uffici della Cia stava prendendo piede una nuova idea che sarebbe costata agli americani alcuni miliardi di dollari. Ai primi di marzo di quell’anno, l’agenzia d’intelligence statunitense trasmette le sue segretissime proposte al presidente Jimmy Carter per un sostegno ai ribelli afghani anticomunisti. Il piano rimane a lungo sospeso nell’incertezza. A seguito della rivoluzione khomeinista, gli Usa hanno perso il sostegno dell’Iran e l’idea di rivolgere contro l’Unione sovietica il fondamentalismo agguerrito che si presenta sulla scena afghana sembra allettante.

Le rivolte contro il Governo comunista a Kabul, intanto, diventano sempre più violente e vengono represse nel sangue. Il 3 luglio Carter autorizza l’operazione: la Cia avrebbe appoggiato i ribelli, ma senza l’invio diretto di armi per mettersi al riparo da eventuali rappresaglie russe. “Zbigniew Brzezinski, consigliere per la Sicurezza nazionale, aveva già tracciato le linee di una campagna americana diretta dalla Cia in Afghanistan che sarebbero rimaste in vigore per il decennio successivo”, scrive Steve Coll, all’epoca codirettore del Washington Post. A Natale è già chiaro che i ribelli vanno sostenuti, consigliati e soprattutto armati attraverso il servizio segreto pakistano e il suo governo, altrimenti non sarà possibile fermare i russi. È questa la nuova brillante mossa della Guerra fredda.

Nel gennaio 1998, in un’intervista al settimanale francese Nouvel Observateur, Brzezinski rivela: “Avevo spiegato al presidente che il nostro sostegno avrebbe prodotto un intervento militare russo in Afghanistan. Non abbiamo spinto l’Unione sovietica a intervenire ma abbiamo consapevolmente aumentato le probabilità che lo facessero. È stata un’eccellente idea attirare i russi nella trappola afghana. Il giorno in cui l’Armata rossa ha attraversato la frontiera ho scritto al presidente che avremmo avuto la possibilità di dare alla Russia il loro Vietnam”. Un vero “successo” per gli americani. L’inizio di una catastrofe, per la popolazione afghana, che durerà più di quarant’anni. Alla domanda del giornalista sulla sua responsabilità nell’avere sostenuto il terrorismo islamista Brzezinski risponde: “Che cos’è più importante per la storia del mondo? I talebani o la caduta dell’Impero sovietico? Qualche esaltato islamista o la liberazione dell’Europa centrale e la fine della Guerra fredda?”. L’ipotesi dell’affermazione dell’islamismo integralista e del terrorismo sono sciocchezze, liquida deciso.

In molti hanno seguito la sua strada. Nessuno, nei decenni successivi, ha voluto prendere atto di questo pericolo, nessuno ha voluto fermare gli jihadisti. Anzi, i fondamentalisti islamici si sono confermati le migliori pedine del gioco dell’Occidente in Afghanistan e in altri Paesi. Così sui fanatici e feroci gruppi afghani pioveranno armi, denaro e consigli militari per i prossimi decenni. Il loro Islam fondamentalista e politico, ispirato all’ideologia wahabita saudita, la più estrema, si insinuerà nelle menti e nella vita di milioni di persone, cambiando profondamente la società afghana e soprattutto esiliando sempre di più le donne dalla vita sociale.

Quei warlords, divenuti ormai criminali di guerra, dopo le sanguinose gesta che li avevano visti protagonisti durante il conflitto civile sono rimasti al potere, sostenuti dagli invasori americani, fino all’agosto 2021, quando il Paese è stato consegnato ai loro rivali talebani. Di nuovo, il fondamentalismo islamico, che non è nato tra queste montagne, armato e sostenuto dall’Occidente ha vinto. Quell’idea della Cia, nel lontano 1979, ha fatto strada, mettendo in moto e accompagnando l’orrore. Con le conseguenze che tutti possiamo vedere e pochi vogliono guardare. Un popolo intero è chiuso in gabbia, la miseria uccide la popolazione, la paura fa parte della vita quotidiana di milioni di persone, ne corrode l’anima e la mente, la brutalità e l’ignoranza governano il Paese con leggi ottuse e paranoiche che seppelliscono le donne, ogni giorno il respiro è più corto. Tutto questo, forse, Bul Bul, comandante onesto e coraggioso, non lo aveva previsto.

Pubblicato su Altraeconomia n. 260

Cristiana Cella, giornalista, scrittrice, sceneggiatrice. Segue le vicende afghane dal 1980, quando entrò clandestinamente a Kabul, vietata ai giornalisti, per documentare la resistenza della città contro l’invasione russa.  Dal 2009 fa parte del Direttivo dell’Associazione Cisda (Coordinamento Italiano Sostegno donne afghane), ha partecipato a diverse delegazioni in Afghanistan. Ha pubblicato un libro: ‘Sotto un cielo di stoffa. Avvocate a Kabul’, edito da Città del Sole Edizioni.

Un dialogo tra Italia e Afghanistan su diritti delle donne e laicità

La decisione, adottata da Erdoğan nel 2020, di ritirare la Turchia dalla Convenzione di Istanbul segna una svolta. Cisda e Trama di Terre sottolineano l’urgenza di sensibilizzare l’opinione pubblica sulla reale natura dell’Islam politico

Cisda e Trama di Terre di Imola (associazione interculturale impegnata a consolidare le relazioni tra donne native e migranti e a contrastare le discriminazioni e la violenza maschile in tutte le sue forme) celebrano il 12esimo anniversario della firma della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica (nota come Convenzione di Istanbul) su Altreconomia, con una conversazione tra Maria Cristina Rossi, attivista di Cisda e Tiziana Dal Pra, fondatrice di Trama di Terre, attivista e formatrice.

Cristina/Cisda. Come associazione femminista impegnata dall’epoca del primo governo talebano a sostenere le organizzazioni che in Afghanistan combattono la violenza maschile contro le donne e il fondamentalismo religioso, guardiamo con preoccupazione agli esiti del recesso dalla Convenzione imposto alla Turchia dal presidente Recep Tayyip Erdoğan nel 2020. Lo scenario è inquietante: la presenza di Istanbul garantiva nella sostanza e sul piano simbolico, un ponte tra Europa, Asia e il resto del mondo, indispensabile per combattere la violenza a livello transnazionale.

Tiziana/Trama di Terre. La Convenzione, strumento essenziale per i suoi quattro obiettivi (prevenire, proteggere, perseguire e politiche integrate) e per il suo carattere vincolante rinforzato da un organismo di monitoraggio, introduce nuove tipologie di reato per molti dei Paesi firmatari quali le mutilazioni genitali femminili, lo stalking, l’aborto forzato, la sterilizzazione forzata e il matrimonio forzato, di cui la nostra associazione si occupa dal 2009 a seguito delle prime segnalazioni, raccolte con l’aiuto di mediatrici culturali e in collaborazione con la Regione Emilia-Romagna. Nel 2010 dopo una missione in Marocco, da cui proveniva allora il maggior numero di donne di origine straniera residenti sul territorio e dove i matrimoni precoci erano moltissimi, abbiamo aperto la prima casa rifugio per ragazze in fuga dalle unioni forzate e dal controllo familiare e comunitario.

Le nostre antenne sono soprattutto le insegnanti. Ci contattano quando una loro allieva ha paura che i genitori non le permetteranno di rientrare in Italia dopo le vacanze. Il solo biglietto di andata in tasca è un segnale. La voce gira ormai tra le giovani di seconda generazione, alcune temono di essere costrette a sposare un proprio parente una volta rientrate nel Paese d’origine. I casi che hanno trovato risonanza sulla stampa italiana riguardano ragazze di origine pakistana, ma gli omicidi di Hina Saleem (nel 2006), di Sana Cheema (nel 2018) e di Saman Abbas (nel 2021) sono solo la punta di un iceberg.

Come si evince dal report “Global estimates of modern slavery: forced labour and forced marriage”, curato da Organizzazione mondiale per le migrazioni, Organizzazione internazionale per il lavoro e Walk free, 22 milioni di persone sono state costrette al matrimonio forzato nel 2021. Un fenomeno in crescita, strettamente legato a consuetudini e pratiche patriarcali consolidate, che assume caratteristiche specifiche in base ai contesti. Oltre l’85% dei casi è riconducibile a pressioni familiari e i due terzi si verificano in Asia e nel Pacifico. In Italia, grazie alla legge 69/2021 denominata “Codice rosso”, è stata introdotta nel codice penale questa fattispecie di reato, ma si registra una carenza relativamente a evidenza dei dati, misure di sostegno alle vittime (aspetto gravissimo), agli obiettivi fondamentali della prevenzione e della formazione: che deve essere di sistema, per coinvolgere tutta la rete dei servizi responsabili di prevenzione e presa in carico.

Avendo fin dall’inizio avuto a che fare con casi riguardanti ragazze e donne appartenenti a famiglie di religione musulmana, ci siamo trovate di fronte a un importante interrogativo, che non riguarda solo l’incidenza degli elementi culturali e religiosi. Ma anche il ruolo dell’Islam che agisce sul piano politico. Oggi ci troviamo ad essere parte civile nel processo per l’omicidio di Saman Abbas accanto ad associazioni islamiche in corsa per una maggiore agibilità politica e istituzionale in Italia. Oltre il “ponte” di Istanbul, le donne afghane, iraniane e turche sono sotto attacco, ma lo siamo tutte quando l’uso politico del discorso religioso uccide la laicità. È cruciale sensibilizzare l’opinione pubblica sulla reale natura dell’Islam politico, nella sua versione feroce, ma anche in quella “moderata”, che cambia la narrazione sui diritti fondamentali della donna di volta in volta, a seconda della convenienza.

Cristina/Cisda. Diverse sono le argomentazioni anti-Convenzione avanzate dall’Islam politico, di cui Erdoğan è un esponente di punta, con alleati potenti come il Qatar e la Fratellanza musulmana: la “via moderata”, ormai ben radicata in tutta Europa, di cui parla “Qatar papers. Il libro nero dell’Islam” (Rizzoli, 2019) di Christian Chesnot e Georges Malbrunot. L’inchiesta documenta come l’Italia sia il Paese europeo che ha ricevuto il sostegno finanziario più consistente da parte del Qatar Charity, con il maggior numero di moschee, associazioni e centri islamici finanziati. In tutta Europa i finanziamenti hanno avuto come intermediari esponenti di punta della confraternita come lo sceicco egiziano Youssuf Al-Qaradawi, noto per le sue dichiarazioni omofobe, antisemite e misogine su Al Jazeera (compresa la legittimazione delle violenze del marito sulla moglie) e per aver messo a punto gli strumenti teorici destinati alla popolazione musulmana minoritaria nelle società laiche, secondo una visione totalizzante della religione.

Centri e associazioni di questa rete, promuovono un intenso attivismo dei loro componenti. Fondano associazioni, istituzioni culturali e scolastiche di ogni ordine e grado; operano intensamente sul piano interreligioso, diffondendo la visione di una donna di cui si promuovono castità e dedizione al compito educativo dei figli; organizzano giornate aperte delle moschee ed eventi per quella mondiale dell’hijab; formano giovani donne e uomini al matrimonio islamico basato sul rifiuto dell’endogamia; promuovono la mediazione delle controversie di coppia all’interno della comunità; utilizzano strategie definite di entrismo clientelare, sfruttando esigenze elettorali delle forze politiche (in particolare socialiste e democratiche), partendo dal livello amministrativo locale. Formano imam in centri dove si utilizzano testi in cui la sharia è legge civile e politica, e non solo un codice morale. Gli esponenti della “via moderata” corrono per aggiudicarsi un ruolo predominante nel percorso di riconoscimento governativo, nel contesto di una concorrenza intra-associativa elevata.

La classe politica italiana, che da Expo 2015 ha forti interessi in comune con il Qatar, li premia. Arrivano le intese e i patti con l’“Islam che prega”, che pur non amando la definizione, utilizza l’argomento della collaborazione per la sicurezza contro l’“Islam che spara”, per accreditarsi. Pazienza per la tenuta democratica (di cui i diritti umani sono il primo elemento), come abbiamo visto in un’altra recente inchiesta, questa volta giudiziaria (il cosiddetto Qatargate).

Tiziana/Trama di Terre. La narrativa anti-Convenzione politicamente e religiosamente argomentata, di cui Women against violence Europe mette in luce miti, interpretazioni distorte e rischi, prevede oltre al rifiuto del carattere vincolante della norma internazionale rispetto agli ordinamenti dei singoli Stati impegnati a permeare il discorso politico con quello religioso e nazionalista con conseguenze già evidenti sull’esigibilità dei diritti e delle tutele, anche una polemica pretestuosa sul “genere”. Si accusa la Convenzione di affermare i valori Lgbtq+: ma essa richiama il principio di non discriminazione sessuale che già ispira molti altri trattati e legislazioni nazionali.

Cristina/Cisda. Inoltre, la Convenzione di Istanbul non definisce un modello di famiglia e non promuove il divorzio, come sostiene chi l’accusa, ma protegge le vittime di violenza in qualsiasi contesto avvenga, a partire da quello domestico. È la violenza che distrugge le famiglie, non la Convenzione. Luciana Capretti in “La jihad delle donne” (Salerno editrice, 2017) riporta la traduzione del Corano realizzata da Hamza Roberto Piccardo, ufficialmente riconosciuta dall’Arabia Saudita: “Gli uomini sono preposti alle donne […] Ammonite quelle di cui temete l’insubordinazione, lasciatele sole nei loro letti, battetele. Se poi vi obbediscono, non fate più nulla contro di esse”.

Piccardo, noto esponente dell’associazionismo islamico, precisa che questa forma di punizione maritale (percosse) è permessa dal Profeta in caso estremo, a condizione di risparmiare il volto e che i colpi vengano inferti con un fazzoletto o con il bastoncino che si usa per la pulizia dei denti. Forse è utile essere consapevoli che le migliori armi contro l’“Islam che spara” non possono essere delegate all’“Islam che prega”, come la difesa dei confini europei non dovrebbe servire a finanziare Erdoğan e a violare i diritti.

Pubblicato su Altraeconomia n. 259

Maria Cristina Rossi è un’attivista di CISDA

Jeans, maglione e barba corta: l’opposizione ai Talebani resiste

Inizia a piovigginare. La gente arriva alla spicciolata e silenziosa, continua ad aumentare. La polizia in assetto antisommossa è schierata. Siamo al parco di Shahr-e-Naw, nel cuore di Kabul, nel novembre del 2019. Il governo ha vietato i cortei per le strade, troppi attentati. Si può protestare solo in questo recinto tra gli alberi, circondato da una rete di metallo, come un pollaio. La manifestazione è organizzata da Hambastagi, il Partito della solidarietà, l’unico laico, progressista e democratico del Paese. Si protesta contro la liberazione di tre Talebani, membri della potente rete Haqqani, in cambio di due professori americani, rapiti nel 2016. I tre tagliagole stanno per tornare in libertà e l’indignazione è forte tra la gente. Il recinto è ormai pieno e si decide, nonostante i divieti, di uscire dalla gabbia. Le persone si avvicinano, discretamente, stringono mani, sussurrano cauti la loro approvazione. In quel periodo gli iscritti al partito erano in crescita, circa 33mila: per lo più giovani, uomini e tante donne. Famiglie intere che lavoravano insieme per il loro Paese.

I militanti di Hambastagi c’erano sempre ad accoglierci all’uscita dell’aeroporto quando arrivavamo dall’Italia, con il loro entusiasmo e il loro incrollabile impegno. Stavano al nostro fianco per tutto il tempo in cui la delegazione Cisda restava in Afghanistan. La nostra sicurezza era nelle loro mani esperte: un pick-up con dieci uomini fidati e ben armati ci seguiva dappertutto. Guidavano i nostri passi, sorridenti e discreti. Loro sapevano, erano ben informati. I militanti del partito lavoravano un po’ dovunque: nel governo, nella polizia, perfino nei servizi segreti. Una rete informativa fondamentale per chi porta avanti un lavoro politico pericoloso, anche allora, prima del regime talebano. Ora possiamo incontrare Nassim, portavoce del Partito, soltanto per telefono.

Come vivono oggi i membri di Hambastagi?
Non possiamo più esporci. Manifestazioni e proteste pubbliche sono diventate molto pericolose, i Talebani fanno arresti di massa. I prigionieri, il più delle volte, spariscono. Anche qualcuno di noi è stato detenuto e torturato e siamo riusciti a salvarlo per miracolo. Il nostro partito era ufficialmente registrato: abbiamo bruciato tutti i documenti ma chi si era esposto di più, anche in tv, e ha scelto di rimanere nel Paese, deve cambiare casa in continuazione per sopravvivere. Ormai lavoriamo in clandestinità e portiamo aiuto alla popolazione devastata dalla povertà, che riguarda ormai anche la classe media, senza più risparmi; sosteniamo, accanto all’Associazione rivoluzionaria delle donne afghane (Rawa) e alle militanti del partito, le necessità e le speranze delle donne.

I Talebani avevano promesso che ci sarebbe stata più sicurezza, è così?
No, purtroppo. Quasi ogni giorno ci sono attacchi suicidi, combattimenti, esplosioni ma sui media non se ne parla. Sono notizie censurate.

Chi sono i responsabili? Isis, Talebani?
Entrambi. La guerra tra Isis Khorasan e Talebani è scatenata. Il primo ha basi forti in Afghanistan, soprattutto nel Nord-Est, raccoglie gruppi e miliziani scontenti dei Talebani. Cercano di destabilizzare il governo in tutti i modi, anche provocando rappresaglie. Coltivano l’odio della popolazione che porta nuovi adepti al loro gruppo. Anche le rivalità tra le diverse fazioni dei Talebani sfociano spesso in attacchi armati. Poi ci sono gli scontri interetnici.

Quali scenari aprirebbe un collasso del governo?
L’ennesima guerra civile. Potrebbe succedere, ce l’aspettiamo, magari non subito. Per ora nessuno Stato estero ha interesse a eliminare i Talebani e loro staranno insieme finché avranno soldi da dividersi.

Da dove arrivano questi soldi?
Hanno i proventi del traffico di droga e del contrabbando, ci sono le tasse che riscuotono regolarmente. Per aumentarle, in questa situazione di crisi economica, incoraggiano molto le imprese private. Se porti denaro puoi aggirare anche le loro regole. La corruzione è altissima. Dalle Nazioni Unite arrivano al governo 40 milioni di dollari a settimana, formalmente per l’aiuto umanitario. Sappiamo da nostre fonti come li dividono: ogni capo militare prende la propria parte e la distribuisce alle sue milizie e per la gente affamata rimane molto poco. I Talebani non fanno nessun report di spesa all’Onu. È probabile che, nelle clausole segrete degli accordi di Doha, fosse anche previsto il sostegno economico, per vie traverse, al governo installato con la partenza degli americani.

Ci sono ingerenze esterne all’Afghanistan?
I Paesi esteri usano le fazioni talebane per contrastare le altre potenze e proteggere i propri interessi. Oltre agli Stati Uniti ci sono Cina, Iran, Pakistan, Russia, i sauditi e i Paesi del golfo. Ognuno arma i suoi Talebani o i suoi jihadisti.

Come si sta muovendo la Cina?
Pechino è molto presente in Afghanistan, un’avanzata non gradita dagli altri competitor sul terreno, soprattutto dagli Usa. Hanno iniziato parecchi progetti soprattutto nel Nord per estrarre gas e petrolio. Poi ci sono litio, rame, ferro: si accordano con i Talebani per lo sfruttamento delle miniere. A Kabul hanno la loro ambasciata, ristoranti e alberghi. Lo scorso dicembre uno di questi è stato fatto saltare in aria.

Qual è il gioco del Qatar?
È sempre stato un mediatore tra Talebani e Usa, è sempre coinvolto in ogni trattativa e fa da ponte nel sostegno ai Talebani da parte degli americani. Anche questo, presumibilmente, era negli accordi segreti di Doha. Qatar, Emirati e Turchia hanno poi fornito soldi e protezione a molti warlords, come Mohamed Atta, o Dostum e a membri del passato governo, come Ashraf Ghani. Hanno lasciato il campo libero in cambio di una vita ricca e protetta in questi Paesi.

Prima di salutarlo gli chiediamo se si è fatto crescere la barba. “Non c’è un ordine preciso e io ne approfitto -risponde Nassim-. Con gli uomini i Talebani non sono così accaniti come lo sono con le donne, dipende da chi ti trovi davanti. Con la barba ‘giusta’ sei più tranquillo ma io continuo a tagliarla con soddisfazione, ogni mattina, e mi vesto come mi avete sempre visto: con jeans e maglione. Una piccola forma di protesta privata”.

Pubblicato su Altraeconomia n. 258

Cristiana Cella, giornalista, scrittrice, sceneggiatrice. Segue le vicende afghane dal 1980, quando entrò clandestinamente a Kabul, vietata ai giornalisti, per documentare la resistenza della città contro l’invasione russa.  Dal 2009 fa parte del Direttivo dell’Associazione Cisda (Coordinamento Italiano Sostegno donne afghane), ha partecipato a diverse delegazioni in Afghanistan. Ha pubblicato un libro: ‘Sotto un cielo di stoffa. Avvocate a Kabul’, edito da Città del Sole Edizioni.

L’8 marzo “clandestino” delle donne afghane che resistono ai Talebani

Buio. Temperature polari, neve, fango e ancora buio. Di sera la città scompare nell’oscurità. L’elettricità c’è raramente. Le luci stradali e quelle dentro le case sono spente. I passi incerti degli uomini per strada, come fantasmi. Resti di una vita che non c’è più. Miliziani ovunque, posti di blocco. Sono vestiti meglio i Talebani: buone divise, mezzi potenti, armi efficienti, ereditati dall’esercito e dagli americani. È questa la Kabul che ritrova Rehana, militante della Revolutionary association of the women of Afghanistan (Rawa) dopo una lunga assenza. Nemmeno nelle case si sta al sicuro. I miliziani arrivano, sono una cinquantina. Circondano un quartiere, chiudono le strade. Poi entrano nelle abitazioni e perquisiscono, buttano all’aria tutto. Dicono di cercare armi ma rovistano anche nella biancheria delle donne. Alcune tra le nostre amiche attiviste hanno subito questa avventura. Se sei da sola in casa, convocano un testimone maschio altrimenti non potrebbero entrare. Mostrano a tutti che hanno il controllo del Paese, seminano paura. E ci riescono benissimo.

La paura è entrata infatti nella pelle di tutti. Rehana racconta di averla davanti agli occhi ogni giorno quando prende l’autobus. Ha tempo di osservare dalla sua postazione di donna, schiacciata con le altre, in fondo. I posti buoni sono per gli uomini. Uomini spenti, sguardi opachi. Ascolta la desolazione, l’avvilimento, le storie delle donne. Si scambiano lo sconforto. Non c’è lavoro, non c’è da mangiare, niente per scaldarsi, non possono comprare nemmeno un pezzo di sapone per lavarsi. Le mamme si preoccupano per le figlie. Troppo vuoto nella mente. I disturbi psichici aumentano. Non c’è scuola, né lavoro, né distrazioni, né vita sociale. I Talebani si sono mangiati i loro sogni. Chiuse in casa, spesso una sola stanza, da mesi non possono uscire. È pericoloso: i miliziani possono portarsele via.

Dopo il devastante terremoto che ha colpito Turchia e Siria il 6 febbraio molti hanno preso d’assalto l’aeroporto di Kabul, con l’obiettivo di salire sugli aerei che partono per portare soccorso: file di automobili come nell’agosto 2021, tanti venivano anche da altre province. La Turchia è la meta da raggiungere a qualsiasi costo: i Talebani sono spiazzati, fanno fatica ad arginare l’assalto, si spara fino a tarda sera. La gente, in città, pensa che ci sia stato un attentato. Khader non è riuscito a partire: “Comunque qui si muore. Preferisco perdere la vita sotto le macerie di un terremoto che qui”.

Nel buio delle strade succede di tutto e al mattino si trovano i cadaveri. Il 9 febbraio, i Talebani hanno dichiarato di averne raccolti 148 nel corso del mese precedente. Si muore di freddo, di fame, di droga, per mano talebana, per l’aggressione da parte di un criminale, per omicidio, per attacchi suicidi.

La stessa cupa prigione è saldamente installata nella mente degli uomini. Sahar, insegnante, racconta cos’è successo nel suo quartiere a una famiglia che conosce di vista. Un padre, Faiz, ama sua figlia quindicenne (così dice): bella, istruita, allegra, ne è fiero. La sorveglia costantemente: lei è preziosa, il suo migliore affare. La vende in sposa, con suo grande profitto, a un suo collega, un uomo rispettabile, più anziano di lui.

Lei, Zahra, invece, ha altri progetti. È innamorata e si vede di nascosto con il suo fidanzato Amid, progettano la fuga. Ora che il padre l’ha promessa, non esce più. Il ragazzo di notte riesce a entrare nella sua stanza, vuole vederla. Sono vicini, si tengono le mani. Faiz, padre che ama sua figlia, controlla. La vita di Zahra gli appartiene, l’affare è già combinato. Tutta la casa controlla, anche i muri, gli scricchiolii, i pavimenti: tutte spie di Faiz. Allarmato, entra nella stanza, Amid scappa dalla finestra. Faiz prende il suo fucile e gli spara, ma ormai il ragazzo è sparito nel buio.

Così, si gira, con la furia negli occhi, mentre la figlia gli urla che vuole sposare Amid, solo lui. Non ci pensa molto, riempie il corpo della sua bambina di pallottole. Zahra viene uccisa. Il padre solleva il cadavere, così leggero e lo getta nel cortile. I vicini si affacciano, le donne urlano. Faiz è ancora lì, con il fucile in mano e spinge via con i piedi il corpo della figlia. I vicini, spaventati, denunciano l’omicidio alle autorità. Eccoli, i “giudici”, con il turbante di traverso, armati fino ai denti. Gli occhi accesi da chissà quale delirio. Vedono il corpo della ragazza, nessuno ha osato spostarlo. Entrano in casa dove la madre non smette di singhiozzare. Parlano con Faiz. Ascoltano, annuiscono. I vicini spiano dalle finestre. Escono nel cortile per assistere alla “giustizia talebana”’. Ecco, ora sarà frustato, arrestato, ucciso, si dicono. Se lo porteranno via. Se lo merita. Ma i Talebani si complimentano con lui, gli danno pacche sulle spalle, lo lodano senza ritegno: “Hai fatto il tuo dovere. Ora il tuo onore è salvo e la sharia rispettata. Tua figlia era una puttana”. Giustizia è fatta.

Oggi, in Afghanistan, i reati contro le donne non hanno nemmeno la dignità di essere delitti, sono comportamenti governati dalla sharia. Giustificati, accettati, accolti dentro la vita di ogni giorno. I codici cambiano e sono i Talebani a dettarli. La giustizia è sprofondata nel fanatismo. Oggi, nel silenzio del mondo, i Talebani fanno quello che vogliono. Impongono le loro pene: amputazioni, lapidazioni, frustate. E la voce delle donne, inascoltata, perde forza e si prosciuga. Sulle leggi che proteggevano le donne i Talebani non si esprimono nemmeno: per loro non sono mai esistite. Basta la sharia. Copre ogni caso sottoposto alla giustizia. La violenza degli uomini non è più un crimine, tanto meno quella domestica, non è oggetto di alcuna sanzione, è colpa delle donne che non hanno saputo servire bene i loro mariti. L’impunità nutre gli abusi, si annida nelle case, diventa a poco a poco la regola, un tarlo, una malattia. Il triste potere di annichilire devasta il cervello e l’anima degli uomini. Imprigiona la loro mente più del corpo delle donne.

Chi ha difeso le donne è sotto tiro: avvocate, giudici, procuratrici, vivono nascoste sotto continua minaccia di morte. Sono conosciute e rischiano molto. Non basta impedire loro di lavorare, per i Talebani vanno eliminate. Soprattutto per quei padri e quei mariti che, a causa loro, erano stati imprigionati. Questi uomini sono stati tutti liberati dai Talebani, già nella loro corsa verso Kabul nell’agosto 2021. Ex prigionieri e combattenti hanno saccheggiato le case di donne giudici. E vogliono la loro vendetta. “Pochissime si rivolgono alle corti talebane per i loro problemi -dice Mirwais, avvocato penalista-. Per i nuovi governanti le donne non valgono nulla e tutte le decisioni vengono prese in loro assenza, in corti improvvisate, alla presenza degli anziani della tribù e della famiglia, solo maschi. Sono le vittime a rischiare: sanzioni, prigione o violenze sessuali da parte dei giudici”. La stampa non c’è più ma qualche notizia sulla “giustizia talebana” filtra sui social network. Ci sono state donne lapidate in diverse province, in quella di Badakhshan in particolare. A Ghowr una donna si è suicidata per sfuggire a questa crudele esecuzione. Nella provincia di Takhar, 40 giovani sono stati frustati in mezzo alla strada e messi in prigione per non aver osservato le prescrizioni su hijab e barbe. Scendere in strada è come andare in guerra.

L’8 marzo in Afghanistan non c’è nulla da festeggiare. Non c’era nemmeno nei vent’anni passati quando, tranne poche eccezioni, la giustizia per le donne restava una chimera. Ma le militanti afghane che si battono per i diritti delle loro sorelle ci tengono molto a celebrare questa festa. Per loro è sempre stato un giorno importante e lo è ancora. “Serve a ricordarci le vittorie delle donne -dice Gulnaz, militante di Rawa-. Se loro ce l’hanno fatta, ce la faremo anche noi. Ci vorrà molto tempo ma le cose cambieranno. Oggi sappiamo che continueremo a combattere, con le armi della consapevolezza, dell’istruzione, della cura, della resistenza e con la forza della vita stessa. È questa che dobbiamo celebrare oggi”. Rawa e le altre associazioni di donne continuano a lottare. Trovano ogni escamotage per realizzare quello che serve: scuole, rifugi, ambulatori. Tutto segreto, per una vita che non si fa schiacciare. Continuano a inventare e a dare speranza alle donne. Rawa ci sarà l’8 marzo: le militanti arriveranno per l’occasione addirittura da altre province. Nonostante tutto, nei modi più fantasiosi, riusciranno ad affermare la certezza che qualcosa si può sempre fare per arginare l’orrore e nutrire la forza delle donne. Un giorno di coraggio che, ancora, i Talebani e gli altri tagliagole non sono riusciti a devastare.

Pubblicato su Altraeconomia n. 257

Cristiana Cella, giornalista, scrittrice, sceneggiatrice. Segue le vicende afghane dal 1980, quando entrò clandestinamente a Kabul, vietata ai giornalisti, per documentare la resistenza della città contro l’invasione russa.  Dal 2009 fa parte del Direttivo dell’Associazione Cisda (Coordinamento Italiano Sostegno donne afghane), ha partecipato a diverse delegazioni in Afghanistan. Ha pubblicato un libro: ‘Sotto un cielo di stoffa. Avvocate a Kabul’, edito da Città del Sole Edizioni.