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Autore: Patrizia Fabbri

Ghani Ashraf

Ashraf Ghani nasce a Lowgar (Afghanistan) il 19 maggio 1949.

  • entra a far parte della Banca mondialedal 1991 al 2001
  • Ministro delle finanze da luglio 2002 a dicembre 2004
  • Cancelliere dell’Università di Kabul nel 2005
  • candidato presidenziale nel 2009 non eletto
  • Capo del processo di transizione elettorale  nel 20110
  • Consigliere senior del presidente Karzai nel 2011
  • Consigliere senior e responsabile del processo di transizione dal 2011 al 2013
  • Candidato alle presidenziali nel 2014
  • 14° presidente dell’Afghanistan dal 29 settembre 2014
  • Candidato alle presidenziali del 2019
  • il 15 agosto 2021 fugge dall’Afghanistan insieme alla sua famiglia per dirigersi negli Emirati Arabi Uniti.

Cosa si dice di lui

Corruzione

Con un tratto di penna, il presidente afghano Ashraf Ghani ha messo suo fratello nel business della cromite con un appaltatore della difesa statunitense con reputazione screditata. Ghani ha concesso a una sussidiaria SOSi, Southern Development nota anche come SODEVCO, i diritti per l’acquisto di minerale estratto artigianalmente.

Alla fine del 2019, SOS International (SOSi), una società con sede in Virginia e con collegamenti con apparati militari e di intelligence statunitensi, ha ottenuto l’accesso esclusivo a varie miniere in tutto l’Afghanistan. Come parte dell’accordo, la famiglia di Ghani ha ottenuto qualcosa in più. Un’indagine OCCRP ha scoperto che il fratello del presidente, Hashmat Ghani, possiede una partecipazione significativa in Southern Development, che gestisce un impianto di lavorazione dei minerali alla periferia di Kabul. La concessione rappresenta un conflitto sia per il leader afghano che per il governo degli Stati Uniti. “Entrare in questa relazione in Afghanistan, un paese con una reputazione diffusa per la corruzione, e ottenere vantaggi unici da essa, è sospetto”, ha detto Jessica Tillipman, assistente decano del Government Procurement Law Program presso la George Washington University.

I talebani e gli altri gruppi armati hanno combattuto sia contro il governo centrale che tra di loro per il controllo delle miniere, usandolo per finanziare le loro insurrezioni. Persino l’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump desiderava l’oro, il litio, l’uranio e le altre ricchezze minerali dell’Afghanistan. Nel 2017, Trump è stato convinto a mantenere le truppe nel paese da Ashraf Ghani, che gli ha fatto prospettare la possibilità di contratti minerari per le società americane. (fonte: OCCRP (Organized Crime and Corruption Reporting Project)

Diritti umani

Nel dicembre 2016 il presidente afghano Ashraf Ghani ha promesso di proteggere i diritti dei difensori e degli attivisti dei diritti umani. “La protezione dei difensori dei diritti umani è di esclusiva responsabilità del mio governo e dei suoi rami legislativi e giudiziari”, ha dichiarato in una conferenza dell’AIHRC. Lungi dal mantenere questo impegno, il governo stesso è stato responsabile di intimidazioni, molestie e minacce contro i difensori e gli attivisti dei diritti umani. Nel giugno 2016 le autorità afghane hanno represso con un eccesso di forza una protesta contro le vittime civili nel conflitto che si svolgeva nella piazza Zanbaq di Kabul. Uno degli organizzatori ha detto ad Amnesty International che in una precedente protesta era stato contattato dall’ufficio del Presidente per essere avvertito di sgombrare le tende dei manifestanti perché potevano essere “sotto attacco” da gruppi armati – cosa che ha interpretato come una minaccia. Nel maggio 2017, in vista della presa in esame del problema della tortura in Afghanistan da parte dell’Onu, un gruppo della società civile è stato costretto a rimuovere dal suo “rapporto ombra” i nomi degli alti funzionari governativi che vi erano menzionati. (fonte Osservatorio Afghanistan)

L’offerta di Ghani che il suo paese aderisca al Consiglio dei diritti umani è stata minata dallo scarso rendimento del suo governo dinanzi al Comitato delle Nazioni Unite contro la tortura ad aprile. I membri del comitato hanno criticato la delegazione afghana sul ben documentato fallimento del governo nel frenare la tortura. Un membro del comitato ha chiesto esplicitamente al procuratore generale dell’Afghanistan, Farid Hamidi, cosa stesse facendo il governo riguardo al generale Abdul Raziq, il cui nome è diventato sinonimo di tortura sistematica, esecuzioni extragiudiziali e sparizioni forzate. Raziq è il capo della polizia di Kandahar, e il comitato ha preso atto di numerose segnalazioni di detenuti a Kandahar che hanno accusato torture o maltrattamenti, tra cui “soffocamento, schiacciamento dei testicoli, acqua pompata con forza nello stomaco e scosse elettriche”.

Nonostante la dichiarazione di Ghani del 2015 di porre fine alla tortura nel paese, i dati di Unama (Missione di assistenza delle Nazioni Unite in Afghanistan) indicano che essa è in aumento, le sue statistiche dimostrano che il 39% dei detenuti della polizia e dell’agenzia di intelligence sono torturati in custodia.

L’appassionata retorica sui diritti umani di Ghani è molto insufficiente nella pratica. Gli afgani non prenderanno sul serio Ghani sulla protezione dei diritti finché non inizierà a colmare il divario enorme tra retorica e realtà adottando misure significative per porre fine alla tortura sistematica e ritenendone responsabili la polizia e le altre forze di sicurezza. (fonte Human Rights Watch)

Ancora nessuna salvaguardia per fermare la tortura in Afghanistan. Sono passati cinque anni da quando il presidente afghano Ashraf Ghani ha annunciato che il suo governo “non avrebbe tollerato la tortura”. Se così fosse, l’ultimo rapporto delle Nazioni Unite non sarebbe necessario. Invece, il rapporto documenta l’incapacità del governo di attuare anche le più elementari salvaguardie contro la tortura e altri maltrattamenti in Afghanistan. Ciò che è chiaro è che il governo ha svolto poche indagini e procedimenti giudiziari contro la polizia e altro personale delle forze di sicurezza accusati di ricorrere alla tortura contro i detenuti, nonostante le modifiche al codice penale rendano la tortura un crimine. (fonte ECOI (European Country of Origin Information Network)

Talebani e signori della guerra

Il 22 settembre 2016 è stata firmata una bozza di accordo di pace tra il governo di Ashraf Ghani e il movimento Hezb-e-Islami (Hia) guidato dall’oggi quasi 70enne Gulbuddin Hekmatyar, meglio noto come “il macellaio di Kabul”.

Le foto che circolano sui social media mostrano Haji Mali Khan, Hafiz Rashid e Anas Haqqani, tre autorevoli esponenti dei Talebani, pronti a uscire dalla prigione. In cambio del rilascio dello statunitense Kevin King, 63 anni, e dell’australiano Timothy Weeks, 50, due docenti della American University of Afghanistan sequestrati a Kabul nel 2016. Un boccone amaro, una scelta «difficile ma necessaria», l’ha definita ieri il presidente Ashraf Ghani annunciando lo scambio di prigionieri in diretta televisiva. Assicura che servirà a favorire la pace e il negoziato diretto con i Talebani, che finora hanno preferito parlare con Washington – arrivando quasi alla firma di un accordo – , non con Kabul.  (13-11- 2019) (fonte Il manifesto)

Il presidente afghano Ashraf Ghani, dopo essersi opposto per giorni, ieri ha firmato un decreto che autorizza il rilascio di 1.500 detenuti talebani (marzo 2020). Sono meno di un terzo dei 5mila di cui gli studenti coranici invocano la liberazione. (fonte Osservatorio Afghanistan)

In un’intervista a Vice News, Ghani ha affermato che “il suo cuore si spezza per i talebani”. Ha inoltre affermato che “i talebani sono afghani ed lui è il presidente di tutti gli afgani”. Ashraf Ghani ha anche affermato di essere disposto a offrire passaporti afgani ai talebani e a riconoscerli come un gruppo politico legittimo in Afghanistan, come tentativo di concludere un accordo di pace con loro.

Nel marzo 2021, nel tentativo di far avanzare i colloqui di pace, Ghani ha espresso la sua intenzione di convincere i talebani a tenere nuove elezioni e consentire la formazione di un nuovo governo attraverso un processo democratico. (fonte Wikipedia)

La sua storia

Ghani è nato il 19 maggio 1949 nella provincia di Logar in Afghanistan. Appartiene alla tribù Ahmadzai Pashtun. Come studente di un programma di scambio all’estero, Ashraf ha frequentato la Lake Oswego High School a Lake Oswego in Oregon; si è laureato nel 1967. Inizialmente voleva studiare legge ma poi ha cambiato la sua specializzazione in Antropologia culturale. Ghani ha frequentato l’università americana di Beirut dove ha conseguito la laurea nel 1973 e, successivamente, ha frequentato la Columbia University, dove ha conseguito il master nel 1977 e un dottorato di ricerca nel 1983. Ha incontrato la sua futura moglie Rula mentre studiava là.

Dopo la laurea ha prestato servizio presso la facoltà dell’Università di Kabul (1973-1977) e dell’università di Aarhus in Danimarca (1977). Dopo il dottorato di ricerca è stato invitato a insegnare all’Università di California a Berkeley nel 1983, e poi alla Johns Hopkins University dal 1983 al 1991. Ha anche frequentato l’Harvard – INSEAD e la World Bank – stanford Graduate School of Business. La sua ricerca accademica riguardava la costruzione dello stato e la trasformazione sociale. Nel 1985 ha completato un anno di ricerca sulle madrasse pakistane come Fulbright Scholar recandosi sul posto.

È entrato a far parte della Banca mondiale nel 1991, lavorando a progetti nell’Asia orientale e meridionale durante la metà degli anni ’90.

Tornato in Afghanistan dopo 24 anni nel dicembre 2001, Ghani ha lasciato i suoi incarichi presso le Nazioni Unite e la Banca mondiale per unirsi al nuovo governo afghano come consigliere principale del presidente Hamid Karzai il 1° febbraio 2002.

Dopo aver lasciato l’Università di Kabul, Ghani ha co-fondato l’Institute for State Effectiveness con Clare Lockhart, di cui era presidente.

Ghani è stato indicato come candidato a succedere a Kofi Annan come Segretario Generale delle Nazioni Unite alla fine del 2006 in un articolo in prima pagina sul Financial Times, è stato citato anche da Carlos Pascual della Brookings Institution, che ha elogiato “l’enorme intelletto, talento e capacità” di Ghani.

A differenza di altri grandi candidati, Ghani ha chiesto alla diaspora afghana di sostenere la sua campagna e fornire sostegno finanziario. Nominò Mohammed Ayub Rafiqi come uno dei suoi vicepresidenti candidati, e pagò il noto capo stratega della campagna di Clinton, James Carville, come consigliere della campagna. I risultati preliminari hanno posizionato Ghani al quarto posto ottenendo circa il 3% dei voti.

Dopo aver annunciato la sua candidatura per le elezioni del 2014, Ghani ha contattato il generale Abdul Rashid Dostum, un importante politico uzbeko ed ex ufficiale militare nel governo di Karzai, e il danese Sarwar, un di etnia Hazara, che ha anche servito come ministro della Giustizia nel gabinetto di Karzai, come suoi candidati alla vicepresidenza.

Dopo che nessuno dei candidati è riuscito a ottenere più del 50% dei voti al primo turno delle elezioni, Ghani e Abdullah Abdullah, i due primi classificati al primo turno, si sono sfidati al ballottaggio, che si è tenuto il 14 giugno 2014.

I primi risultati delle elezioni di ballottaggio hanno mostrato Ghani come il favorito in modo schiacciante. Tuttavia, le accuse di frode elettorale si sono tradotte in una situazione di stallo, minacce di violenza e la formazione di un governo parallelo da parte del campo del suo avversario, Abdullah Abdullah. Il 7 agosto 2014 il Segretario di Stato americano John Kerry è volato a Kabul per mediare un accordo per la formazione di un governo di unità nazionale con un nuovo ruolo di amministratore delegato che avrebbe svolto funzioni significative all’interno dell’amministrazione del presidente. Dopo una verifica durata di tre mesi, con la supervisione dalle Nazioni Unite e con il sostegno finanziario degli Stati Uniti, la Commissione elettorale indipendente ha annunciato Ghani come presidente dopo che ha accettato un accordo di unità nazionale. Inizialmente la commissione elettorale ha detto che non avrebbe annunciato formalmente risultati specifici. Successivamente ha rilasciato una dichiarazione in cui si affermava che Ghani è riuscito a ottenere il 55,4% e Abdullah Abdullah il 43,5%, sebbene abbia rifiutato di rilasciare i risultati del voto individuale.
Nel settembre 2019, un’esplosione vicino a una manifestazione elettorale alla quale partecipava il presidente Ashraf Ghani ha ucciso 24 persone e ne ha ferite altre 31, ma Ghani è rimasto illeso.

Nel 2015, un sondaggio condotto dal canale di notizie afgano TOLO News ha mostrato che la popolarità di Ashraf Ghani in Afghanistan era diminuita drasticamente, con solo il 27,5% degli intervistati che si dichiarava soddisfatto della sua leadership.

Ghani è stato rieletto nelle elezioni presidenziali del 28 settembre 2019 ma è stato annunciato vincitore, dopo un lungo processo, nel febbraio 2020 e ha prestato giuramento per un secondo mandato il 9 marzo 2020. (fonte Wikipedia)

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Quando i talebani prendono il controllo il 15 agosto 2021, Ghani lascia immediatamente l’Afghanistan con la moglie e due stretti collaboratori per trovare poi rifugio negli Emirati Arabi Uniti. Le Nazioni Unite hanno rimosso il nome di Ghani dalla lista dei capi di stato il 15 febbraio 2022. Nel maggio 2022, l’ispettore generale speciale per la ricostruzione dell’Afghanistan (SIGAR) ha pubblicato un rapporto sul crollo dell’esercito nazionale afghano (ANA) e del governo afghano. Il SIGAR ha descritto Ghani come un “presidente paranoico … spaventato dai suoi stessi connazionali” e che molti dei licenziamenti di Ghani di alti generali militari “hanno minato il morale” dell’ANA. Il rapporto SIGAR riportava anche che Ghani temeva che gli Stati Uniti stessero “tramando un colpo di stato” contro di lui. (fonte Wikipedia)

 

credit foto: original author: Mueller /MSC – Questo file è stato ricavato da un’altra immagine – Creative Commons Attribution 3.0 de

Barakzai Shukria

Shukria Barakzai è nata a Kabul nel 1970 ed è stata ambasciatrice della Repubblica islamica dell’Afghanistan in Norvegia.

  • Indicata da RAWA come reazionaria e antifemminista
  • Vicina ai signori della guerra (fonte RAWA)

Nel 2005 Barakzai e il marito Abdul Ghafar Daw tentano l’ingresso in politica e lei viene eletta. Daw diviene uno dei dirigenti della Kabul Bank, che, nel 2010, si scopre essere la cassa di riferimento della mafia locale, finendo per perdere centinaia di milioni di dollari. Oltre a Daw, vengono coinvolti anche dei fratelli del Presidente Karzai e il Vice Presidente della Repubblica, Qasim Fahim .

Nel frattempo, nel 2006 Barakzai e Daw ottengono il monopolio del rifornimento di carburante per dieci aeroporti afghani.

Nel 2015 lei è protagonista di uno scandalo: in seguito alla morte del mollah Omar, uno dei misogini e reazionari leader talebani, si è presentata in Tv vestita di nero e ufficialmente in lutto per l’evento.

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Il 24 agosto 2021 Barakzai è stata evacuata da Kabul ed è giunta in Gran Bretagna.

Afghani Jamila

Jamila Afghani è nata a Kabul nel 1976.

  • Una delle figure, secondo RAWA, più legate politicamente a Hekmatyar, il “macellaio di Kabul”
  • Vicina ai fondamentalisti e impegnata nell’istruzione islamica delle donne

Seconda moglie di un professore di legge islamica, la Afghani è legata al sanguinario partito di Hekmatyar, ed è stata una delle prime donne a incontrarlo. È una seguace dell’approccio religioso waabita, in nome del quale ha promosso delle campagne per permettere alle donne di pregare nelle moschee (separate dagli uomini) e per aprire scuole coraniche per le ragazze.

La critica mossa dalla dissidenza in merito sostiene che avvicinare le donne al fondamentalismo sia un modo per indottrinare più facilmente anche i bambini.
Afghani svolge la sua attività religiosa a livello internazionale; in Occidente ha ricevuto diversi riconoscimenti in merito, tra cui il Global Leadership Prize nel 2015 da parte della Fondazione svedese Tallberg.

Afghani ha fondato un’organizzazione, Noord Educational and Capacity Development Organization (NECDO), che si occupa di raccogliere fondi per la costruzione delle madrase (scuole coraniche).
È stata appuntata Ministro del Lavoro, degli Affari Sociali, dei Martiri e dei Disabili.

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Dall’agosto 2022 vive in Canada.

“Sono in molti a doversi vergognare per la distruzione dell’Afghanistan”

Bilqis Roshan, ex senatrice impegnata per i diritti delle donne, è dovuta fuggire dal Paese. Continua a denunciare i crimini dei Talebani e le responsabilità dei governi stranieri che li sostengono, ancora oggi. L’abbiamo intervistata.

Beviamo tè allo zafferano in tazze di porcellana bianca con il marchio in oro del Parlamento afghano. La stanza è grande con poltrone in stile barocco (qui piace molto) e grandi mazzi di fiori finti, impacchettati nella plastica. Un edificio sontuoso, che ricorda un castello medioevale, adornato da marmi, colonne, cupole di rame e vetro costruito con soldi indiani. Con lo stesso stile è stato realizzato l’edificio di fronte: il palazzo reale di Darul Aman, appena inaugurato. Delle spettrali rovine, ricordo della guerra civile, che sovrastavano la città non c’è più traccia. Era il 2019 ed ero a Kabul per incontrare Bilqis Roshan, senatrice del Parlamento afghano dal 2011 e attivista per i diritti delle donne. La gente la saluta con rispetto quando la incontra: “Quando gli americani se ne andranno daranno l’Afghanistan in regalo ai Talebani su un piatto d’argento”.

Quella previsione si è avverata: “Come vedi, avevo ragione”, racconta Roshan quattro anni dopo. Oggi è riuscita ad arrivare in Europa ed è salva.

Roshan, come ricordi il 15 agosto del 2021?

Ero nel mio ufficio al Parlamento. C’era molta tensione. Il futuro stava arrivando e non aveva una bella faccia. L’avanzata dei Talebani proseguiva inesorabile. Kabul stava per essere consegnata nelle loro mani. Poi è arrivata la notizia: hanno preso Surobi, cittadina a sessanta chilometri dalla capitale, lungo la strada per Jalalabad. Sarebbero potuti entrare nel mio ufficio in una manciata di ore. I Talebani mi minacciavano da anni e non era una buona idea farsi trovare lì e quindi me ne sono andata subito, con il mio autista. La città era irriconoscibile, non avevo mai visto una cosa simile: migliaia di macchine, mezzi militari, persone che correvano, un caos spaventoso. La notizia aveva innescato il panico, che pareva inarrestabile. Non si avanzava di un millimetro. Sono scesa dalla macchina e ho proseguito a piedi, per due ore, per arrivare a casa.

Che ne è stato dei tuoi colleghi?

Alcuni sono rimasti, erano Talebani o comunque dalla loro parte e li hanno aspettati a braccia aperte. Per chi aveva partecipato agli Accordi di pace in Qatar, gli americani avevano già programmato da tempo il protocollo per lasciare il Paese: passaporti, visti, biglietti aerei. Sono partiti in fretta. È stato così per tutti i signori della guerra e i membri del governo.

Anche per le tue colleghe?

Sì. Quelle parlamentari come Fawzia Koofi e altre deputate, che giuravano sul cambiamento positivo dei Talebani, sul loro rispetto dei diritti delle donne sono state le prime a scappare. La maggior parte delle parlamentari erano solo dei burattini in mano agli ex presidenti Hamid Karzai e Ashraf Ghani, non hanno mai lavorato per migliorare la condizione delle nostre donne. Ti racconto un episodio. Nell’agosto 2020, si è svolta una loya jirga (la tradizionale assemblea del popolo afghano con più di tremila delegati, ndr) in cui si doveva decidere se liberare gli ultimi 400 Talebani ancora detenuti: i più pericolosi tra i cinquemila già scarcerati nell’ambito delle trattative per gli Accordi di pace in Qatar. I Talebani ne pretendevano il rilascio, minacciando ritorsioni, per iniziare i colloqui intra-afghani di pace e gli americani premevano in questa direzione. Mentre parlava Ghani io mi sono alzata con un cartello: “Liberare questi selvaggi Talebani è un tradimento del nostro Paese”. Sono stata attaccata dalle mie colleghe, insultata, aggredita fisicamente e cacciata dall’assemblea. Questa vergognosa liberazione è stata approvata con il loro sostegno. Dovrebbero chiedere scusa alle donne del loro Paese per averle consegnate ai Talebani.

Quando hai deciso di andartene?

Non volevo partire. Speravo ancora di poter fare qualcosa per la mia gente. Poi, giorno dopo giorno, la gabbia si è chiusa intorno a noi. Alla fine, il 13 febbraio 2023, amici e sostenitori mi hanno pregato di andarmene: stava diventando troppo pericoloso e comunque non riuscivo più ad aiutare nessuno. Dopo l’arrivo dei Talebani a Kabul ho dovuto vivere nascosta, cambiare casa ogni due o tre giorni. I miei sostenitori mi ospitavano, ma la mia presenza li metteva in pericolo. Ero sempre in ansia per loro. Mi sentivo soffocare.

È difficile stare lontana dal tuo Paese?

È molto duro. Ascoltare le terribili notizie che mi raggiungono, tagliata fuori da tutto, è estremamente frustrante.

Cosa ti manca di più?

Il legame forte che ho costruito con la mia gente. Ero la loro voce, li ascoltavo e li potevo aiutare con la posizione di potere che avevo in Parlamento. Non poterlo più fare è molto triste.

Nei mesi in cui sei rimasta a Kabul, hai visto qualche possibilità di resistenza organizzata ai talebani?

Prima o poi il mio popolo inizierà una resistenza. Il 90% della popolazione odia i Talebani. La situazione è insostenibile: si vive nella paura, ogni valore di umanità è sparito. Forse ci vorranno dieci anni, o venti, o anche cento ma dovrà emergere una ribellione organizzata. Non c’è un’altra strada, l’unico modo è quello di resistere ai Talebani, di cacciarli. Nessuna nazione può essere liberata dagli altri. È una responsabilità nostra quella di ottenere la libertà, ce lo insegna la storia degli ultimi decenni.

In quale scenario i Talebani potrebbero cadere?

Se non fossero sostenuti dagli Stati Uniti non resisterebbero più di due mesi. Non hanno nessuna base popolare. Hanno il problema dei finanziamenti e dei conflitti interni che stanno crescendo. Ma il punto principale è un altro. I Talebani non sono una forza indipendente costruita su una base di consenso popolare. Tutto quello che fanno è suggerito o imposto dalle intelligence dei loro vari padroni: Stati Uniti, Qatar, Pakistan e Arabia Saudita. Fanno parte di un gioco orchestrato da Washington. Sia i Talebani sia il governo precedente sono burattini nelle mani dello stesso padrone: quando non soddisfano più le aspettative vengono sostituiti. Era stato così anche nel precedente periodo talebano. Tra un po’ potrebbero anche tornare i warlords che si tengono pronti con tutti i loro soldi rubati e le loro armi. Nessuna pedina viene completamente scartata. Possono sempre servire.

Al di là della propaganda, di questi vent’anni di presenza occidentale non è rimasto molto.

No, lo abbiamo visto. Tutto quello che è stato costruito in vent’anni è un castello di carte. I miliardi spesi, le vite umane, l’addestramento delle truppe, la cosiddetta democrazia, il Parlamento in cui ho lavorato, tutto è collassato in un solo giorno. Nessuna base reale, tutto è stato fatto solo per gli interessi strategici degli Stati Uniti e della Nato. A noi è rimasta la cenere.

Pensi che i Talebani verranno riconosciuti, prima o poi, dalla comunità internazionale?

Si sta preparando il terreno. Le Nazioni Unite, ad esempio, fanno molte pressioni su Kabul affinché venga revocato il divieto alle ragazze di frequentare la scuola. Importante, certo, ma non l’unica tragica conseguenza del governo talebano. Focalizzare tutto su questo problema è una tattica pericolosa. Può diventare un punto di scambio: se i talebani decideranno di riaprire le scuole, allora la comunità internazionale dovrà accettarli. E gli altri crimini non verranno più presi in considerazione.

I warlords sono scappati ma i gruppi terroristici no. È così?

L’Isis Khorasan (Isis-K) continua ad attaccare i Talebani e ci sono spesso attentati contro i civili: è il nuovo nemico, il nuovo spauracchio. La propaganda ci dice: state con i Talebani altrimenti l’Isis verrà nelle case a rapire le vostre mogli. Almeno i Talebani questo non lo fanno. Ma ci sono altri gruppi. Il mio Paese sta diventando un hub dei terroristi. Una sorta di supermercato in cui qualunque Stato estero può comprare le sue milizie (talebane o altre) e usarle per i propri interessi. Un addestramento che inizia dalla scuola.

Le scuole per i bambini maschi sono madrase?

In pratica sì. Sono incubatrici di terrorismo. Mentre nelle moschee propagandano le loro feroci regole contro le donne, nelle scuole i Talebani insegnano solo il Corano, la sharia, l’uso delle armi, la loro Storia: gli attentati suicidi che hanno commesso, glorificano i martiri che si sono fatti esplodere, insegnano quanti morti e quali vantaggi questi attentati abbiano portato. Un lavaggio del cervello.

Quali sono adesso i tuoi progetti?

Non sono qui per fare una vita tranquilla e in disparte. Sarò presente ovunque si possa parlare di Afghanistan per far conoscere la vera realtà del mio Paese. Voi però, dovete spiegare alla vostra gente, in America e in Europa, che i loro soldi non sono stati usati per il popolo afghano ma per sostenere warlords, Talebani e criminali. Della distruzione del mio Paese sono in molti a doversi vergognare.

Bilqis Roshan è stata membro del Parlamento afghano. Nell’agosto 2020 si è opposta alla liberazione di 400 Talebani detenuti nel Paese (uno dei punti previsti dagli Accordi di pace in corso in Qatar) ed è stata duramente attaccata anche da altre deputate.

Pubblicato su Altreconomia n. 261

Cristiana Cella, giornalista, scrittrice, sceneggiatrice. Segue le vicende afghane dal 1980, quando entrò clandestinamente a Kabul, vietata ai giornalisti, per documentare la resistenza della città contro l’invasione russa.  Dal 2009 fa parte del Direttivo dell’Associazione Cisda (Coordinamento Italiano Sostegno donne afghane), ha partecipato a diverse delegazioni in Afghanistan. Ha pubblicato un libro: ‘Sotto un cielo di stoffa. Avvocate a Kabul’, edito da Città del Sole Edizioni.

Chi ha spianato la strada ai fondamentalisti in Afghanistan

Khost 1980. Il buio e la fatica si portano via le ultime parole stanche dei combattenti. Si sistemano per la notte, posando il fucile accanto a loro, accudendolo come un bambino. La cena (riso, yogurt e uva) offerta dal comandante Bul Bul è un miracolo, tra i buchi profondi delle bombe, gli echi di qualche assalto notturno, in quello sperduto villaggio diventato il suo quartier generale. “I russi sono già passati di qui, per questo è un posto sicuro -dice mentre sorride, con un sorriso che fa quasi luce-. Quando tornerai, l’anno prossimo, ti farò fare il giro dell’Afghanistan su un elicottero russo. Sarà bellissimo e non dovrai più camminare a piedi!”. Guardiamo insieme quel piccolo sogno. Nessuno di noi ci crede. “Davvero -insiste- in un paio di mesi prenderemo Khost”.

È per questo che siamo qui. La città è in fondo alla valle, la vediamo. Il bersaglio: l’aeroporto, con gli MI24, micidiali elicotteri russi da combattimento. Abbiamo passato la giornata a spiarne i movimenti. La notte seguente ci sarà battaglia. Bul Bul mi spiega i dettagli dell’assalto: “Da quella collina potrai vedere bene gli MI24 che saltano in aria”. Come per un programma di fuochi artificiali. Il comandante Bul Bul (il primo a sinistra nella fotografia di apertura scattata da Cristiana Cella nel 1980) fa parte in segreto del Fronte nazionale unito, una formazione che raggruppa laici, democratici, militanti di sinistra e islamici moderati. Combattono i russi ma anche i gruppi fondamentalisti -che si sono stabiliti a Peshawar, in Pakistan- e stanno diventando sempre più forti, terrorizzando la popolazione dei villaggi che attraversiamo.

Una guerra su due fronti, difficile da reggere con poche armi, soldati contadini senza esperienza militare e comandanti più abituati ai libri che ai fucili. Così, come altri militanti, Bul Bul sceglie di infiltrarsi in gruppi islamisti ben armati e numerosi, prendere il controllo di un piccolo esercito personale e aiutare altre formazioni che combattono con le sue stesse idee. È un capo rispettato e porta la sua guerra anche nelle menti delle persone. Una preziosa opportunità. Mostra loro il futuro dell’Afghanistan, libero, democratico, dove l’uguaglianza dei diritti di uomini e donne e di afghani di tutte le etnie sia la base per un futuro di pace. L’antidoto al veleno integralista, venuto da oltre confine, che comincia a circolare. Le sue previsioni sono lucide e puntuali, non c’è spazio per le illusioni.

“La guerra sarà lunga e sempre più violenta. Alla fine, i russi se ne andranno. Ma se, al posto loro, arriveranno i mujaheddin, sarà molto peggio. Sono come cani furiosi e fanatici, si azzanneranno tra loro portando alla rovina tutto il Paese”. Purtroppo è andata proprio così. Il doppio fronte di guerra si porterà via più di 60mila militanti laici, democratici e islamici moderati. In Afghanistan qualcuno li chiama ancora “i veri mujaheddin”, contrapponendoli ai jihadi, capi delle fazioni fondamentaliste. È all’interno di queste famiglie di combattenti che sono cresciuti gli uomini e le donne liberi che oggi contrastano i talebani in una impari lotta di resistenza.

Qualche mese prima del nostro incontro con Bul Bul, nella primavera del 1979, molto lontano dalle montagne afghane, negli uffici della Cia stava prendendo piede una nuova idea che sarebbe costata agli americani alcuni miliardi di dollari. Ai primi di marzo di quell’anno, l’agenzia d’intelligence statunitense trasmette le sue segretissime proposte al presidente Jimmy Carter per un sostegno ai ribelli afghani anticomunisti. Il piano rimane a lungo sospeso nell’incertezza. A seguito della rivoluzione khomeinista, gli Usa hanno perso il sostegno dell’Iran e l’idea di rivolgere contro l’Unione sovietica il fondamentalismo agguerrito che si presenta sulla scena afghana sembra allettante.

Le rivolte contro il Governo comunista a Kabul, intanto, diventano sempre più violente e vengono represse nel sangue. Il 3 luglio Carter autorizza l’operazione: la Cia avrebbe appoggiato i ribelli, ma senza l’invio diretto di armi per mettersi al riparo da eventuali rappresaglie russe. “Zbigniew Brzezinski, consigliere per la Sicurezza nazionale, aveva già tracciato le linee di una campagna americana diretta dalla Cia in Afghanistan che sarebbero rimaste in vigore per il decennio successivo”, scrive Steve Coll, all’epoca codirettore del Washington Post. A Natale è già chiaro che i ribelli vanno sostenuti, consigliati e soprattutto armati attraverso il servizio segreto pakistano e il suo governo, altrimenti non sarà possibile fermare i russi. È questa la nuova brillante mossa della Guerra fredda.

Nel gennaio 1998, in un’intervista al settimanale francese Nouvel Observateur, Brzezinski rivela: “Avevo spiegato al presidente che il nostro sostegno avrebbe prodotto un intervento militare russo in Afghanistan. Non abbiamo spinto l’Unione sovietica a intervenire ma abbiamo consapevolmente aumentato le probabilità che lo facessero. È stata un’eccellente idea attirare i russi nella trappola afghana. Il giorno in cui l’Armata rossa ha attraversato la frontiera ho scritto al presidente che avremmo avuto la possibilità di dare alla Russia il loro Vietnam”. Un vero “successo” per gli americani. L’inizio di una catastrofe, per la popolazione afghana, che durerà più di quarant’anni. Alla domanda del giornalista sulla sua responsabilità nell’avere sostenuto il terrorismo islamista Brzezinski risponde: “Che cos’è più importante per la storia del mondo? I talebani o la caduta dell’Impero sovietico? Qualche esaltato islamista o la liberazione dell’Europa centrale e la fine della Guerra fredda?”. L’ipotesi dell’affermazione dell’islamismo integralista e del terrorismo sono sciocchezze, liquida deciso.

In molti hanno seguito la sua strada. Nessuno, nei decenni successivi, ha voluto prendere atto di questo pericolo, nessuno ha voluto fermare gli jihadisti. Anzi, i fondamentalisti islamici si sono confermati le migliori pedine del gioco dell’Occidente in Afghanistan e in altri Paesi. Così sui fanatici e feroci gruppi afghani pioveranno armi, denaro e consigli militari per i prossimi decenni. Il loro Islam fondamentalista e politico, ispirato all’ideologia wahabita saudita, la più estrema, si insinuerà nelle menti e nella vita di milioni di persone, cambiando profondamente la società afghana e soprattutto esiliando sempre di più le donne dalla vita sociale.

Quei warlords, divenuti ormai criminali di guerra, dopo le sanguinose gesta che li avevano visti protagonisti durante il conflitto civile sono rimasti al potere, sostenuti dagli invasori americani, fino all’agosto 2021, quando il Paese è stato consegnato ai loro rivali talebani. Di nuovo, il fondamentalismo islamico, che non è nato tra queste montagne, armato e sostenuto dall’Occidente ha vinto. Quell’idea della Cia, nel lontano 1979, ha fatto strada, mettendo in moto e accompagnando l’orrore. Con le conseguenze che tutti possiamo vedere e pochi vogliono guardare. Un popolo intero è chiuso in gabbia, la miseria uccide la popolazione, la paura fa parte della vita quotidiana di milioni di persone, ne corrode l’anima e la mente, la brutalità e l’ignoranza governano il Paese con leggi ottuse e paranoiche che seppelliscono le donne, ogni giorno il respiro è più corto. Tutto questo, forse, Bul Bul, comandante onesto e coraggioso, non lo aveva previsto.

Pubblicato su Altraeconomia n. 260

Cristiana Cella, giornalista, scrittrice, sceneggiatrice. Segue le vicende afghane dal 1980, quando entrò clandestinamente a Kabul, vietata ai giornalisti, per documentare la resistenza della città contro l’invasione russa.  Dal 2009 fa parte del Direttivo dell’Associazione Cisda (Coordinamento Italiano Sostegno donne afghane), ha partecipato a diverse delegazioni in Afghanistan. Ha pubblicato un libro: ‘Sotto un cielo di stoffa. Avvocate a Kabul’, edito da Città del Sole Edizioni.