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Autore: Patrizia Fabbri

La vita in un paese – prigione

Per più di due decenni l’Afghanistan ha detenuto un primato drammatico: la maggior parte dei rifugiati registrati dalle Nazioni Unite proveniva da qui, da questo territorio stretto tra vicini ingombranti, ecologicamente fragile, culturalmente ibrido, ma percepito come immobile.

Il “primato” è passato poi ai siriani piegati dalla guerra civile, ma gli afghani non hanno mai smesso di emigrare, come testimoniano alcuni rapporti del 2020, il rapporto dell’Unhcr “Global Trends” e le recenti dichiarazioni dell’Alto commissario dell’ONU per i Rifugiati, Filippo Grandi, secondo il quale “la crisi da migrazioni forzate dall’Afghanistan è una delle più ampie e delle più prolungate nei sette decenni di storia dell’Unhcr”.  Ancora oggi circa 2,7 milioni di rifugiati afghani vivono fuori dal Paese, mentre altri 2,6 milioni sono sfollati interni, costretti a lasciare le proprie case per insicurezza, calamità naturali, povertà o per scelta. L’Afghanistan rimane il secondo Paese al mondo per numero di rifugiati.

Risale al 2012 la stipula di un accordo tripartito tra Afghanistan, Pakistan e Iran, mediato dalle Nazioni Unite, con cui l’ONU immaginava di favorire il rimpatrio volontario della maggior parte degli afghani. Grazie all’ONU circa 5,3 milioni di persone sono rimpatriate dal 2001. Ma molte altre rimangono all’estero, a dispetto del “Solutions Strategy for Afghan Refugees”, l’accordo tripartito. Il Joint-Way Forward, l’accordo tra l’Unione europea e il governo di Kabul firmato a Bruxelles nell’ottobre 2016 prevede il rimpatrio – anche forzato – di tutti quegli afghani la cui richiesta di asilo venga rigettata dai Paesi membri.  l’Europa ha condizionato lo stanziamento di milioni di euro in aiuti allo sviluppo all’accettazione dei rimpatri. E ha trovato un alleato nella Turchia, che nel 2018 ha cominciato a condurre veri e propri rimpatri di massa di afghani, senza chiedere l’assistenza dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni.

Secondo un rapporto pubblicato nel novembre 2019 dall’Afghanistan Human Rights and Democracy Organization (Ahrdo), sarebbero 19.390 gli afghani rispediti indietro dai Paesi dell’Unione europea tra il 2015 e il 2017, di cui circa la metà forzatamente, mentre l’Eurostat indica che nel 2019 sarebbero stati notificati a cittadini afghani 26.900 ordini di lasciare l’Unione europea. Dal 1° gennaio a metà aprile 2019, sarebbero invece 4.219 gli afghani rimpatriati forzatamente dall’Unione europea e dalla Turchia (la maggior parte – 3.560 – dalla Turchia).

Per quanto riguarda la situazione dopo la presa del potere dei talebani, nel report di maggio 2023 l’International Rescue Committee ha accusato i leader dell’Unione Europea di “sconcertante negligenza” nei confronti dei rifugiati afghani, molti dei quali rimangono intrappolati in condizioni “simili a quelle di una prigione” sulle isole greche. “Gli afghani rappresentano ora la terza più grande popolazione di rifugiati a livello mondiale e le esigenze di reinsediamento dei rifugiati afghani nell’area dell’UE sono rapidamente aumentate, quasi triplicando di anno in anno, passando da 96.000 nel 2022 a oltre 273.000 nel 2023”. Nei primi mesi c’è stato un forte impegno da parte dei paesi dell’UE per aiutare gli afgani a rischio ad accedere a percorsi di protezione verso l’Europa, ma oggi, segnala IRC, questi impegni “stanno venendo meno, con 271 rifugiati afgani reinsediati nell’UE lo scorso anno, che soddisfano meno dello 0,1% del fabbisogno attuale”.

In Afghanistan però anche le città sono insicure. Inoltre il sistema-istituzionale è incapace di soddisfare i bisogni degli sfollati interni, che crescono ogni anno, anche a causa dei cambiamenti climatici, e non è in grado di assorbire la spinta demografica e sociale di quanti rientrano dall’estero. Nel solo mese di marzo 2020, sono stati 16.000 i migranti afghani senza documenti rientrati nel Paese. Da gennaio a inizio settembre 2020, sono stati più di 376.000 gli afghani rientrati da Iran e Pakistan. In un solo mese, dal 22 agosto al 21 settembre, sarebbero 81.000 quelli rientrati dall’Iran. Sono parte di quell’immenso bacino di lavoratori informali che non potranno più sostenere le famiglie. La storia delle migrazioni afghane insegna che gli afghani hanno alle spalle una lunga storia di migrazioni, interne, regionali, transnazionali, che precedono il conflitto. La mobilità è sempre stata parte del panorama sociale e culturale afghano. Guerra, insicurezza e povertà non sono dunque le uniche matrici delle migrazioni: la guerra ha intensificato e reso più drammatico un processo già in atto.

In questo contesto già difficile, la mobilità delle donne è diventata ancora più limitata, in particolare nelle aree più conservatrici, come nelle province di Kandahar, Khost e Helmand dove MSF ha condotto alcune interviste  che testimoniano l’estrema difficoltà di spostamento per donne e ragazze.

Ma anche a Kabul la situazione non è migliore: alcuni operatori di MSF hanno riferito che alle donne che viaggiano da sole senza un mahram (uomo con il quale una donna ha un legame familiare) nei taxi condivisi a volte viene chiesto di sedersi sul sedile posteriore dell’auto e coprire il costo di tutti e tre i posti poiché nessun altro è autorizzato a condividere il taxi con loro. Ciò aggiunge un ulteriore onere finanziario e può rendere il viaggio di una donna in una struttura sanitaria due o anche tre volte più costoso di quello di un uomo. Ciò influisce sulla capacità delle donne di raggiungere un ospedale (incidendo sull’accesso a un’assistenza sanitaria primaria e secondaria adeguata e tempestiva), un posto di lavoro o qualsiasi altro luogo: è un problema che MSF aveva già segnalato nel 2014 ma che da allora è ulteriormente peggiorato.

Il divieto di accesso delle donne e delle ragazze agli hammam (bagni pubblici), ai parchi e alle palestre, insieme alle politiche del maharam e dell’hijab, ha creato un ambiente in cui è difficile per le donne e le ragazze lasciare le proprie case. Nelle parole di un’ex studentessa, “le donne sono in carcere, non possono lavorare, studiare o uscire. Siamo depresse”, si legge nel report rilasciato nel giugno 2023 dall’Human Rights Council dell’ONU che, inoltre, riferisce che i gruppi di più di tre o quattro donne vengono regolarmente dispersi dai funzionari, sostenendo la necessità di prevenire le proteste. Un intervistato ha spiegato che “anche se un piccolo gruppo di ragazze si siede insieme, i talebani chiedono cosa stanno facendo”.

In bilico tra conflitti e crisi climatica

L’Afghanistan sta affrontando una crisi umanitaria senza precedenti; la convergenza dei conflitti e dei rischi climatici aggrava ulteriormente l’insicurezza alimentare ed economica della popolazione. Da un lato il paese subisce da più di 40 anni un conflitto armato le cui responsabilità sono segnatamente delle potenze regionali e mondiali che su quel terreno si confrontano per estendere la propria influenza su un territorio di estrema rilevanza geostrategica. Dall’altro, la situazione è aggravata dagli effetti del climate change che mettono in luce una ulteriore profonda ingiustizia: pur avendo contribuito al cambiamento climatico globale in maniera ridotta – un afghano produce mediamente 0,2 ton di emissioni di anidride carbonica all’anno, rispetto alle quasi 16 dell’americano medio – l’Afghanistan registra un aumento delle temperature superiore alla media globale.

Il paese è annoverato tra i più vulnerabili al mondo ai cambiamenti climatici a causa della combinazione di una bassa capacità di adattamento, ovvero di prevenire o ridurre al minimo i danni ambientali, e di una elevata esposizione agli impatti climatici. Solo nel 2022 sono state colpite 228 mila persone da fenomeni climatici violenti e improvvisi. Ad essere più esposti a tali rischi sono le donne, i bambini e le comunità rurali che vivono nei territori più remoti.

Le conseguenze sono l’accelerazione della crisi sociale con ulteriori violenze, fanatismi, guerre per l’accaparramento della terra, dell’acqua, delle risorse oltre a migrazioni di massa: da oltre 40 anni milioni di cittadini afghani sono in fuga.

Quasi 4 milioni di sfollati interni vivono in campi profughi, privi dei più elementari servizi. Recenti analisi ipotizzano che altri 5 milioni di persone potrebbero essere costrette a migrare dall’Afghanistan a causa dei soli disastri climatici entro il 2050.

Alluvioni e frane sono un pericolo naturale frequente in Afghanistan. I fenomeni di pioggia intensa sono aumentati tra il 10 e il 25% nel corso degli ultimi 30 anni. Allo stesso tempo l’Afghanistan deve misurarsi con una delle più gravi siccità che abbia mai visto. Secondo l’ONU questo rischia di trasformarsi, da evento episodico, a evento annuale entro il 2030. I principali sistemi di irrigazione dipendono dalla quantità di neve che cade l’inverno precedente sulle montagne dell’Hindu Kush o sugli altipiani centrali. A lungo termine, la perdita dei ghiacciai potrebbe compromettere radicalmente l’approvvigionamento idrico e idroelettrico della regione. Il loro restringimento, fenomeno comune in tutto il globo, e l’aumento delle temperature hanno conseguenze molto più gravi per l’Afghanistan che altrove, con la desertificazione di oltre il 75% della superficie totale del paese. Ciò significa che meno di un terzo della popolazione ha accesso ad acqua potabile pulita; migliaia di bambini muoiono ogni anno a causa della contaminazione e delle scarse condizioni igienico-sanitarie.

La distribuzione idrica è inoltre inficiata da cattiva gestione e carenze infrastrutturali, tenendo in considerazione che solo una piccola percentuale degli investimenti in Afghanistan sono stati indirizzati al settore durante l’occupazione NATO. Allo stesso tempo, i bombardamenti e gli attacchi dei talebani agli impianti per terrorizzare la popolazione hanno distrutto la rete di irrigazione costruita dai contadini secondo metodi antichi.

Le conseguenze sociali di questa situazione sono ancor più gravi se si considera che l’80% della popolazione dipende dall’agricoltura per la sussistenza e la coltivazione del grano è molto suscettibile alla carenza d’acqua. A queste colture si sostituiscono i campi di papaveri da oppio, molto più resistenti alla siccità e importante canale di finanziamento dei talebani.

Oltre alle cause ambientali, solo nel 2021, migliaia di agricoltori e coltivatori non sono stati in grado di piantare i raccolti annuali a causa dei combattimenti; la metà di quelli coltivati è andato perso e il prezzo del grano è aumentato del 25%.

L’interazione tra cambiamento climatico, catastrofe umanitaria e assenza di governo dei fenomeni spinge le persone ad arruolarsi nelle file delle milizie talebane e verso la radicalizzazione in una spirale sempre più devastante per il paese.

La discriminazione nei confronti di donne e ragazze  acuisce la loro vulnerabilità: i contadini ridotti alla miseria vendono il bestiame e cedono le figlie ancora bambine in sposa in cambio di denaro per poter sfamare il resto della famiglia o per ripagare i debiti. La siccità rende infertili i terreni e le inondazioni spazzano via case e beni e riducono la produttività agricola, portando gli uomini a migrare verso le aree urbane in cerca di lavoro. Le donne devono prendersi cura della famiglia ma sono esposte a maggiori rischi di violenza domestica, molestie sessuali, tratta e matrimoni precoci e forzati, oltre a subire numerose limitazioni alla loro libertà, dagli spostamenti alla possibilità di istruzione e di lavoro.

Rappresentanza? Partecipazione? Non c’è posto per le donne

La partecipazione delle donne all’attività politica attiva è un diritto conquistato dalle donne afghane nei lunghi anni di lotta e, sebbene tra mille difficoltà, fino all’agosto 2021 le donne erano presenti nelle istituzioni afghane. Prima dell’agosto 2021, le donne costituivano il 27% dei membri nella Camera Bassa del Parlamento, il 22% nella Camera Alta e il 30% nella pubblica amministrazione, e ricoprivano ruoli chiave nel governo, nelle commissioni indipendenti e nel sistema giudiziario.

La presenza femminile in queste istituzioni non significava automaticamente l’appartenenza di queste donne a formazioni democratiche, molte di esse erano infatti legate ai gruppi fondamentalisti, ai vari signori della guerra e agli stessi talibani (così come la componente maschile del governo e del parlamento nei 20 anni di occupazione del paese da parte delle forze USA/NATO). Ciò non ha impedito al viceministro degli Affari esteri ad interim di annunciare, il 31 agosto 2021, che nessuna donna avrebbe occupato posizioni dirigenziali di vertice in un governo talebano. Le donne sono ora totalmente escluse dalla vita politica e pubblica in Afghanistan. Non c’è una sola donna che ricopra cariche pubbliche o politiche, e un numero limitato rimane nella pubblica amministrazione.

Il 18 settembre 2021, gli uffici del Ministero per gli affari femminili sono stati convertiti negli uffici del Ministero per la propagazione della virtù e la prevenzione del vizio, noto per il suo famigerato record di soppressione dei diritti delle donne. L’abolizione degli organi legislativi e del Ministero per gli affari femminili ha eliminato la rappresentanza delle donne e il loro accesso al processo decisionale, e di fatto il loro diritto alla partecipazione politica.

Contestualmente all’eliminazione della rappresentanza politica anche la partecipazione alla vita politica e sociale e duramente repressa. Le donne hanno partecipato all’assemblea di emergenza del 2002 (Loya Jirga), hanno svolto un ruolo attivo nella Loya Jirga costituzionale del 2003 e hanno partecipato come elettori e candidate alle successive elezioni presidenziali e parlamentari. Le donne hanno rappresentato oltre il 30 per cento dei votanti tra il 2004 e il 2019. Oggi sono escluse da ogni forma di partecipazione alla vita politica e pubblica.

Dall’agosto 2021, le donne hanno guidato manifestazioni pubbliche pacifiche rivendicando il diritto all’istruzione, al lavoro, alla partecipazione alla vita pubblica e alla libertà di movimento e di espressione. Queste proteste sono state duramente represse con intimidazioni, arresti, detenzioni arbitrarie. Gli esperti dell’Human Rights Council dell’ONU, nel report del giugno 2023, hanno ricevuto numerosi rapporti credibili di ufficiali talebani che picchiano brutalmente, arrestano arbitrariamente e detengono donne manifestanti, molte delle quali sono state successivamente rilasciate a patto che cessassero il loro attivismo e rimanessero in silenzio sul loro trattamento. Le vittime riferiscono di aver subito violenza di genere, inclusa violenza sessuale, spesso assimilabile alla tortura, da parte di ufficiali talebani che cercavano informazioni sugli organizzatori della manifestazione.

Coltivazione dell’oppio: business is business

L’intensificarsi del traffico di eroina proveniente dall’Afghanistan condiziona la politica e l’economia dell’intera regione e ha creato una nuova narco-élite che si arricchisce mentre cresce la povertà della popolazione.

Oggi l’Afghanistan, sul piano economico, è come un buco nero che emette onde di insicurezza e caos in una regione che sta attraversando molteplici crisi. Le infrastrutture del paese sono in rovina. I servizi pubblici essenziali presenti in qualsiasi paese sottosviluppato qui non esistono.

Non ci sono acqua corrente, elettricità, reti telefoniche, strade carrozzabili.

È difficile dunque quantificare il numero esatto dei tossicodipendenti. Nel 2005 c’erano circa 200.000 dipendenti da oppio. Nel 2009 erano già saliti a un milione (cifra che, secondo l’ONU comprendeva circa il 3% delle donne afghane) e nel 2015 la cifra era compresa tra 1,9 e 2,4 milioni. “Su 40 milioni di abitanti 3,5 milioni abusano di sostanze stupefacenti”, affermava nell’aprile 2022 Mohammad Daoud Jaihon, il direttore dell’ospedale Jandalak a est di Kabul, specializzato nel recupero dei tossicodipendenti.

Secondo le stime del Ministero della Salute Pubblica afghano, alla fine del 2022 il numero delle donne tossicodipendenti era vicino al milione e quello di ragazzi e ragazze oltre 100.000. I motivi principali per cui le donne cadono nella tossicodipendenza sono la situazione economica e la mancanza di lavoro. La precarietà le rende incapaci di combattere per la propria vita o di provvedere alla propria famiglia, e il modo più semplice è fare uso di sostanze. In molti casi sono i mariti a iniziarle. Madri che hanno usato droghe durante la gravidanza, quando i figli piangono per farli tacere danno loro della droga. Quindi fin dalla giovane età questi bambini sono dipendenti.

I dati relativi alle figure maschili sono altrettanto allarmanti: soprattutto uomini e ragazzi fanno uso di Tramadolo e Captagon, la droga dei jihadisti, un’amfetamina che toglie la stanchezza e la paura.

Questi i dati. Ma qual è la politica dei talebani nei confronti della droga? Non bisogna lasciarsi fuorviare dalle ultime notizie che giungono dall’Afghanistan relative a una drastica diminuzione della coltivazione dell’oppio: i talebani, fin dalla loro comparsa, si sono finanziati tramite le “tasse” sulla coltivazione dell’oppio e sulla produzione di anfetamine e continuano a farlo, utilizzando con perizia le leggi di mercato.

Un po’ di storia. Nel 1989 il mullah Akhundzada, appena l’Armata Rossa si ritirò, capì che bisognava controllare il traffico di eroina. Impose che la valle di Helmand fosse coltivata a oppio: chiunque si fosse opposto continuando a coltivare melograni o frumento prendendo sovvenzioni statali sarebbe stato evirato. Il risultato fu la produzione di 250 tonnellate di eroina. Akhundzada, oggi indicato come il maggiore leader talebano, è uno dei trafficanti più importanti al mondo.

Nel 1997 l’UNDCP (United Nations Drugs Control Programme) conclude un accordo con i talebani che accettano di eliminare le colture di papaveri da oppio a condizione che la comunità internazionale fornisca il denaro per aiutare i contadini a passare a colture alternative. Si impegna a sostenere l’introduzione di nuove colture commerciali, il miglioramento dell’irrigazione, la costruzione di nuove fabbriche e il pagamento dei costi della nuova politica.

Ma l’accordo non è mai stato reso operativo dai talebani e nel 1998, dopo l’abbandono dell’Afghanistan da parte delle agenzie dell’ONU, sarà semplicemente accantonato. Le tasse sull’esportazione dell’oppio diventano l’entrata principale dei talebani e il principale sostegno per la loro economia di guerra. Nel 1995 UNDCP stimava che le esportazioni di droga da Pakistan e Afghanistan fruttavano 50 miliardi di rupie (1,35 miliardi di dollari) all’anno; nel 1998 il valore dell’esportazione di eroina raddoppiava raggiungendo 3 miliardi di dollari.

Nel 2000-2001, per ingraziarsi la comunità internazionale che additava l’Afghanistan dei talebani come centrale del terrorismo islamico, i talebani imposero una drastica riduzione della produzione di oppio che provocò un’impennata dei prezzi dell’eroina; visto che la produzione degli anni precedenti aveva avuto un’impennata (vedi grafico) i talebani comunque poterono garantirsi lauti guadagni vendendo le scorte ai nuovi prezzi di mercato.

È quindi altamente probabile che la storia si stia ripetendo oggi.

Dopo la presa di Kabul, i talebani hanno annunciato un programma per eradicare le coltivazioni di papavero e promuovere la disintossicazione di massa, ma secondo i risultati del rapporto Opium cultivation in Afghanistan, pubblicato dall’United Office on Drugs and Crime (UNODC), relativo al 2022: “La coltivazione dell’oppio in Afghanistan è aumentata del 32% rispetto all’anno precedente, fino a 233.000 ettari, rendendo il raccolto del 2022 la terza più grande area coltivata dall’inizio del monitoraggio. La coltivazione ha continuato a concentrarsi nelle parti sud-occidentali del paese, che rappresentavano il 73% della superficie totale e hanno visto i maggiori aumenti di raccolto. Nella provincia di Helmand, un quinto dei seminativi era dedicato al papavero da oppio”.

Nell’aprile 2022 hanno annunciato il divieto di coltivazione (ma non la distruzione del “mega” raccolto 2022, così come non ne è stata vietata la lavorazione e il commercio): i prezzi dell’oppio sono aumentati vertiginosamente e la sua vendita ha fruttato dai 425 milioni di dollari del 2021 a 1,4 miliardi di dollari nel 2022 (equivalente al 29% del valore dell’intero settore agricolo dell’Afghanistan nel 2021).

La riduzione della coltivazione è confermata dall’ultimo rapporto di UNODC (giugno 2023): “Il raccolto di oppio del 2023 in Afghanistan potrebbe subire un drastico calo a seguito del divieto nazionale di droga, poiché i primi rapporti suggeriscono riduzioni nella coltivazione del papavero”. Ma lo stesso rapporto mette in guardia sulla reale volontà di estirpare il traffico di stupefacenti: “L’Afghanistan è anche un importante produttore di metanfetamine nella regione e il calo della coltivazione di oppiacei potrebbe portare a uno spostamento verso la produzione di droghe sintetiche, di cui beneficeranno diversi attori”.

Inoltre, le nostre fonti in Afghanistan, oltre a sottolineare come questa “riduzione”, motivata principalmente dalla ricerca del riconoscimento da parte della comunità internazionale, garantisca ai talebani, grazie al rialzo dei prezzi, gli stessi elevati guadagni degli anni passati, ci informano che non tutta la produzione 2022 è stata posta sul mercato e le ingenti scorte consentiranno l’immissione di dollari nelle casse dei talebani ancora a lungo.

 

La violenza sulle donne è continua

L’Afghanistan è il peggior paese al mondo per nascere donna. Lo dicono le innumerevoli statistiche e rapporti dell’ONU, che in una recente dichiarazione definisce il trattamento dei talebani nei confronti delle donne “un crimine contro l’umanità”, di Human Rights Watch, di Amnesty International, solo per citare le fonti più quotate, che comunque possono riferire solo dati parziali, dal momento che le donne in Afghanistan raramente denunciano le violenze nei loro confronti, tanto meno dall’agosto 2021, momento in cui i talebani hanno ripreso il potere e imposto un’interpretazione estremamente restrittiva della sharia (nel lessico islamico “la legge sacra, imposta da Dio”).

La violenza inumana nei confronti delle donne afghane non è solo fisica ma anche psicologica; oggi in Afghanistan le donne sono escluse dalla vita. Non hanno accesso all’istruzione secondaria, non possono lavorare (e per i milioni di vedove questo significa non avere nulla con cui sostenere se stesse e le proprie famiglie), non possono frequentare parchi e palestre, non possono lavorare presso ONG, non possono uscire di casa senza un parente maschio ed è loro imposto di coprirsi da capo a piedi con un velo nero o con un burqa. Gli uomini sono ritenuti responsabili del comportamento delle donne di famiglia e quindi sono loro a subire condanne e sanzioni nel caso in cui le donne non si comportino come prescritto; questa “regola” costituisce un pesantissimo ricatto nei confronti della società tutta.

E dove divieti e tradizione non sono abbastanza, è la paura che costringe le donne a non uscire: “Si dice che i talebani prendano le ragazze per darle ai loro soldati e quindi le famiglie impediscono loro di uscire in strada anche per comprare il pane. E sono sempre di più le ragazze che, chiuse in casa, senza poter andare a scuola manifestano disordini del sonno e disturbi psichici”, raccontano da Kabul.

Le attiviste, coloro che resistono, che sono state e continuano a essere in prima linea nelle proteste pacifiche per affermare i diritti delle donne, vengono arrestate, incarcerate, torturate; spesso non si sa nulla del loro destino.

Ma le donne afghane non sono oggetto di violenza solo dall’agosto 2021: la violenza nei loro confronti è endemica, e l’occupazione ventennale USA e NATO, portata avanti anche con il pretesto di voler liberare le donne, non è certo servita a risolvere il problema.

Una relazione del 2015 pubblicata dallo Special Rapporteur per i diritti umani dell’ONU descrive la situazione in quel momento: oltre l’87,2% delle donne subivano violenze in famiglia a vari livelli (fisica, psicologica, sessuale, attraverso matrimoni forzati e precoci); nella maggior parte dei casi i responsabili di questi crimini non sono stati condannati se le corti accertavano che la violenza era stata perpetrata a causa di una disobbedienza della donna.

I matrimoni forzati e precoci sono diffusissimi: per la legge, l’età minima per contrarre matrimonio è di 18 anni per i maschi e 16 per le donne ma, nonostante questo, si tratta di una pratica prevalente.

Una ricerca condotta dall’Afghanistan Multi Indicator Cluster Survey (MICS) ha certificato che il 15,2 per cento delle donne intervistate si erano sposate prima dell’età di 15 anni e il 46,4 prima dei 18. Un fenomeno che è alla radice della maggior parte delle violenze domestiche e che spesso porta le vittime a infliggersi gravi ferite o a cercare la morte per autoimmolazione. Le ragazze che rifiutano il matrimonio forzato e fuggono rischiano di essere uccise dalla propria famiglia: tra il 2011 e il 2012 l’Afghan Independent Human Rights Commission ha registrato 280 casi.

Prima del ritorno al potere dei talebani, le donne che avevano avuto il coraggio di scappare da situazioni estreme potevano far ricorso agli shelter per donne maltrattate che, sebbene insufficienti e spesso male organizzati, offrivano una via di fuga. Oggi i talebani hanno imposto la chiusura di tutti gli shelter, rimandando le vittime a casa, dai loro aguzzini.

In pericolo sono anche le stesse operatrici degli shelter, persone facilmente rintracciabili e oggetto di ritorsione da parte dei talebani, che cercano coloro che considerano “nemici” casa per casa con retate e perquisizioni a tappeto.

Nella comunità la situazione non migliora: in un paese in guerra da oltre 40 anni le donne sono le prime vittime di rapimenti e stupri, e nella società afghana conservatrice e patriarcale è la vittima a dover portare il peso della vergogna. Le donne sono considerate le custodi dell’“onore familiare” e in caso di stupro sono viste come coloro che disonorano la famiglia.

La sfida di rimanere esseri umani

L’Afghanistan del 2023 continua a rappresentare la più grande crisi umanitaria al mondo, con un PIL diminuito del 35% negli ultimi diciotto mesi, il costo del paniere alimentare aumentato del 30% e una disoccupazione che arriva al 40% della popolazione attiva, mentre solo per il cibo viene speso il 75% del reddito (UN News). Negli ultimi quarant’anni, di guerre e occupazione, mai gli afghani avevano dovuto affrontare una crisi economica così pesante come quella innestata dal ritorno dei talebani al potere.

Nel 2022 oltre il 90% della popolazione ha sofferto di insicurezza alimentare: sono decine di milioni le persone che hanno sofferto la fame e sono aumentati i decessi nei bambini per la persistente malnutrizione (Human Rights Watch, Report 2023). La povertà ha costretto a “misure drastiche” per procurarsi un sostentamento minimo, dalla vendita di oggetti domestici vitali all’avvio al lavoro dei bambini, al matrimonio di giovani ragazze e di bambine spose per la dote, fino alla vendita dei propri organi per i trapianti (PAM).

Ma se tutti soffrono, chi sta pagando la crisi economica e sociale in misura enormemente sproporzionata sono le donne, che in conseguenza delle regole sempre più costrittive dei loro diritti di movimento, di lavoro, umani e sociali hanno visto drasticamente ridotte le possibilità di lavorare fuori casa e di procurarsi il cibo per sé e per i figli, ricevere assistenza sanitaria o trovare risorse finanziarie. Il divieto di spostarsi senza un parente maschio che le accompagni, anche quando sono rimaste vedove o sono le uniche in famiglia a poter lavorare, le ha rese ancora più povere e ha trascinato i loro figli nel lavoro minorile più duro: nel 2022 il 29% delle famiglie con capofamiglia donna aveva almeno un figlio occupato nelle fabbriche di mattoni, nei cantieri, nelle case, nella raccolta rifiuti o nell’accattonaggio per le strade (Save the Children).

Nel 2022 I livelli di occupazione sono crollati per tutti, quasi 450.000 posti di lavoro sono scomparsi. Ma se l’occupazione maschile è diminuita del 7%, l’occupazione femminile è stata inferiore del 25%, così come quella dei giovani. Il lavoro da casa è diventato la forma predominante di partecipazione delle donne al mercato del lavoro, rendendole invisibili e sempre più vulnerabili (ILO Brief, 2023).

Anche le donne che erano riuscite a studiare e godevano di posizioni professionali hanno visto chiudersi tutti gli spazi. Le leggi restrittive dei talebani hanno spazzato via quasi completamente quei lavori che nei vent’anni precedenti erano stati una faticosa conquista di una parte della popolazione femminile, quella che era riuscita a realizzare, o almeno sognare, un riscatto dalla posizione di subalternità e segregazione. Magistrate, giornaliste, mediche, infermiere, insegnanti… sono ora perseguitate e rinchiuse, e, con gli ultimi decreti, addirittura alle operatrici delle ONG e dell’ONU è stato vietato il lavoro, rendendo così ancora più difficile il sostegno umanitario e l’accesso delle donne all’assistenza sanitaria.

Come segnala il report dell’Human Rights Council dell’ONU del giugno 2023, le imprese femminili sono state duramente colpite dalle politiche restrittive introdotte: i redditi delle imprenditrici sono crollati, impedendo loro spesso di pagare i propri dipendenti; alcune imprenditrici hanno riferito che alcuni fornitori si rifiutano di vendere loro materiali sulla base del fatto che una donna non dovrebbe essere a capo di un’impresa e che, come minimo, dovrebbero essere accompagnate da un maharam.

Come dice la nostra compagna Maryam Rawi di RAWA, “Oggi in Afghanistan è una grandissima sfida anche essere semplicemente un essere umano”.