Skip to main content

Autore: Patrizia Fabbri

Esperimenti di scuola democratica nell’Afghanistan dei Talebani

Circa 15 anni fa in una periferia di Milano avevamo lanciato una provocazione in un istituto particolarmente difficile, offrendo agli studenti un percorso sulla possibilità di riappropriarsi della scuola. Chiedemmo loro chi non vedesse l’ora di tornare a scuola, invitandoli a mettere in discussioni modello educativo e formativo. Il fulcro sarebbe stato l’incontro con dei coetanei afghani, ospiti di un’associazione locale del Coordinamento italiano a sostegno delle donne afghane (Cisda), che pur di studiare erano disposti a lottare e rischiare. Anche 15 anni fa in Afghanistan studiare era difficile, malgrado la propaganda dei governi occidentali che volevano giustificare l’occupazione e la guerra in corso camuffandola da intervento umanitario.

Un diritto all’istruzione tutto storto: sia per gli afghani resi orfani dalla guerra, costantemente a rischio, con il futuro ipotecato dall’occupazione straniera; sia per i giovani in Italia che spesso subivano la scuola come un peso imposto dagli adulti, impermeabile alla vita e al mondo. Quel progetto educativo d’avanguardia era stato sviluppato in oltre 40 anni di attività formativa da parte dell’Associazione rivoluzionaria delle donne afghane (Rawa) all’interno di campi profughi, case-famiglia, orfanotrofi, appartamenti autogestiti per sole ragazze, centri educativi aperti in quartieri strategici.

Luoghi in cui è maturata un’esperienza che ha permesso a molte persone di raggiungere un’alfabetizzazione di base ma anche, quando possibile, altissimi livelli di maturazione, comprensivi di una solida consapevolezza politica. Metodi consolidati, ancora oggi adattati, di volta in volta, alle nuove condizioni dei corsi “clandestini”, ma non solo. Perché fare scuola non significa soltanto trasmettere nozioni e solo una raffinata pedagogia della liberazione può contrastare la politica di annientamento del genere femminile attualmente in corso.

Una cattiva scuola è forse meglio di niente ma quella imposta dai Talebani ai bambini afghani oggi è davvero pessima, per maschi e femmine: il rigido controllo sugli insegnanti è mortificante e la dottrina religiosa integralista è il solo contenuto che viene impartito. L’unica nota positiva è poter uscire di casa e incontrare dei compagni.

In alternativa chi può permettersi di pagare una scuola privata, dove esiste, non esita a investire tutte le sue risorse per dare ai propri figli un’istruzione di livello adeguato. E il mercato del “privato” contribuisce a risollevare l’economia, in un contesto di stagnazione. Così, paradossalmente, i Talebani tollerano centri educativi a scopo di lucro inquadrati come business e registrati presso il ministero dell’Economia e del commercio, per far sì che il ministero dell’Educazione interferisca al minimo sulla loro gestione. I divieti imposti alle ragazze sono validi anche lì, ma fino al sesto grado, in classi separate per sesso, è possibile a volte studiare matematica, scienze, inglese, le lingue nazionali, informatica. C’è anche l’arte, ma non la musica, espressamente proibita anche in quei centri.

In queste maglie di privilegio, tra una popolazione che al 90% vive al di sotto della soglia di povertà e in preda alla fame, si insinuano esperimenti di scuola democratica: destinata prevalentemente ai più poveri, facendo risultare il pagamento di rette in realtà insostenibili per famiglie in gravi difficoltà, occultando ogni legame con donatori esteri, queste scuole selezionano personale insegnante di eccellenza. Posti di lavoro a supporto della crescita economica del territorio, gestiti secondo il modello educativo di Rawa. Accade anche in aree remote, ed è un peccato che a causa dei problemi di sicurezza non sia possibile pubblicare le foto di bambini e adulti coinvolti: i loro visi raccontano più delle parole.

Quelle che arrivano da un centro privato aperto a marzo 2023 in un’area rurale dell’interno (sperduta tra i monti, abitata da contadini e pastori) aiutano a comprendere il contesto. La priorità viene data alle bambine, con qualche classe separata per i maschi. Ogni mese i genitori vengono convocati in assemblea per discutere dei progressi dei loro figli ma anche della gestione della scuola, raccogliendo critiche e proposte: un esercizio di educazione popolare per adulti.

La popolazione locale apprezza l’iniziativa ed è pronta a sostenerla di fronte alle minacce che possono insorgere in qualsiasi momento. Questa è la garanzia di continuità di una anonima impresa commerciale femminile privata che potrebbe altrimenti venire spazzata via in qualsiasi momento. Nel mese di luglio un gruppo di studenti ha celebrato solennemente il passaggio a un successivo livello di lingua inglese, con tanto di premiazione. Nell’incontro pubblico, i ragazzi hanno raccontato l’importanza che ha per loro studiare: rielaborare a parole la propria esperienza e confrontarsi è il primo passo per prendere coscienza di sé e del mondo.

La maggior parte di loro appartiene a famiglie contadine. Mahdia, otto anni, ha raccontato che il papà era un poliziotto ed è stato ucciso durante il precedente governo, lasciando una famiglia di sei persone. La mamma ha dovuto sposare, secondo la tradizione, un fratello analfabeta del marito. Mahdia ricorda che il suo papà comprava cibo, vestiti, scarpe ed erano felici. Ora mangiare abbastanza è solo un sogno per loro.

Mujida appartiene invece a una famiglia di sette persone. Sua madre era la direttrice di una scuola e guadagnava abbastanza per mantenerli, ma quattro anni fa è morta di infarto. Hanno dovuto vendere tutto e trasferirsi alla ricerca di un’occupazione ma ora il padre lavora solo un paio di giorni alla settimana. “Certe sere papà torna a casa con le tasche vuote e vuole suicidarsi, ma poi pensa a noi figli, a cosa ci può succedere senza di lui, e si ferma. Da quando sono arrivati i Talebani la nostra vita è tragica”. Trovare le parole e lo spazio per dirlo, tra compagne solidali, celebrando un successo in un percorso di trasformazione, è fare scuola. Un modello da cui abbiamo tutto da imparare.

Pubblicato su Altreconomia n. 263

Gabriella Gagliardo è un’attivista di CISDA

Tribunale delle donne per le donne in migrazione. La testimonianza Nahid Akbari

Il 27 maggio 2023 si è tenuta la prima seduta del Tribunale delle donne nell’ambito del progetto “Da vittime a testimoni. Un Tribunale delle donne per i diritti delle donne in migrazione”. Le donne afghane presenti all’incontro hanno raccontato la loro esperienza.

In questo video la parola a Nahid Akbari che ha raccontato i cinque anni di viaggio per arrivare in Germania dall’Afghanistan attraverso Iran, Turchia, Grecia, Albania, Croazia. Racconta le violenze che non sono risparmiate né ai minori né alle donne incinte. Nahid testimonia le drammatiche condizioni di vita nei campi profughi, dove sono negati i diritti fondamentali come l’assistenza sanitaria o la scuola

Laboratori di educazione ai diritti umani nelle scuole

L’associazione CISDA ETS organizza gratuitamente laboratori di educazione ai diritti umani nelle scuole primarie (elementari), secondarie di primo grado (medie) e secondarie di secondo grado (superiori).

I laboratori possono essere agevolmente inseriti nelle programmazioni di Educazione Civica.

A partire dall’anno scolastico 2005, il CISDA ha svolto attività di questo tipo in numerose scuole di Milano e provincia, e su tutto il territorio nazionale dove la presenza di volontarie lo consenta. In alternativa, sono stati realizzati collegamenti on line. Le operatrici CISDA concordano con i docenti orari e modalità di lavoro.

L’obiettivo prioritario degli interventi formativi è quello di favorire un processo di approfondimento critico che possa avere delle ricadute sul percorso di acquisizione delle competenze attive di cittadinanza.

In caso di richiesta e compatibilmente con le necessità organizzative è possibile proporre alle scuole la testimonianza diretta di alcune attiviste afghane delle associazioni che il CISDA sostiene. Questi incontri generalmente sono molto partecipati e lasciano un segno indelebile nell’esperienza di crescita dei ragazzi coinvolti.

Anche per il prossimo anno scolastico si attiveranno numerosi laboratori nelle scuole del territorio nazionale pubblicati nel calendario eventi.
Se siete interessati a invitare una volontaria CISDA a tenere uno o più laboratori di educazione ai diritti e all’informazione critica nella vostra scuola scrivete a scuola@cisda.it .

Scarica le proposte per i diversi ordini di scuola.

Rimani aggiornato

Per tutte le News su #Scuole in Italia clicca qui

Continua a leggere

Dossier Afghanistan – I diritti negati delle donne afghane

Ormai uscito dai radar dei media nazionali e internazionali, l’Afghanistan è un paese allo stremo, stretto nella morsa dei talebani e alla mercé degli interessi geopolitici  ed economici di diversi paesi.

Se per tutta la popolazione afghana vivere è una sfida quotidiana, per le donne è un’impresa impervia.

In questo Dossier, CISDA ha voluto ripercorre le tappe principali della storia afghana, cercando di capire chi sono i talebani di oggi e realizzando approfondimenti tematici per comprendere qual è la situazione attuale del paese. Ma soprattutto ha voluto dar voce alle donne afghane raccogliendo le loro storie.

Questo vuol essere un primo documento di un più ampio progetto che, sotto il cappello di Dossier Afghanistan, intende aggregare e amplificare le diverse voci che sostengono il popolo afghano.

    Nome e Cognome*

    Email*

    Accetto la Privacy Policy

    Kobane

    2014. Al culmine della sua forza, con il controllo su metà della Siria e dell’Iraq, l’ISIS si spinge incessantemente verso la città curda siriana di Kobanê. Zehra, una donna curda di 32 anni, è un membro delle forze che combattono con tutte le loro forze per tenerli fuori. Ma nonostante i loro instancabili sforzi, l’ISIS continua ad avanzare con forza brutale.

    Mentre la guerra raggiunge il centro della città, il principale comandante della città, Rojwar, si spaventa e abbandona i suoi compagni combattenti. Avendo perso molti dei suoi amati compagni in guerra, Zehra è costretta a prendere il suo posto e guidare lei stessa la resistenza.

    L’avanzata spietata dell’ISIS viene rallentata dall’arrivo di Gelhat e dei suoi compagni, esperti guerriglieri che hanno familiarità con la guerra urbana. Ma la calma non dura a lungo: i curdi sono in inferiorità numerica e senza armi, e l’ISIS riesce ad assediare la città. Con numeri e risorse in diminuzione, la resistenza curda perde territorio giorno dopo giorno. Il loro piano per riconquistare la città va in pezzi quando l’ISIS lancia ferocemente un attacco schiacciante contro di loro da tutte le parti, e molti combattenti curdi cadono martiri, tra cui Gelhat.

    Nonostante tutto, Zehra e i suoi compagni non si arrendono e, mentre i membri dell’ISIS perdono il morale e iniziano a disperdersi, guida la rottura dell’assedio, segnando l’alba della liberazione della città.

    Questa è una storia di fede e paura, guerra e resistenza, cameratismo e tradimento; una storia di amore, perdita, eroismo e sacrificio insieme all’intensità della guerra e della rivoluzione. “Niente sarà più come prima”.

     

    Scheda tecnica

    Un film di Rojava Film Commune

    Diretto da Özlem Yaşar

    Prodotto da Diyar Hesso

    Direttore della Fotografia Cemîl Kizildag

    Montaggio Emilia Orsini

    Musica: Mehmûd Berazî

    Scrittori: Medya Doz – Özlem Yaşar

    Scenografie: Eva jin – Bager Cûdî

    Coproduttore: Alba Sotorra

    Sound Design: Sergio Lopez – Erana

    Effetto visivo: Jordi San Agustin

    Produzione Suono: Coni Docolomaniski

    Costumista: Kezî Kobanê

    Truccatore: Semar Brûsk

    Direttore di produzione: Medya Doz – Serdem Koçer – Ehmed Feqe

    Interpreti: Dijle Arjîn – Awar Elî – Rêger Azad – Xeyrî Garzan -Nejbîr Xanim

    Tutti i diritti riservati (Kobane Film) ©️ 2023

    Social media: Delil Xalid – Mar Garro Lleonart

     

    Imparare a cucire e tornare a vivere. Le sarte che sfidano i Talebani

    Un ronzìo sommesso, ininterrotto, come un silenzio abitato. Le voci dei bambini seduti in braccio alle mamme. Le macchine da cucire non si fermano, le mani accompagnano la stoffa. Un breve momento di sollievo, di gioia perfino, per le donne dai 13 ai 60 anni che sono qui, sedute a terra, ognuna davanti al suo banchetto di legno. Le vediamo attraverso lo schermo del pc, la nostra finestra aperta sulle loro vite. Qualcuna alza la testa, qualche breve sorriso timido, altre si coprono con il chador colorato. I burqa e gli hijab neri sono appesi fuori come tanti impiccati, qui non servono. Siamo a Kabul, all’interno di una scuola di cucito e alfabetizzazione gestita da un’associazione di cui non possiamo fare il nome per motivi di sicurezza. Una scuola segreta, come tutto ciò che ancora vive in Afghanistan.

    Le ragazze e le donne imparano a confezionare abiti, studiano il dari, la matematica, il disegno e l’arte. Per loro essere qui è una sfida quotidiana, un salto nel buio e nella speranza. Vengono a cucire la trama della loro resistenza all’oblìo, la vita sotterranea che ha ancora il sapore forte della scelta. Realizzano vestiti vivaci, riportano i colori nel mondo. Arrivare al corso è “la battaglia del mattino -come la definisce Sukria-. Quando attraverso quella porta e mi tolgo il burqa so che oggi ho vinto io, non loro. Ho conquistato un giorno nuovo. Posso respirare, imparare, esistere, stare con le altre, lavorare, condividere”.

    Vestito nero fino ai piedi, hijab lungo dello stesso colore e mascherina, oggi è questo il protocollo. Solo gli occhi segnalano la vita. Ma non basta a proteggerle. Hanno paura, tutte, ma continuano a venire. La strada è una trappola: molte di loro non hanno nessuno che possa svolgere il ruolo del mahram (il parente di sesso maschile che deve accompagnare le donne negli spazi pubblici) e si mettono in cammino da sole, esponendosi al rischio di essere fermate dai Talebani, interrogate e persino picchiate perché non hanno con sé un uomo che le sorveglia. Qualsiasi sciocchezza può degenerare. Tornano in mente gli annunci della Corte suprema talebana sulle decine di donne lapidate per “comportamenti scorretti”, le frustate pubbliche, le torture. Sanno che potrebbero sparire e nessuno direbbe nulla. “Persecuzione di genere” l’hanno definita le Nazioni Unite in un rapporto ufficiale pubblicato lo scorso maggio in cui si parla apertamente di crimini contro l’umanità.

    Ogni giorno, nelle moschee di tutto il Paese, la voce fanatica dei Talebani mette in guardia gli uomini: non devono lasciare che le loro mogli vadano a scuola o frequentino corsi di qualunque genere, perché imparano cose sbagliate e possono diventare indipendenti. La donna istruita li terrorizza. Potenzialmente ribelle.

    Quando Sukria ha annunciato in famiglia il suo desiderio di seguire questo corso i cognati si sono opposti e hanno litigato violentemente col marito, che non è totalmente contrario, e lo hanno riempito di botte. Hassan, il marito, non può più lavorare e Sukria al corso può imparare un mestiere per portare a casa qualche soldo: la fame è la sua alleata. Tutti in famiglia avranno bisogno del suo denaro quando potrà vendere gli abiti. Così è riuscita a spuntarla. Adesso, ogni mattina, si prepara a fronteggiare l’esercito dei parenti maschi: minacce, ricatti, insulti. Il loro piccolo orgoglio ferito cerca sempre una scusa nuova per chiuderle quel breve tempo di libertà. “Non ci riusciranno. Quando chiudo la porta sulle loro parole cattive, sento la vita che scorre -racconta-. Penso alle mie amiche, alle mie insegnanti che mi stanno aspettando. Ce la farò, anche stamattina”.

    Fino a qualche tempo fa, proprio dietro il paravento dei corsi di cucito -attività confinata nelle mura domestiche e tollerata dai Talebani- le insegnanti potevano gestire corsi di alfabetizzazione, inglese e materie scientifiche. Ora anche i corsi di cucito sono caduti sotto la mannaia talebana e sono entrati in clandestinità.

    Nooria ha più di sessant’anni, fa un po’ da nonna ai figli delle donne più giovani quando si stancano di stare in braccio alle mamme. Lei non si è mai sposata e vive con la madre: “Se si chiudesse questo corso io soffocherei, sarei schiacciata dai miei problemi psichici. È la mia medicina: essere qui mi fa imparare un lavoro per vivere, certo, ma è molto di più, è tutta la mia vita”. L’isolamento, la totale esclusione dalla vita sociale, la sparizione del futuro consumano la mente. I disturbi psichici aumentano, specialmente nelle giovani, crescono il numero dei suicidi e l’uso di droga. Su quattro milioni di tossicodipendenti, un milione sono donne. “Organizziamo scuole segrete in quattro province: Kabul, Farah, Kunduz e Jalalabad -ci dice la direttrice Nazifa-. Ricostruiscono la vita sociale scomparsa, danno la possibilità di lavorare da casa senza dover affrontare traumi, tengono occupate le mani e la mente e ridanno a queste ragazze la fiducia in se stesse”.

    Quest’attività è molto più difficile nelle province. Nazifa è appena tornata da Farah, una delle zone più tormentate dell’Afghanistan: un viaggio di 19 ore in automobile, assieme al marito. Non sarebbe stato possibile senza un mahram. I checkpoint sono tanti e ogni volta tengono in ostaggio i viaggiatori per ore. “La sorveglianza è strettissima nelle province -continua- la popolazione viene controllata rigidamente e l’intelligence dei Talebani è ovunque. Hijab obbligatorio, sempre, anche con le tremende temperature estive. Bisogna trovare appartamenti privati adatti alla scuola e non è facile. C’è molta paura. Ho ascoltato tante storie terribili: le ragazze spariscono, sempre più spesso, senza lasciare traccia, i suicidi di donne sono in aumento. Ma l’entusiasmo per imparare è lo stesso di Kabul”.

    La sicurezza è il problema principale. Quando la pressione del controllo talebano è troppo forte i corsi devono essere sospesi. Nella scuola della capitale c’è una donna fuori dalla porta, una sorvegliante che controlla l’ingresso delle studentesse: “Entrano alla spicciolata ma i Talebani ronzano qui intorno come mosconi e se si insospettiscono entrano -racconta Nazifa-. Abbiamo una cantina difficile da individuare e le ragazze con le insegnanti si nascondono lì. I nostri colleghi maschi vanno a trattare e io mi presento come un’insegnante di bambine piccole, ancora autorizzate a studiare. Poi, quando se ne vanno, torniamo ai nostri libri”.

    Ai corsi si impara anche ad affermare i propri diritti, a battersi per questa piccola luce di dignità ritrovata. “Qui arrivano i guai di tutte, le loro sofferenze, la paura -dice Nazifa-. E insieme cerchiamo di risolvere i problemi”. Le mani delle altre, i loro volti che ascoltano, i consigli, gli abbracci. È questa la forza che cresce nella stanza grande con le pareti spoglie e la stuoia a quadri per terra. Shirin mischia le parole alle lacrime mentre racconta. Un brutto giorno, un uomo si è presentato a casa sua con una proposta di matrimonio per lei ed è disposto a pagare tanti soldi. Nessuno lo conosce in famiglia. Così il padre si informa: è un Talebano, un pezzo grosso. Ha già mogli e figli ma vuole anche Shirin.

    Deve dire di no, insorgono le compagne. Loro saranno il suo coraggio. La cognata lotta al suo fianco all’interno della famiglia, pagando l’appoggio alla ribellione di Shirin con la violenza del marito. La ragazza minaccia il suicidio se la faranno sposare a quel bruto. Tiene duro. Il tempo passa. Alla fine il Talebano si trova un’altra moglie e Shirin è libera. Si guarda intorno, cerca le sue amiche con gli occhi, le sue guerriere di libertà. “Da sola non ce l’avrei mai fatta. Tutte le mie giornate, da che sono nata, sono passate dentro casa. Uno spazio di altri, senza luce né sogni. Ora, qui, è cambiato tutto. Ho visto che c’è un’altra vita fuori di casa, anzi c’è la vita. Conosco tante donne come me, condividiamo le nostre paure e le trasformiamo in forza. Ridiamo, perfino, e tanto. È molto divertente. L’allegria è importante per restare vive”. Ci mostra il suo quaderno, fierissima di aver imparato a scrivere correttamente. Ora vuole studiare l’inglese. È bella la nuova Shirin, ora che sorride.

    Pubblicato su Altreconomia n. 262

    Cristiana Cella, giornalista, scrittrice, sceneggiatrice. Segue le vicende afghane dal 1980, quando entrò clandestinamente a Kabul, vietata ai giornalisti, per documentare la resistenza della città contro l’invasione russa.  Dal 2009 fa parte del Direttivo dell’Associazione Cisda (Coordinamento Italiano Sostegno donne afghane), ha partecipato a diverse delegazioni in Afghanistan. Ha pubblicato un libro: ‘Sotto un cielo di stoffa. Avvocate a Kabul’, edito da Città del Sole Edizioni.