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Autore: Patrizia Fabbri

Vietato vivere: i principali diritti negati dai talebani

Le regole talebane entrano nella vita quotidiana, nel corpo e nella mente delle donne, condizionando ogni gesto, ogni azione. Rendendo la paura un normale e quotidiano stato d’animo. Disagi mentali e suicidi sono in aumento. Le trasgressioni sono punite con violenze fisiche e psicologiche, sia sulle donne che sui maschi della famiglia. Le carceri femminili sono piene di donne accusate di delitti morali.

Il seguente rapporto elenca alcuni dei decreti emessi dai talebani per limitare le donne afghane in diverse sfere della vita. Sono stati imposti dall’agosto 2021, una volta riportati al potere dagli Stati Uniti/NATO.

  • Annullato il diritto alla partecipazione alla vita pubblica e politica. Alle donne è vietato svolgere attività politiche e pubbliche.
  • Annullato il diritto di protesta. Sono state arrestate e torturate decine di donne coraggiose solo per aver organizzato manifestazioni per i loro diritti.
  • Annullato il diritto a ricoprire cariche governative.
  • Divieto di istruzione liceale per le ragazze al di sopra della sesta classe. Questo divieto ha aumentato la violenza contro le ragazze, compresi i matrimoni infantili e forzati. Nada Mohammad Nadim, ministro talebano dell’Istruzione superiore, ha dichiarato in un discorso: “Le ragazze nelle scuole sono oscene e immorali”.
  • Chiusura di scuole di musica e arti. Dalla fine di agosto 2021, sono stati chiusi tutti i centri che si occupavano di educazione musicale e artistica. È vietata la riproduzione di musica sui canali televisivi e radiofonici, così come nei matrimoni e in altre celebrazioni. Questo perché i Talebani considerano la musica “proibita” nell’Islam. Alcuni musicisti sono stati pubblicamente maltrattati, umiliati e arrestati, i loro strumenti musicali sono stati distrutti.
  • Divieto di praticare attività sportive. Divieto di praticare sport dall’8 settembre 2021: “Gli sport femminili sono attività inappropriate e non necessarie, perché i volti e i corpi dei giocatori non possono essere coperti, e questo non è permesso dalla Sharia”. Pertanto, le donne non hanno il diritto di fare attività fisica.
  • Segregazione sessuale negli spazi pubblici.
  • Creazione del ministero della “morale”. Il Ministero per gli Affari femminili diventa il “Ministero per la Propagazione della Virtù e la Prevenzione del Vizio”. Questo ministero è il principale organo del regime talebano che impone rigide regole islamiche, tra cui il codice di abbigliamento, l’obbligo di un mahram (padre, fratello, marito e figlio) che viaggi con le donne, il divieto di indossare scarpe bianche (perché il colore della bandiera talebana è il bianco!) e altre ancora. Le donne che non seguono queste regole possono anche essere arrestate.
  • Divieto di apparire in televisione. Secondo un ordine emesso dai Talebani nel novembre 2021, alle donne è vietato apparire e lavorare in televisione; e alle giornaliste e alle presentatrici è stato ordinato di coprirsi completamente il volto.
  • Restrizioni di viaggio. Il 26 dicembre 2021 i Talebani hanno imposto restrizioni agli spostamenti delle donne. Agli autisti è stato ordinato di non far salire le donne senza hijab. Le donne senza mahram non possono viaggiare da sole oltre una distanza di 72 chilometri. Alle donne non è consentito sedersi sul sedile anteriore delle auto e qualsiasi uomo e donna che viaggiano da soli vengono fermati e interrogati per determinare se l’uomo è il mahram della donna.
  • Imposizione dell’hijab. Alle donne è stato ordinato di indossare l’hijab nel gennaio 2022. I Talebani hanno anche creato un programma chiamato “osservanza dell’hijab”, installando cartelloni in città. Il 7 maggio 2022 è stato ordinato che tutte le donne devono coprirsi il volto nei luoghi pubblici e che in caso di violazione dell’ordine sarà punito il tutore maschile della donna. I membri della polizia religiosa possono fermare le donne per strada e costringerle a comprare un hijab nel mercato più vicino e solo allora potranno tornare a casa.
  • Divieto di guida. Nel maggio 2022, nella provincia di Herat è stato emesso un decreto che vieta alle donne di guidare e anche ai corsi di guida di insegnare alle donne.
  • Divieto di frequentare luoghi pubblici. Il 27 marzo 2022 è stato vietato alle donne di frequentare parchi ricreativi, bagni pubblici, parrucchieri e club sportivi.
  • Divieto di interazione tra studentesse e personale maschile. I Talebani hanno imposto restrizioni al personale delle università, impedendo loro di interagire con le studentesse. Alle studentesse non era inoltre consentito interagire con i compagni di classe maschi e partecipare alle loro cerimonie di laurea. Divieto di partecipazione delle ragazze ai corsi di formazione linguistica. Nel settembre 2022, i Talebani hanno ordinato ai centri di formazione linguistica di assumere insegnanti donne o sarebbero stati chiusi.
  • Divieto di scegliere diversi campi di studio. Alle ragazze è vietato scegliere l’indirizzo di studio nelle università. Nella prima settimana di ottobre 2022, quando le diplomate hanno sostenuto i test di ammissione all’università, è stato chiesto loro di non scegliere i campi dell’agricoltura, della medicina veterinaria, dell’ingegneria civile, dell’ingegneria mineraria, ecc. Due settimane dopo, è stato tolto alle ragazze anche il diritto di continuare a studiare a livello di master in campi come agricoltura, commercio, informatica e ingegneria.
  • Divieto di istruzione universitaria. Il 28 gennaio 2022 è stato ordinato a tutte le università private di non ammettere studentesse nel prossimo anno fino a nuovo avviso. Con l’emissione del decreto n. 2271 del 20 dicembre 2022, tutte le università pubbliche e private sono state chiuse alle ragazze a causa della “presenza di studentesse senza mahram nei dormitori”.
  • Messa al bando del diritto al lavoro. Alle donne è stato vietato di lavorare fuori casa e, in particolare, in organizzazioni non governative internazionali e nazionali. I Talebani non permettono alle donne nemmeno di lavorare da casa. Molti uffici sono stati costretti a licenziare le impiegate.
  • Controllo dei diritti riproduttivi. Imposizione di restrizioni alla pianificazione familiare a Kabul e in diverse altre province. A medici, operatori sanitari e farmacisti è stato ordinato di non prescrivere o vendere farmaci per il controllo delle nascite e per il potenziamento sessuale. In caso di violazione, il loro permesso di lavoro sarebbe stato confiscato.
  • Divieto di San Valentino. Il 14 febbraio 2023, i Talebani hanno dichiarato San Valentino una cultura blasfema e hanno picchiato alcuni venditori di fiori. Negozi e ristoranti sono stati costretti a chiudere in questo giorno.
  • Rimozione delle immagini femminili dai luoghi pubblici. Immagini di donne in spazi pubblici, tra cui saloni di bellezza, cartelloni pubblicitari, mercati, sale per matrimoni, corsi di istruzione e scuole private, cliniche private, ospedali pubblici e privati, sono state rimosse con la forza o deturpate con vernice nera. Anche la statua di una donna nel cortile dell’Università di Kabul è stata deturpata, rimossa e rotta.
  • Rimozione dei manichini femminili dai negozi. I negozi di abbigliamento non possono esporre manichini femminili. Nella provincia di Herat hanno costretto i negozianti a decapitare i manichini.
  • Divieto di pubblicare immagini di esseri viventi. I giornali governativi non hanno il diritto di pubblicare immagini di esseri viventi perché, dal punto di vista dei Talebani, nell’Islam è vietato stampare immagini di uomini e animali.
  • Restrizione nella fornitura di servizi governativi. Gli uffici governativi hanno il diritto di fornire servizi alle donne con hijab e mahram solo due volte alla settimana, mentre negli altri giorni alle donne è vietato entrare in qualsiasi ufficio governativo.

 

La resistenza democratica

Inizia a piovigginare. La gente arriva alla spicciolata e silenziosa, continua ad aumentare. La polizia in assetto antisommossa è schierata. Siamo al parco di Shahr-e-Naw, nel cuore di Kabul, nel novembre del 2019. Il governo ha vietato i cortei per le strade, troppi attentati. Si può protestare solo in questo recinto tra gli alberi, circondato da una rete di metallo, come un pollaio. La manifestazione è organizzata da Hambastagi, il Partito della solidarietà, l’unico laico, progressista e democratico del Paese. Si protesta contro la liberazione di tre Talebani, membri della potente rete Haqqani, in cambio di due professori americani, rapiti nel 2016. I tre tagliagole stanno per tornare in libertà e l’indignazione è forte tra la gente. Il recinto è ormai pieno e si decide, nonostante i divieti, di uscire dalla gabbia. Le persone si avvicinano, discretamente, stringono mani, sussurrano cauti la loro approvazione. In quel periodo gli iscritti al partito erano in crescita, circa 33mila: per lo più giovani, uomini e tante donne. Famiglie intere che lavoravano insieme per il loro Paese.

I militanti di Hambastagi c’erano sempre ad accoglierci all’uscita dell’aeroporto quando arrivavamo dall’Italia, con il loro entusiasmo e il loro incrollabile impegno. Stavano al nostro fianco per tutto il tempo in cui la delegazione CISDA restava in Afghanistan. La nostra sicurezza era nelle loro mani esperte: un pick-up con dieci uomini fidati e ben armati ci seguiva dappertutto. Guidavano i nostri passi, sorridenti e discreti. Loro sapevano, erano ben informati. I militanti del partito lavoravano un po’ dovunque: nel governo, nella polizia, perfino nei servizi segreti. Una rete informativa fondamentale per chi porta avanti un lavoro politico pericoloso, anche allora, prima del regime talebano. Ora possiamo incontrare Nassim, portavoce del Partito, soltanto per telefono.

 

Come vivono oggi i membri di Hambastagi?

Non possiamo più esporci. Manifestazioni e proteste pubbliche sono diventate molto pericolose, i Talebani fanno arresti di massa. I prigionieri, il più delle volte, spariscono. Anche qualcuno di noi è stato detenuto e torturato e siamo riusciti a salvarlo per miracolo. Il nostro partito era ufficialmente registrato: abbiamo bruciato tutti i documenti ma chi si era esposto di più, anche in tv, e ha scelto di rimanere nel Paese, deve cambiare casa in continuazione per sopravvivere. Ormai lavoriamo in clandestinità e portiamo aiuto alla popolazione devastata dalla povertà, che riguarda ormai anche la classe media, senza più risparmi; sosteniamo, accanto all’Associazione rivoluzionaria delle donne afghane (RAWA) e alle militanti del partito, le necessità e le speranze delle donne.

I Talebani avevano promesso che ci sarebbe stata più sicurezza, è così?

No, purtroppo. Quasi ogni giorno ci sono attacchi suicidi, combattimenti, esplosioni ma sui media non se ne parla. Sono notizie censurate.

Chi sono i responsabili? ISIS, Talebani?

Entrambi. La guerra tra ISIS Khorasan e Talebani è scatenata. Il primo ha basi forti in Afghanistan, soprattutto nel Nord-Est, raccoglie gruppi e miliziani scontenti dei Talebani. Cercano di destabilizzare il governo in tutti i modi, anche provocando rappresaglie. Coltivano l’odio della popolazione che porta nuovi adepti al loro gruppo. Anche le rivalità tra le diverse fazioni dei Talebani sfociano spesso in attacchi armati. Poi ci sono gli scontri interetnici.

Quali scenari aprirebbe un collasso del governo?

L’ennesima guerra civile. Potrebbe succedere, ce l’aspettiamo, magari non subito. Per ora nessuno Stato estero ha interesse a eliminare i Talebani e loro staranno insieme finché avranno soldi da dividersi.

Da dove arrivano questi soldi?

Hanno i proventi del traffico di droga e del contrabbando, ci sono le tasse che riscuotono regolarmente. Per aumentarle, in questa situazione di crisi economica, incoraggiano molto le imprese private. Se porti denaro puoi aggirare anche le loro regole. La corruzione è altissima. Dalle Nazioni Unite arrivano al governo 40 milioni di dollari a settimana, formalmente per l’aiuto umanitario.

Sappiamo da nostre fonti come li dividono: ogni capo militare prende la propria parte e la distribuisce alle sue milizie e per la gente affamata rimane molto poco. I Talebani non fanno nessun report di spesa all’ONU. È probabile che, nelle clausole segrete degli accordi di Doha, fosse anche previsto il sostegno economico, per vie traverse, al governo installato con la partenza degli americani.

Ci sono ingerenze esterne all’Afghanistan?

I Paesi esteri usano le fazioni talebane per contrastare le altre potenze e proteggere i propri interessi. Oltre agli Stati Uniti ci sono Cina, Iran, Pakistan, Russia, i sauditi e i Paesi del golfo. Ognuno arma i suoi Talebani o i suoi jihadisti.

Come si sta muovendo la Cina?

Pechino è molto presente in Afghanistan, un’avanzata non gradita dagli altri competitor sul terreno, soprattutto dagli Usa. Hanno iniziato parecchi progetti soprattutto nel Nord per estrarre gas e petrolio. Poi ci sono litio, rame, ferro: si accordano con i Talebani per lo sfruttamento delle miniere. A Kabul hanno la loro ambasciata, ristoranti e alberghi. Lo scorso dicembre uno di questi è stato fatto saltare in aria.

Qual è il gioco del Qatar?

È sempre stato un mediatore tra Talebani e Usa, è sempre coinvolto in ogni trattativa e fa da ponte nel sostegno ai Talebani da parte degli americani. Anche questo, presumibilmente, era negli accordi segreti di Doha. Qatar, Emirati e Turchia hanno poi fornito soldi e protezione a molti warlords, come Mohamed Atta, o Dostum e a membri del passato governo, come Ashraf Ghani. Hanno lasciato il campo libero in cambio di una vita ricca e protetta in questi Paesi.

 

Prima di salutarlo gli chiediamo se si è fatto crescere la barba. “Non c’è un ordine preciso e io ne approfitto -risponde Nassim-. Con gli uomini i Talebani non sono così accaniti come lo sono con le donne, dipende da chi ti trovi davanti. Con la barba ‘giusta’ sei più tranquillo ma io continuo a tagliarla con soddisfazione, ogni mattina, e mi vesto come mi avete sempre visto: con jeans e maglione. Una piccola forma di protesta privata”.

Afghanistan Ieri – Una storia che viene da lontano

L’analisi della storia recente dell’Afghanistan non può prescindere dalla, seppur sintetica, illustrazione di aspetti cardine della società afghana. Li riassumiamo raggruppandoli in tre principali ambiti: collocazione geografica, frammentazione etnica e tribale, interpretazione dell’Islam e della sharia.

  • Collocazione geografica. Senza risalire alle vicende più antiche, il ruolo geopolitico dell’area ne ha determinato la storia degli ultimi due secoli: “stato cuscinetto” tra impero russo e impero britannico nell’Ottocento; ultimo campo di battaglia, negli anni ‘80 del XX secolo, tra URSS, prossima al tracollo, e Stati Uniti, intenzionati a garantirsi il ruolo di fautori dell’ordine mondiale; rotta del progettato oleodotto che avrebbe consentito il transito degli idrocarburi centro asiatici verso il Mar Arabico, evitando l’Iran.
  • Frammentazione etnica e società tribale. Si stima che i gruppi etnici presenti in Afghanistan (vedi figura) siano oltre 50 e che vi si parlino 30 lingue, tra le quali le più diffuse sono il pashto e il dari. L’appartenenza etnica e quella religiosa si intrecciano (pashtun, tagiki, uzbeki e turkmeni sono sunniti, la minoranza hazara è sciita), caratterizzando rapporti di potere consolidati nel tempo: i pashtun, fin dal XVIII secolo, hanno fornito la classe dirigente del paese spartendosi il potere con i tagiki, secondo gruppo etnico, mentre gli hazara sono sempre stati vittima di discriminazione. I principali gruppi etnici hanno un proprio “codice morale” (pashtunwali per l’etnia pashtun) i cui elementi di base sono molto simili: ospitalità, vendetta, autonomia e onore. Le etnie si intersecano, per la maggior parte dei gruppi etnici, con una società basata su tribù. Come ben illustra Elisa Giunchi nel suo libro sull’Afghanistan, etnie e tribù sono però concetti “fluidi”: “La tribù, al pari dell’etnia, non è un gruppo chiuso e internamente omogeneo: è composto da cerchi concentrici di solidarietà di tipo clanico, familiare e geografico che continuamente, a seconda delle circostanze, creano e disfano alleanze. Il gruppo di solidarietà primario (qaum) è, quindi, situazionale e relativo. Ne risulta un quadro estremamente instabile…” e con il quale il potere centrale deve necessariamente misurarsi.
  • Interpretazione dell’Islam e della sharia. In una realtà così frammentata, l’Islam è il solo riferimento comune per tutti gli afghani. Fino agli anni ’90 del secolo scorso l’Islam afghano era fortemente influenzato dal sufismo, riconoscendosi in una dimensione mistica dell’Islam, tanto che l’Afghanistan era considerato la patria dei santi sufi. Il sufismo ha plasmato la società e la politica afgane per gran parte della storia del paese, ma il primo governo talebano (1996-2001) ne ha proibito ogni pratica e da allora quella dominante è un’interpretazione fondamentalista dell’Islam e soprattutto della sharia, il codice “imposto da Dio”.
Le etnie afghane

 

La donna nella società tradizionale afghana

Essenziale per inquadrare la condizione della donna in Afghanistan è comprendere bene il tema del “codice morale” che connette le varie etnie e tribù. Citiamo ancora Giunchi: “In tutto il paese, al di là dell’eterogeneità etnica e dei particolarismi regionali, l’onore definisce il prestigio del qaum e dei suoi componenti. L’onore risiede nella capacità di proteggere la proprietà su zan, zar e zamin (rispettivamente: donne, oro, terra) ed è legato in maniera particolare al comportamento femminile: l’onore del qaum dipende non solo dalla castità delle donne nubili e dalla fedeltà di quelle coniugate, ma dalla modestia dei loro comportamenti e dalla loro obbedienza a padri e mariti. Ogni forma di devianza può diventare una violazione dell’onore, che si riflette su tutto il gruppo di appartenenza”.

Un codice conforme con la sharia (per alcuni aspetti addirittura più restrittivo), la cui applicazione ha trovato quindi consenso e terreno fertile. Ben prima che i talebani lo imponessero, la tradizione, soprattutto nelle aree rurali, sottoponeva le donne afghane a pesanti restrizioni: “Le donne sono scambiate per risolvere dispute fra gruppi; raramente sono mandate a scuola, godono di scarsa libertà di movimento e hanno quindi un accesso limitato alle strutture sanitarie; sono sottoposte al volere del padre e, dopo il matrimonio, a quello del marito…”.

Il lento processo di modernizzazione

Per la descrizione puntuale dei fatti si rimanda alla lettura della Cronologia, qui si cercherà di evidenziare i tratti salienti di ogni periodo e l’impatto che questi hanno avuto nella vita delle donne afghane.

Dopo la parziale vittoria degli afghani nel terzo conflitto con l’impero Britannico e il riconoscimento della piena indipendenza nel 1921, il re Amanullah, forte dei consensi sia dell’élite urbana nazionalista sia delle aree più conservatrici, inizia un periodo di riforme. Nel 1923 viene promulgata una Costituzione che riconosce l’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge; si cerca di scoraggiare l’uso del velo e la segregazione imposta alle donne; viene incoraggiata l’istruzione femminile; viene promulgato un codice di famiglia che vieta i matrimoni precoci e pone un limite alle spese matrimoniali; si cerca di attuare una riforma amministrativa che assegna agli uffici governativi il compito di regolare alcune dispute relative alla sfera familiare, fino ad allora prerogativa dei capitribù.

Le riforme di Amanullah, che si affiancano alla riorganizzazione del sistema fiscale per finanziare il nuovo assetto del paese, provocano la reazione di una società ancorata alla tradizione. Il re viene deposto, ma la salita al potere, nel 1933, di Zahir Shah segna la ripresa del processo di graduale modernizzazione. Con la nomina di Mohammed Daud a primo ministro, le riforme si allargano allo status giuridico delle donne provocando però la reazione degli ambienti rurali. Nel 1964 viene promulgata una nuova Costituzione che legalizza i partiti politici, riconosce la libertà di stampa e sancisce la priorità delle leggi emanate dal Parlamento rispetto alla sharia, sebbene stabilisca che “la legislazione statale non avrebbe potuto violare i principi fondamentali dell’Islam”.

Sul versante internazionale, nonostante il sovrano abbia una politica filoinglese, negli anni ‘50 vi è un avvicinamento all’URSS, motivato sostanzialmente dal contenzioso riguardante i territori pashtun situati in Pakistan, a oriente della Linea Durand (il controverso confine stabilito nel 1893 tra Afghanistan e impero britannico, non riconosciuto dagli afghani dopo la creazione del Pakistan nel 1947).

Le aperture di Zahir Shah e Daud portano a un’effervescenza intellettuale nelle città con la nascita, da un lato, di movimenti comunisti che spingono per un’accelerazione del cambiamento e, dall’altro, di gruppi islamisti contrari al processo di modernizzazione e intenzionati a sostituire la monarchia con uno stato islamico basato sulla sharia. Nel 1965 viene fondato il Partito popolare democratico dell’Afghanistan (PDPA) mentre negli ambienti fondamentalisti universitari si formano alcuni dei principali protagonisti della scena politica e militare degli anni successivi. Nello stesso anno nasce l’Organizzazione della Gioventù Comunista (OGP) che si differenzia dal PDPA per la posizione filo-maoista (non dimentichiamo che, nella galassia comunista, sono gli anni della forte contrapposizione tra partiti filo-sovietici e movimenti filo-maoisti). Il movimento Shùlai, nome con il quale i maoisti sono conosciuti in Afghanistan, rimane clandestino e si fa promotore delle rivolte studentesche, contadine e operaie che contraddistinguono il ’68 afghano.

Una scommessa persa

Agli inizi degli anni ‘70 del secolo scorso, l’Afghanistan è costantemente in bilico tra spinte progressiste e rivolte, fomentate dai mullah, contro ogni riforma. Contestualmente le condizioni economiche del paese non migliorano e, anche a causa di un prolungato periodo di siccità, la povertà dilaga, alimentando ulteriormente le proteste. Il colpo di stato del 1973 sostituisce la monarchia costituzionale con la repubblica presidenziale guidata da Daud. A seguito di un’ondata di arresti, i capi dei gruppi islamisti (tra cui Hekmatyar, Rabbani e Massud) si rifugiano a Peshawar dove ottengono il sostegno del governo pakistano, dell’islamismo locale e dei servizi segreti.

Mentre in campo internazionale l’avvicinamento all’URSS accelera, all’interno del paese si restringono quelle libertà precedentemente acquisite e nel 1977 viene emanata una nuova Costituzione che definisce la nuova repubblica presidenziale basata su un parlamento unicamerale e un partito unico. Il 1977 è anche l’anno in cui l’attivista Meena Keshwar Kamal fonda RAWA (Revolutionary Association of the Women of Afghanistan) con la missione di lottare per l’uguaglianza e la giustizia sociale delle donne, per i diritti fondamentali all’istruzione, alla difesa legale, alle cure mediche e per la liberazione dalla povertà e dalla violenza.

Meena Keshwar Kamal
Meena Keshwar Kamal fonda RAWA (Revolutionary Association of the Women of Afghanistan) nel 1977

L’anno successivo, il colpo di stato per mano del PDPA (la cosiddetta Rivoluzione di Saur, ossia di aprile) rovescia Daud portando al potere Taraki e poi Amin. Il nuovo governo si contraddistingue per una durissima repressione degli oppositori politici (migliaia di appartenenti al movimento Shùlai vengono arrestati o uccisi) e per un’accelerazione di quelle riforme che andavano a incidere così profondamente nella tradizione afghana, imposte però in modo autoritario e senza considerare i delicati equilibri della società rurale. Il risultato è un’opposizione che assume svariate forme: contro le politiche autoritarie e repressive; contro lo smantellamento di una vita scandita da tradizione e Islam; contro un governo quasi totalmente pashtun da parte delle minoranze hazara e tagika; dei gruppi islamisti fomentati dal Pakistan.

Intanto gli USA, che con la rivoluzione khomeinista del febbraio 1979 in Iran erano rimasti orfani del loro alleato strategico nell’area, vedono nel caos afghano l’aprirsi di una nuova opportunità: “Dare all’URSS la sua guerra del Vietnam”, come dichiarerà vent’anni dopo l’ex consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti Zbigniew Brzezinski, svelando che la CIA era stata autorizzata dal presidente Carter a inviare aiuti agli oppositori al regime di Kabul già nel luglio 1979; Brzezinski ammette che l’Amministrazione aveva “consapevolmente aumentato la probabilità” che i sovietici intervenissero militarmente.

Tre quarti del paese sono coinvolti nelle rivolte. Amin chiede la protezione sovietica e nel dicembre 1979 le truppe dell’URSS entrano in Afghanistan.

L’invasione sovietica e il consolidarsi  dei fondamentalisti islamici

Mentre a Kabul si svolgono massicce manifestazioni studentesche antisovietiche, a Peshawar, in Pakistan, la resistenza armata contro i sovietici si organizza in gruppi islamisti (mujaheddin) caratterizzati da un’unica, comune visione della società basata su quel codice morale descritto prima e sulla sharia come ordinamento giuridico di riferimento. Ma non i soli a combattere, armi alla mano, gli invasori sovietici: varie formazioni progressiste, purtroppo frammentate e carenti di una direzione unitaria, si oppongono ai sovietici e ai gruppi fondamentalisti, consapevoli che un futuro governo dei mujaheddin islamisti sarebbe stato catastrofico per il paese. La guerra su due fronti che questi gruppi hanno dovuto combattere li ha decimati, registrando migliaia di morti. I sopravvissuti hanno saputo però tenere in vita le loro battaglie democratiche e laiche negli anni a venire.

Saranno però i gruppi islamisti ad avere il sostegno economico, militare e strategico di: USA, in chiave anti-sovietica; Arabia Saudita, per rafforzare le proprie credenziali islamiche (soprattutto in funzione anti Iran); Pakistan, per soffocare le rivendicazioni pashtun sul territorio pakistano. Secondo il giornalista Ahmed Rashid, sommando i contributi ricevuti dai loro tre principali sostenitori e da altre fonti, negli anni ‘80 i mujaheddin hanno ricevuto più di 10 miliardi di dollari: “Prima della guerra gli islamisti riscuotevano un debole consenso nella società afghana ma, con i soldi e le armi ricevuti dalla CIA e con l’appoggio del Pakistan, erano riusciti ad allargare la loro base e a esercitare una fortissima influenza”.

C’è poi un altro elemento che rafforza questi gruppi, e che avrà un impatto devastante nel futuro dell’Afghanistan: negli anni della guerra, migliaia di volontari provenienti da 40 diversi paesi confluiscono nei campi profughi in Pakistan per andare a combattere in Afghanistan. Con conseguenze che non sono limitate all’area: è lo stesso numero due di al-Qaeda, Ayman al-Zawahiri, a sostenere che in quegli anni l’Afghanistan ha rappresentato l’incubatrice del movimento jihadista.

Negli anni dell’occupazione, intanto, RAWA prosegue la propria opera di sensibilizzazione e sostegno alla popolazione, ma a partire dal marzo 1982 la fondatrice Meena, che verrà assassinata nel 1987, e la direzione dell’organizzazione si trasferiscono in Pakistan dove, nel campo profughi di Quetta, fondano le scuole Watan per i bambini e le donne dei campi, offrendo loro sia un rifugio sia percorsi di istruzione e formazione professionale.

I signori della guerra e la comparsa dei talebani

Dopo 9 anni di guerra, con stime di civili uccisi che vanno da 600mila a 2 milioni, oltre 7 milioni di profughi tra Pakistan, Iran e interni, nel febbraio 1989 le truppe sovietiche si ritirano dall’Afghanistan, lasciando al potere il regime fantoccio di Najibullah contro il quale i mujaheddin continuano a combattere fino alla completa conquista del paese nel 1992.

Alla deposizione di Najibullah, viene proclamata la Repubblica islamica dell’Afghanistan; il nuovo governo, guidato da Rabbani, con Massud ministro della Difesa e Sayyaf dell’Interno, emette subito una serie di decreti per imporre una visione oscurantista della società, obbligando, per esempio, le donne a indossare il burqa.

Il paese è devastato e tutt’altro che pacificato: tra il 1992 e il 1996 i diversi gruppi islamisti si contendono il potere nelle varie aree del paese e le già labili differenze ideologiche lasciano il posto agli interessi particolaristici dei diversi gruppi, con un alternarsi di alleanze, tradimenti, cambi di posizione che è difficile seguire. Dostum, Massud, Hekmatyar, Sayyaf, Rabbani, Ismail Khan sono i “signori della guerra” che, nell’indifferenza della comunità internazionale, si scontrano sulla testa del popolo afghano macchiandosi, tutti indistintamente, di crimini contro i civili. Oltre agli orrori degli scontri armati e dei bombardamenti, la popolazione afghana è sottoposta a soprusi di ogni genere, con posti di blocco che paralizzano ogni tipo di commercio e l’imposizione di “dazi” e gabelle che affamano un popolo già ridotto allo stremo.

Ed è proprio in questo contesto che fanno la loro comparsa i talebani. Gli “studenti” formatisi nelle madrase di Peshawar si ergono a paladini della “legalità” e proprio perché promettono di porre fine alle angherie dei “signori della guerra” trovano inizialmente il consenso della popolazione, in particolare nella zona di Kandahar dove la situazione è particolarmente degradata. Ma soprattutto la comparsa dei talebani è sostenuta da Pakistan e Arabia Saudita, preoccupati per l’ingovernabilità del paese e, una volta conquistata Kabul e fondato, nel 1996, l’Emirato Islamico dell’Afghanistan, è vista con favore anche dagli USA: da un lato i talebani vanno a contrastare l’influenza che l’Iran ha su alcuni gruppi islamisti (Hekmatyar), dall’altro una stabilizzazione può consentire di realizzare quell’oleodotto tanto importante per gli americani ai fini dello sfruttamento dei giacimenti del Mar Caspio (non dimentichiamo che sono gli anni del caos post-sovietico e che quindi il suo smantellamento ha solleticato vari appetiti).

1996-2001: gli anni del terrore talebano

Divieto di consumare carne di maiale e alcool, obbligo per gli uomini di farsi crescere la barba, istituzione di un corpo di polizia “per la diffusione della virtù e la prevenzione del vizio”, pena di morte per adulterio mediante fustigazione per gli uomini e lapidazione per le donne, taglio delle mani e in certi casi anche di un piede per i delinquenti comuni, divieto di tutte le attività creative (televisione, musica, cinema, teatri, videogiochi, scacchi, aquiloni), rigida applicazione della sharia e del pashtunwali in tutto il paese. È questa la vita imposta dai talebani agli afghani, ma chi paga il prezzo maggiore sono, ancora una volta, le donne: oltre all’obbligo del burqa si aggiungono il divieto di viaggiare senza essere accompagnate, la sospensione di ogni forma di istruzione e l’espulsione da scuole e università, il divieto di lavorare, nessun tipo di protezione contro le violenze domestiche che, al contrario, vengono giustificate, il divieto di farsi visitare da un medico maschio, cosa che significa divieto alle cure.

Negli anni del regime talebano, l’Afghanistan è anche diventato il principale produttore mondiale di oppio: si stima che nel 2000, il 75% della produzione mondiale di oppio avvenisse in Afghanistan. I talebani controllano il 96% dei campi di papaveri e fanno della tassazione dell’oppio la loro fonte tributaria principale. Intanto le fazioni di mujaheddin che avevano dilaniato il paese combattendo tra di loro, si riuniscono nel Fronte islamico unito per la salvezza dell’Afghanistan, conosciuto in Occidente come Alleanza del Nord, continuando a combattere i talebani. Con la caduta di Mazar-i Shariff nel 1998, tutte le maggiori città e strade sono sotto il controllo dei talebani, mentre l’Alleanza del Nord controlla solo una limitata porzione di territorio nel nordest del paese.

Infine, l’Afghanistan diventa il rifugio sicuro di gruppi terroristici islamisti, primo fra tutti al Qaeda.

Ira e “pax” americane

11 settembre 2001. Gli attentati suicidi negli USA organizzati da al Qaeda provocano 2.977 morti e oltre 6.000 feriti. Il presidente americano intima al governo dei talebani di collaborare alla persecuzione dei responsabili e, scaduto l’inascoltato ultimatum, il 7 ottobre lancia l’operazione militare Enduring Freedom con intensi bombardamenti sul paese a sostegno della resistenza anti-talebana dell’Alleanza del Nord. Nel giro di poco più di un mese i talebani sono costretti a lasciare le principali città e a rifugiarsi nelle montagne.

Fin dall’inizio delle operazioni USA, varie organizzazioni si oppongono all’invasione: alcune, ancora legate al movimento maoista, operano nella clandestinità, ma nel 2003 (in vista delle elezioni presidenziali del 2004) nasce il partito Hambastagi, di ispirazione laica e democratica che si batte contro ogni forma di fondamentalismo islamico, contro l’occupazione straniera e per una democrazia laica che garantisca diritti a tutti, specialmente alle donne.

Nel 2006 il controllo delle operazioni in Afghanistan passa alla NATO con la missione ISAF fino al 2014 e poi, fino al luglio 2021, con la missione Resolute Support.

Ricordando di fare riferimento al riquadro per la Cronologia dettagliata, qui andiamo a sintetizzare le caratteristiche dei 20 anni che precedono il “ritorno” dei talebani focalizzandoci sui 4 protagonisti: il governo di Kabul, la NATO, i talebani e il popolo afghano.

Il governo di Kabul

Alla guida del paese si succedono, in questi 20 anni, Hamid Karzai e Ashraf Ghani con elezioni parlamentari e presidenziali sempre oggetto di forti contestazioni. Ma indipendentemente da chi siede sulla poltrona del presidente, i governi afghani si caratterizzano per:

  • livelli altissimi di corruzione: a partire dal 2002 sull’Afghanistan piovono cascate di dollari destinate a equipaggiare l’esercito afghano, costruire le infrastrutture e sostenere lo sviluppo di un paese poverissimo, ma quello che arriva al popolo afghano non sono che poche gocce e la maggior parte di questi soldi finisce nelle mani di chi siede nei vari centri di potere;
  • presenza maggioritaria di fondamentalisti: fin dalle prime elezioni del 2005 siedono in parlamento i leader dei gruppi fondamentalisti e, negli anni successivi, a seguito del “piano nazionale per la riconciliazione e la reintegrazione dei talebani moderati” promosso da Karzai, esponenti del passato regime talebano entrano a vario titolo nella compagine governativa;
  • mancato controllo del paese: il governo centrale controlla di fatto solo Kabul e alcune grandi città mentre il resto del paese è nelle mani dei signori della guerra locali e dei talebani.

La Nato

Il sostanziale fallimento dell’intervento NATO è riconducibile a molteplici fattori: mancata pacificazione del paese ed elevato numero dei morti tra i civili; scarsa conoscenza delle dinamiche relazionali della società afghana con conseguente conferimento di potere a intermediari che hanno depredato la popolazione degli aiuti destinati a progetti di sviluppo; un addestramento inadeguato delle forze di sicurezza afghane, oltre alla sopravvalutazione del loro numero (i 350 mila soldati dell’esercito afghano erano probabilmente meno della metà: i numeri erano in parte gonfiati dal governo nazionale e in parte dai comandanti locali dell’esercito, che in questo modo potevano intascare i salari dei soldati che avevano abbandonato o disertato).

I talebani

I talebani non sono mai spariti dalla scena politica dell’Afghanistan e dal 2009/2010 sono riusciti progressivamente a controllare parti sempre più ampie del paese potendo godere del sostegno, sebbene non ufficiale, di Pakistan, Qatar e Arabia Saudita. Il traffico dell’oppio ha rappresentato, e continua a rappresentare, un’importante fonte di finanziamento.

Il popolo afghano

Se gli interventi umanitari giunti nel paese dopo la caduta dei talebani del 2001 hanno in parte alleviato la condizione di estrema povertà nella quale versava il popolo afghano, il risultato non è commisurato all’entità dello sforzo. Come abbiamo visto nei diversi approfondimenti, in 20 anni non si è riusciti a costruire un’economia alternativa a quella sostanzialmente basata sulla coltivazione del papavero e la lavorazione dell’oppio. Infine, le tanto decantate conquiste sul tema della libertà per le donne: se è vero che in questi 20 anni per alcune donne si sono aperti i mondi dell’istruzione e del lavoro è anche vero che questo è avvenuto quasi esclusivamente nelle città, lasciando le aree rurali alla mercé delle tradizionali relazioni prevaricatrici e oppressive.

Il “ritorno” dei talebani

Alla luce di quanto appena scritto, parlare di “ritorno” dei talebani per descrivere quanto avvenuto nel 2021 è decisamente inappropriato.

L’accelerazione del processo che porterà alla capitolazione del 15 agosto 2021 si ha a partire dal 29 febbraio 2020 quando, dopo due anni di accordi più o meno segreti tra emissari statunitensi e talebani, viene siglato l’Accordo di Doha che chiude formalmente il conflitto tra USA e talebani e prevede il totale ritiro delle forze armate USA dall’Afghanistan entro il 31 agosto 2021. Nel maggio 2021 ha inizio l’offensiva talebana che, nel giro di quattro mesi, porterà alla conquista dell’intero paese. E mentre le forze di sicurezza afghane si dissolvono come neve al sole, Ashraf Ghani fugge precipitosamente e gli ultimi soldati americani si imbarcano sugli aerei che li riporteranno in patria, nell’aeroporto di Kabul si consuma l’epilogo di 20 anni di occupazione NATO con le tragiche scene che tutti ricordiamo.

Appena insediati a Kabul i talebani proclamano la “seconda edizione” dell’Emirato Islamico dell’Afghanistan.

 

Shelter per donne vittime di violenza

In Afghanistan nove donne su dieci hanno subito qualche forma di violenza in famiglia o dal proprio partner. Questi dati risalgono al 2009 e sono confermati o addirittura peggiorati dopo l’avvento dei Talebani.  Non sono più vietati i matrimoni forzati quindi le bambine vengono date in sposa ai miliziani a fronte di un compenso economico che consente alle famiglie di sopravvivere e di avere una bocca in meno da sfamare.

Il progetto prevedeva una serie di interventi integrati finalizzati alla lotta alla violenza nei confronti delle donne, da un lato promuovendo il loro empowerment sociale, economico e legale e dall’altro l’affermazione della cultura dei diritti umani delle donne attraverso l’educazione alla legalità e il rafforzamento del sistema di giustizia.

Veniva fornita gratuitamente assistenza legale, psicologica e sanitaria quando necessario, e le donne erano supportate in tribunale per ottenere giustizia e un risarcimento per i crimini subiti. Le attività del progetto erano rafforzate sulla base delle relazioni stabilite con le organizzazioni di base, le ong locali già operanti sui temi dei diritti delle donne e con le istituzioni di riferimento: il MoWA, il Ministero degli interni, le centrali di polizia, le carceri.

Dall’agosto 2021 gli “Shelter” – Case rifugio per donne vittime di violenza – sono stati chiusi per ovvi motivi di sicurezza.

Non sono disponibili informazioni su attività alternative, ma i nostri partner sono sempre vicini alle donne vittime di violenza.

Emergenza Covid

L’emergenza Covid ha portato con sé gravi conseguenze finanziarie in tutto il mondo. Mentre molti paesi avanzati sviluppano i loro piani per affrontare questa crisi, il governo afghano non ha avviato nessuna iniziativa significativa per aiutare la popolazione.

La maggioranza della popolazione afghana ha sofferto per i problemi correlati alla quarantena in quanto lavoratori a giornata, donne e bambini non hanno potuto svolgere le piccole attività che permettevano loro di sopravvivere.

Le attività promosse da Hawca

Considerando questo problema fondamentale, Hawca con il sostegno dei suoi donatori ha iniziato una distribuzione di cibo d’emergenza per le famiglie più vulnerabili. Cisda ha reagito immediatamente alla situazione inviando ad Hawca i contributi necessari al sostegno d’emergenza di numerose famiglie. Il pacco alimentare conteneva 50 kg di farina, 10 kg di riso, fagioli, 5 litri di olio, 4 litri di disinfettante, prodotti per l’igiene personale e mascherine di protezione.

La lista dei beneficiari è stata creata realizzando un’indagine per identificare le donne maggiormente a rischio e le loro famiglie. Per la sicurezza dello staff e delle donne, i pacchi sono stati consegnati a domicilio e sono state documentate le consegne con foto. Questa distribuzione ha fatto sì che le famiglie potessero avere sufficiente cibo e detergenti per i successivi 2-3 mesi.

Il risultato di questa distribuzione alimentare è consistita in:

  • Protezione dal Covid-19
  • Prevenzione della malnutrizione di donne e bambini
  • Prevenzione di diverse forme di abuso e violenza
  • Diffusione di informazioni e consapevolezza sull’epidemia Covid-19 e su altre questioni sanitarie

In Afghanistan acquistare grandi quantità di merci consente di ottenere prezzi ridotti, per cui i fondi ricevuti hanno permesso di aiutare in tutto 500 famiglie. Hawca ha investito complessivamente 31.101,00 euro, di cui 10.000 donati Cisda, 20.000 da KNH (Kindernothilfe) e i restanti 1.101 da Hawca.

Le attività promosse da OPAWC

Il progetto di educazione sanitaria di prevenzione del Coronavirus con distribuzione gratuita di mascherine ha trovato l’adesione della popolazione più povera e a rischio.

Lavoratori di strada, donne e bambini che si sono rivolti ai Centri sanitari di Opawc a Kabul e a Farah (al confine con l’Iran, una delle zone più colpite) hanno ricevuto le 80.000 mascherine autoprodotte dalle attiviste di Opawc.

L’attività ha raggiunto anche la provincia di Nangarhar, attraverso il Vocational Training Center che l’associazione gestisce in quell’area al confine con il Pakistan

Vocational Training Center

Il progetto promosso da OPAWC, COSPE e CISDA è stato finanziato da Regione Toscana, Nomad e SAWA (Support Association for the Women of Afghanistan Australia).
Ha avuto inizio nel 2007 con un finanziamento di 60.000 euro. Il progetto prevedeva un corso di alfabetizzazione per adulte e di avviamento professionale.