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Autore: Patrizia Fabbri

Laboratori di educazione ai diritti umani nelle scuole

L’associazione CISDA ETS organizza gratuitamente laboratori di educazione ai diritti umani nelle scuole primarie (elementari), secondarie di primo grado (medie) e secondarie di secondo grado (superiori).

I laboratori possono essere agevolmente inseriti nelle programmazioni di Educazione Civica.

A partire dall’anno scolastico 2005, il CISDA ha svolto attività di questo tipo in numerose scuole di Milano e provincia, e su tutto il territorio nazionale dove la presenza di volontarie lo consenta. In alternativa, sono stati realizzati collegamenti on line. Le operatrici CISDA concordano con i docenti orari e modalità di lavoro.

L’obiettivo prioritario degli interventi formativi è quello di favorire un processo di approfondimento critico che possa avere delle ricadute sul percorso di acquisizione delle competenze attive di cittadinanza.

In caso di richiesta e compatibilmente con le necessità organizzative è possibile proporre alle scuole la testimonianza diretta di alcune attiviste afghane delle associazioni che il CISDA sostiene. Questi incontri generalmente sono molto partecipati e lasciano un segno indelebile nell’esperienza di crescita dei ragazzi coinvolti.

Anche per il prossimo anno scolastico si attiveranno numerosi laboratori nelle scuole del territorio nazionale pubblicati nel calendario eventi.
Se siete interessati a invitare una volontaria CISDA a tenere uno o più laboratori di educazione ai diritti e all’informazione critica nella vostra scuola scrivete a scuola@cisda.it .

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Dossier Afghanistan – I diritti negati delle donne afghane

Ormai uscito dai radar dei media nazionali e internazionali, l’Afghanistan è un paese allo stremo, stretto nella morsa dei talebani e alla mercé degli interessi geopolitici  ed economici di diversi paesi.

Se per tutta la popolazione afghana vivere è una sfida quotidiana, per le donne è un’impresa impervia.

In questo Dossier, CISDA ha voluto ripercorre le tappe principali della storia afghana, cercando di capire chi sono i talebani di oggi e realizzando approfondimenti tematici per comprendere qual è la situazione attuale del paese. Ma soprattutto ha voluto dar voce alle donne afghane raccogliendo le loro storie.

Questo vuol essere un primo documento di un più ampio progetto che, sotto il cappello di Dossier Afghanistan, intende aggregare e amplificare le diverse voci che sostengono il popolo afghano.

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    Kobane

    2014. Al culmine della sua forza, con il controllo su metà della Siria e dell’Iraq, l’ISIS si spinge incessantemente verso la città curda siriana di Kobanê. Zehra, una donna curda di 32 anni, è un membro delle forze che combattono con tutte le loro forze per tenerli fuori. Ma nonostante i loro instancabili sforzi, l’ISIS continua ad avanzare con forza brutale.

    Mentre la guerra raggiunge il centro della città, il principale comandante della città, Rojwar, si spaventa e abbandona i suoi compagni combattenti. Avendo perso molti dei suoi amati compagni in guerra, Zehra è costretta a prendere il suo posto e guidare lei stessa la resistenza.

    L’avanzata spietata dell’ISIS viene rallentata dall’arrivo di Gelhat e dei suoi compagni, esperti guerriglieri che hanno familiarità con la guerra urbana. Ma la calma non dura a lungo: i curdi sono in inferiorità numerica e senza armi, e l’ISIS riesce ad assediare la città. Con numeri e risorse in diminuzione, la resistenza curda perde territorio giorno dopo giorno. Il loro piano per riconquistare la città va in pezzi quando l’ISIS lancia ferocemente un attacco schiacciante contro di loro da tutte le parti, e molti combattenti curdi cadono martiri, tra cui Gelhat.

    Nonostante tutto, Zehra e i suoi compagni non si arrendono e, mentre i membri dell’ISIS perdono il morale e iniziano a disperdersi, guida la rottura dell’assedio, segnando l’alba della liberazione della città.

    Questa è una storia di fede e paura, guerra e resistenza, cameratismo e tradimento; una storia di amore, perdita, eroismo e sacrificio insieme all’intensità della guerra e della rivoluzione. “Niente sarà più come prima”.

     

    Scheda tecnica

    Un film di Rojava Film Commune

    Diretto da Özlem Yaşar

    Prodotto da Diyar Hesso

    Direttore della Fotografia Cemîl Kizildag

    Montaggio Emilia Orsini

    Musica: Mehmûd Berazî

    Scrittori: Medya Doz – Özlem Yaşar

    Scenografie: Eva jin – Bager Cûdî

    Coproduttore: Alba Sotorra

    Sound Design: Sergio Lopez – Erana

    Effetto visivo: Jordi San Agustin

    Produzione Suono: Coni Docolomaniski

    Costumista: Kezî Kobanê

    Truccatore: Semar Brûsk

    Direttore di produzione: Medya Doz – Serdem Koçer – Ehmed Feqe

    Interpreti: Dijle Arjîn – Awar Elî – Rêger Azad – Xeyrî Garzan -Nejbîr Xanim

    Tutti i diritti riservati (Kobane Film) ©️ 2023

    Social media: Delil Xalid – Mar Garro Lleonart

     

    Imparare a cucire e tornare a vivere. Le sarte che sfidano i Talebani

    Un ronzìo sommesso, ininterrotto, come un silenzio abitato. Le voci dei bambini seduti in braccio alle mamme. Le macchine da cucire non si fermano, le mani accompagnano la stoffa. Un breve momento di sollievo, di gioia perfino, per le donne dai 13 ai 60 anni che sono qui, sedute a terra, ognuna davanti al suo banchetto di legno. Le vediamo attraverso lo schermo del pc, la nostra finestra aperta sulle loro vite. Qualcuna alza la testa, qualche breve sorriso timido, altre si coprono con il chador colorato. I burqa e gli hijab neri sono appesi fuori come tanti impiccati, qui non servono. Siamo a Kabul, all’interno di una scuola di cucito e alfabetizzazione gestita da un’associazione di cui non possiamo fare il nome per motivi di sicurezza. Una scuola segreta, come tutto ciò che ancora vive in Afghanistan.

    Le ragazze e le donne imparano a confezionare abiti, studiano il dari, la matematica, il disegno e l’arte. Per loro essere qui è una sfida quotidiana, un salto nel buio e nella speranza. Vengono a cucire la trama della loro resistenza all’oblìo, la vita sotterranea che ha ancora il sapore forte della scelta. Realizzano vestiti vivaci, riportano i colori nel mondo. Arrivare al corso è “la battaglia del mattino -come la definisce Sukria-. Quando attraverso quella porta e mi tolgo il burqa so che oggi ho vinto io, non loro. Ho conquistato un giorno nuovo. Posso respirare, imparare, esistere, stare con le altre, lavorare, condividere”.

    Vestito nero fino ai piedi, hijab lungo dello stesso colore e mascherina, oggi è questo il protocollo. Solo gli occhi segnalano la vita. Ma non basta a proteggerle. Hanno paura, tutte, ma continuano a venire. La strada è una trappola: molte di loro non hanno nessuno che possa svolgere il ruolo del mahram (il parente di sesso maschile che deve accompagnare le donne negli spazi pubblici) e si mettono in cammino da sole, esponendosi al rischio di essere fermate dai Talebani, interrogate e persino picchiate perché non hanno con sé un uomo che le sorveglia. Qualsiasi sciocchezza può degenerare. Tornano in mente gli annunci della Corte suprema talebana sulle decine di donne lapidate per “comportamenti scorretti”, le frustate pubbliche, le torture. Sanno che potrebbero sparire e nessuno direbbe nulla. “Persecuzione di genere” l’hanno definita le Nazioni Unite in un rapporto ufficiale pubblicato lo scorso maggio in cui si parla apertamente di crimini contro l’umanità.

    Ogni giorno, nelle moschee di tutto il Paese, la voce fanatica dei Talebani mette in guardia gli uomini: non devono lasciare che le loro mogli vadano a scuola o frequentino corsi di qualunque genere, perché imparano cose sbagliate e possono diventare indipendenti. La donna istruita li terrorizza. Potenzialmente ribelle.

    Quando Sukria ha annunciato in famiglia il suo desiderio di seguire questo corso i cognati si sono opposti e hanno litigato violentemente col marito, che non è totalmente contrario, e lo hanno riempito di botte. Hassan, il marito, non può più lavorare e Sukria al corso può imparare un mestiere per portare a casa qualche soldo: la fame è la sua alleata. Tutti in famiglia avranno bisogno del suo denaro quando potrà vendere gli abiti. Così è riuscita a spuntarla. Adesso, ogni mattina, si prepara a fronteggiare l’esercito dei parenti maschi: minacce, ricatti, insulti. Il loro piccolo orgoglio ferito cerca sempre una scusa nuova per chiuderle quel breve tempo di libertà. “Non ci riusciranno. Quando chiudo la porta sulle loro parole cattive, sento la vita che scorre -racconta-. Penso alle mie amiche, alle mie insegnanti che mi stanno aspettando. Ce la farò, anche stamattina”.

    Fino a qualche tempo fa, proprio dietro il paravento dei corsi di cucito -attività confinata nelle mura domestiche e tollerata dai Talebani- le insegnanti potevano gestire corsi di alfabetizzazione, inglese e materie scientifiche. Ora anche i corsi di cucito sono caduti sotto la mannaia talebana e sono entrati in clandestinità.

    Nooria ha più di sessant’anni, fa un po’ da nonna ai figli delle donne più giovani quando si stancano di stare in braccio alle mamme. Lei non si è mai sposata e vive con la madre: “Se si chiudesse questo corso io soffocherei, sarei schiacciata dai miei problemi psichici. È la mia medicina: essere qui mi fa imparare un lavoro per vivere, certo, ma è molto di più, è tutta la mia vita”. L’isolamento, la totale esclusione dalla vita sociale, la sparizione del futuro consumano la mente. I disturbi psichici aumentano, specialmente nelle giovani, crescono il numero dei suicidi e l’uso di droga. Su quattro milioni di tossicodipendenti, un milione sono donne. “Organizziamo scuole segrete in quattro province: Kabul, Farah, Kunduz e Jalalabad -ci dice la direttrice Nazifa-. Ricostruiscono la vita sociale scomparsa, danno la possibilità di lavorare da casa senza dover affrontare traumi, tengono occupate le mani e la mente e ridanno a queste ragazze la fiducia in se stesse”.

    Quest’attività è molto più difficile nelle province. Nazifa è appena tornata da Farah, una delle zone più tormentate dell’Afghanistan: un viaggio di 19 ore in automobile, assieme al marito. Non sarebbe stato possibile senza un mahram. I checkpoint sono tanti e ogni volta tengono in ostaggio i viaggiatori per ore. “La sorveglianza è strettissima nelle province -continua- la popolazione viene controllata rigidamente e l’intelligence dei Talebani è ovunque. Hijab obbligatorio, sempre, anche con le tremende temperature estive. Bisogna trovare appartamenti privati adatti alla scuola e non è facile. C’è molta paura. Ho ascoltato tante storie terribili: le ragazze spariscono, sempre più spesso, senza lasciare traccia, i suicidi di donne sono in aumento. Ma l’entusiasmo per imparare è lo stesso di Kabul”.

    La sicurezza è il problema principale. Quando la pressione del controllo talebano è troppo forte i corsi devono essere sospesi. Nella scuola della capitale c’è una donna fuori dalla porta, una sorvegliante che controlla l’ingresso delle studentesse: “Entrano alla spicciolata ma i Talebani ronzano qui intorno come mosconi e se si insospettiscono entrano -racconta Nazifa-. Abbiamo una cantina difficile da individuare e le ragazze con le insegnanti si nascondono lì. I nostri colleghi maschi vanno a trattare e io mi presento come un’insegnante di bambine piccole, ancora autorizzate a studiare. Poi, quando se ne vanno, torniamo ai nostri libri”.

    Ai corsi si impara anche ad affermare i propri diritti, a battersi per questa piccola luce di dignità ritrovata. “Qui arrivano i guai di tutte, le loro sofferenze, la paura -dice Nazifa-. E insieme cerchiamo di risolvere i problemi”. Le mani delle altre, i loro volti che ascoltano, i consigli, gli abbracci. È questa la forza che cresce nella stanza grande con le pareti spoglie e la stuoia a quadri per terra. Shirin mischia le parole alle lacrime mentre racconta. Un brutto giorno, un uomo si è presentato a casa sua con una proposta di matrimonio per lei ed è disposto a pagare tanti soldi. Nessuno lo conosce in famiglia. Così il padre si informa: è un Talebano, un pezzo grosso. Ha già mogli e figli ma vuole anche Shirin.

    Deve dire di no, insorgono le compagne. Loro saranno il suo coraggio. La cognata lotta al suo fianco all’interno della famiglia, pagando l’appoggio alla ribellione di Shirin con la violenza del marito. La ragazza minaccia il suicidio se la faranno sposare a quel bruto. Tiene duro. Il tempo passa. Alla fine il Talebano si trova un’altra moglie e Shirin è libera. Si guarda intorno, cerca le sue amiche con gli occhi, le sue guerriere di libertà. “Da sola non ce l’avrei mai fatta. Tutte le mie giornate, da che sono nata, sono passate dentro casa. Uno spazio di altri, senza luce né sogni. Ora, qui, è cambiato tutto. Ho visto che c’è un’altra vita fuori di casa, anzi c’è la vita. Conosco tante donne come me, condividiamo le nostre paure e le trasformiamo in forza. Ridiamo, perfino, e tanto. È molto divertente. L’allegria è importante per restare vive”. Ci mostra il suo quaderno, fierissima di aver imparato a scrivere correttamente. Ora vuole studiare l’inglese. È bella la nuova Shirin, ora che sorride.

    Pubblicato su Altreconomia n. 262

    Afghanistan Oggi – La vita sotto i talebani

    Fame, violenza, diritti negati, buio sono le parole che rappresentano l’Afghanistan oggi. Un buio metaforico, nell’anima, perché la repressione si insinua in ogni momento della vita degli afghani, e un buio reale perché, come ci raccontano le attiviste di RAWA (Associazione rivoluzionaria delle donne afghane) “l’instabilità dell’elettricità ha sprofondato le città in un’oscurità cupa”.

    28,3 milioni di afghani, su una popolazione stimata di 43 milioni, nel 2023 avranno bisogno di assistenza umanitaria. Una cifra enorme, due terzi della popolazione, dove fame e indigenza assoluta colpiscono principalmente bambini, 54%, cioè più di 15 milioni, e donne, 23%, ossia più di 6,5 milioni. L’inflazione è alle stelle: nel novembre 2022, il prezzo medio del gasolio era superiore del 76% rispetto a due anni prima e quello di un chilo di farina è aumentato del 26% all’anno. Al rincaro dei prezzi corrisponde il calo del reddito familiare mensile: – 17% nel 2022 sul 2021 (dati Unocha 2023).

    Con il blocco del sostegno internazionale allo sviluppo, che copriva il 75% del bilancio del Paese, l’Afghanistan è piombato in una catastrofe economica. Una catastrofe che ha le sue radici nella corruzione degli esponenti dei governi passati, sostenuti da NATO e ONU, durante i quali della pioggia di miliardi di dollari in aiuti umanitari e di sostegno allo sviluppo, solo poche gocce sono arrivate alla popolazione (che oltretutto nelle aree controllate dai talebani, e non solo, doveva sottostare a varie forme di estorsione). E sul destino degli aiuti umanitari, che l’ONU oggi continua inviare in Afghanistan, vengono sollevati non pochi dubbi: “C’è un forte scontro interno ai talebani, con fazioni di vario tipo, ma per ora stanno insieme e continueranno a farlo finché ci saranno soldi da dividersi. Soldi che arrivano dalle tasse e dall’estero… formalmente arrivano come aiuto umanitario, ma giungono a destinazione in minima parte”, ci ha detto un rappresentante di Hambastagi, partito laico e progressista fondato nel 2004 e che oggi opera in clandestinità.

    Ad aggravare la situazione vi è il fatto che l’Afghanistan è altamente soggetto a pericoli naturali, le cui frequenza e intensità sono esacerbate dagli effetti del cambiamento climatico e dai limiti strutturali nella mitigazione dell’impatto dei disastri. Il Paese sta affrontando una prolungata siccità (si entra nel terzo anno consecutivo), alla quale si aggiungono inondazioni e terremoti, che nel 2022 sono stati più frequenti che negli anni precedenti e, ovviamente, la pandemia da Covid-19. Inoltre, con più di 40 anni di conflitti armati, l’Afghanistan ha oggi uno dei più alti livelli di contaminazione da ordigni esplosivi al mondo.

    I diritti umani calpestati

    La Costituzione del 2004 è stata sospesa e, con un definitivo colpo di spugna, tutte le norme e i regolamenti redatti dall’ex Repubblica sono stati automaticamente abbandonati perché contrari alla sharia. Repressi la libertà di espressione, associazione, il diritto a un processo equo e, più in generale, i più elementari diritti umani.

    Molti giornalisti sono stati arrestati, picchiati e torturati, solo per aver cercato di raccontare quello che stava succedendo nel paese, come evidenzia Amnesty International nel suo ultimo rapporto. Una repressione facilitata dal sistema Hiide di rilevamento dei dati biometrici dei cittadini afghani, implementato dagli USA e che si ritiene sia finito nelle mani dei talebani dopo il ritiro degli americani, e dall’Afghan Personnel and Pay System (Apps), database governativo che contiene circa mezzo milione di record relativi a membri dell’esercito e della polizia afghani.

    Sempre nel Report di Amnesty International, si legge: “I talebani hanno iniziato a mettere a morte e fustigare pubblicamente persone per reati come omicidio, furto, relazioni “illegittime” o violazioni delle norme sociali. Secondo gli esperti delle Nazioni Unite per i diritti umani, tra il 18 novembre e il 16 dicembre [2022], più di 100 persone sono state fustigate pubblicamente negli stadi di diverse province. A dicembre, le autorità talebane hanno effettuato la loro prima esecuzione pubblica nella provincia di Farah, alla presenza di alti funzionari talebani, tra cui il vice primo ministro, ministri e il capo della Corte suprema”.

    “Le città sono fortemente militarizzate. I talebani sono molto ben equipaggiati… hanno armi, tecnologia, e con questi equipaggiamenti più moderni e sofisticati cercano di spaventare la popolazione. Le perquisizioni sono frequenti: rovistano dappertutto, anche tra i vestiti delle donne, nelle loro cose. È il loro modo di terrorizzare la popolazione, di mostrare il loro controllo totale”, ci dicono le donne di RAWA.

    Sono ormai 7 milioni gli afghani che, con vari status (tra cui 2,1 milioni di rifugiati registrati), vivono al di fuori del Paese; tra di loro moltissimi professionisti, il che comporta un ulteriore impoverimento del Paese. Inoltre, in alcune aree si continua a combattere, ma soprattutto non diminuiscono gli attentati compiuti dall’ISIS-K: “I talebani avevano fatto passare il messaggio che non ci sarebbe più stata criminalità e ci sarebbe stata più sicurezza. Ma non è così, tutto continua come prima”, ci dice l’attivista di Hambastagi, la sola differenza è che i talebani hanno chiuso quasi tutti i media e quindi è più difficile sapere quello che succede.

    L’abisso delle donne afghane

    Segregate in casa, costrette al silenzio, vittime di una società già storicamente discriminante nei confronti delle ragazze e delle donne, le afghane sono ripiombate nell’incubo del primo periodo talebano (1996-2001). Già da settembre 2021, contravvenendo a qualsiasi promessa fatta nel corso degli accordi di Doha, è iniziata la discriminazione nei loro confronti e oggi la vita delle donne è contraddistinta da divieti e obblighi che le rinchiudono in una soffocante prigione.

    Come vedremo nelle pagine focalizzate sui singoli aspetti, alle imposizioni del governo si affianca un aumento della violenza domestica, compresi i matrimoni forzati, che trova le sue radici nella società tradizionale afghana e che rimane ormai totalmente impunita. Inoltre, permane un forte senso di insicurezza e instabilità perché l’applicazione dei decreti è incoerente e imprevedibile, vengono emessi e attuati da autorità diverse, rendendo così più difficile per le donne sapere cosa è permesso e cosa non lo è.

    Soprattutto tra le giovani aumentano ansia e depressione e gli specialisti, come si legge in un reportage della BBC di giugno 2023, parlano di una vera e propria “pandemia di pensieri suicidi”: “Voglio solo che qualcuno ascolti la mia voce. Soffro e non sono l’unica. La maggior parte delle ragazze della mia classe ha avuto pensieri suicidi. Soffriamo tutte di depressione e ansia. Non abbiamo speranza”, sono le parale di una giovane studentessa universitaria che ha tentato il suicidio dopo che i talebani hanno impedito alle ragazze di frequentare l’università.

    L’opposizione ai talebani

    Così come negli anni ‘80 la stampa occidentale era rimasta folgorata dal carisma di Ahmad Shah Massoud, oggi ha “eletto” a rappresentante dell’opposizione ai talebani il figlio Ahmad, del Fronte di Resistenza Nazionale. Ma il FRN rimane un gruppo basato su una visione fondamentalista e misogina della società ed è una riedizione di quel Fronte islamico unito per la salvezza dell’Afghanistan (in Occidente conosciuto come Alleanza del Nord) che, sebbene abbia combattuto contro i sovietici e i talebani del primo periodo, si è macchiato di crimini contro la popolazione afghana nei sanguinosi anni dei “signori della guerra” (1992-1996), come testimoniato da Human Rights Watch.. Infine, il giovane Massoud, che ha vissuto e studiato a Londra, è poco conosciuto in patria.

    Continua invece in clandestinità la resistenza di organizzazioni come RAWA e Hambastagi che, tra mille difficoltà, cercano di opporsi all’oppressione talebana (come vedremo nelle storie raccontate di seguito).

    Il governo talebano e la comunità internazionale

    Nonostante fino ai primi mesi del 2023 nessun paese abbia ufficialmente riconosciuto l’Emirato, non mancano i contatti bilaterali. Oltre alle strette relazioni con Pakistan e Qatar, i talebani mantengono legami economici con Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti.

    India, Russia, Iran e Cina sono invece mossi dalla comune preoccupazione che l’Afghanistan diventi rifugio e incubatore di movimenti jihadisti nell’area. E quale rimedio migliore del sostegno economico? Per ora sembra essere la Cina la meglio posizionata con la recente firma del contratto per l’esplorazione e l’estrazione di petrolio nel nord dell’Afghanistan (un investimento da 540 milioni di dollari in 3 anni). Contrapposto l’interesse degli USA ai quali sostenere un’attività jihadista in funzione anti Iran, Cina e Russia non spiace affatto.

    Non secondario il discorso economico. Secondo l’Istituto Geologico degli Stati Uniti (Usgs), nel sottosuolo afghano potrebbero essere presenti fino a 60 milioni di tonnellate di rame e 2,2 miliardi di tonnellate di ferro, oltre a cobalto, oro e altri metalli preziosi. Ma soprattutto 1,4 milioni di tonnellate del nuovo oro delle società digitali, le cosiddette terre rare, come litio, lantanio, cerio, neodimio. Quindi, avere contatti con i talebani interessa un po’ a tutti, i paesi occidentali devono però fare i conti con la propria opinione pubblica: UE e ONU hanno dichiarato di condizionare il riconoscimento dell’Emirato islamico dell’Afghanistan al rispetto dei diritti umani, di quelli di donne e ragazze e alla costruzione di un governo inclusivo per genere ed etnia. Ma, dicono le attiviste di RAWA, “un governo ‘inclusivo’ sarebbe una catastrofe. Significherebbe includere esponenti del passato regime, fondamentalisti e misogini quanto i talebani. E proprio in quanto tali disposti a condividere con loro il potere. E non sarebbe un vantaggio per le donne afghane nemmeno se tra loro sedessero anche esponenti femminili, legate a quelle famiglie e a quei partiti: la loro presenza servirebbe solo a legittimare il sistema vigente, senza portare alcuna differenza sostanziale”.

     

     

    Afghanistan Today – Life Under the Taliban

    Hunger, violence, denied rights, darkness. These are the words that represent Afghanistan today. A metaphorical darkness, in the soul, because repression creeps into every moment of Afghan life, and a real darkness because, as the activists of RAWA, the Revolutionary Association of Afghanistan Women, tell us, “the instability of electricity has plunged the cities into a gloomy darkness”.

    28.3 million Afghans, out of an estimated population of 43 million, will need humanitarian assistance in 2023. A huge figure, two thirds of the population, where hunger and absolute poverty mainly affect children, 54%, or more than 15 million, and women, 23%, or more than 6.5 million. Inflation is skyrocketing: in November 2022, the average price of diesel was 76% higher than two years earlier and that of a kilo of flour increased by 26% per year. The increase in prices is met by a drop in monthly family income: 17% in 2022 compared to 2021 (UNOCHA 2023 data).

    With the interruption of international developmental support, which covered 75% of the country’s budget, Afghanistan plummeted into an economic catastrophe. A catastrophe that has its roots in the corruption of the leaders of the past governments, supported by NATO and the UN, under which only a few drops of the billions-of-dollar showers in humanitarian aid and developmental support reached the population (who, moreover, in the areas controlled by the Taliban, had to submit to various forms of extortion). And about the fate of the humanitarian aid that the UN continues to send to Afghanistan today, some doubts are raised: “There is a strong internal clash within the Taliban, with factions of various types, but for now they are staying together and will continue to do so as long as there is money to share. Money that comes from taxes and from abroad… formally it arrives as humanitarian aid, but only a minimal part reaches its destination”, a representative of Hambastagi, a secular and progressive party founded in 2004 and which operates clandestinely today, told us (In the following pages there is the complete interview).

    To worsen the situation, Afghanistan is highly prone to natural hazards, the frequency and intensity of which are exacerbated by the effects of climate change and by the structural limitations in mitigating the impact of disasters. The country is facing a prolonged drought (we are entering the third consecutive year), to which floods and earthquakes must be added, which were more frequent in 2022 than in previous years, and, obviously, the COVID-19 pandemic. Moreover, with more than 40 years of armed conflict, Afghanistan has one of the highest levels of explosive devices’ contamination in the world today.

    Trampled-on human rights

    The 2004 Constitution has been suspended and, with a final clean-up, all the rules and regulations drawn up by the former Republic have been automatically abandoned because they were contrary to sharia. Freedom of expression, association, the right to a fair trial and, more generally, the most basic human rights have been repressed. Many journalists have been arrested, beaten and tortured, just for trying to report what was happening in the country (Amnesty International). A repression facilitated by the HIIDE system, able to detect biometric data of Afghan citizens, implemented by the US and believed to have ended up in the hands of the Taliban after the American retreat, and by the Afghan Personnel and Pay System (APPS) government database, which contains about half a million records relating to members of the Afghan military and police.

    “Cities are heavily militarized. The Taliban are very well equipped…weapons, technology, and with this more modern and sophisticated equipment they try to scare the population. Searches are frequent: they rummage everywhere, even in women’s clothes, in their belongings. It is their way of terrorizing the population, of showing their total control,” RAWA tells us.

    There are now 7 million Afghans who, in various statuses (including 2.1 million registered refugees), live outside the country; among them, many professionals, meaning a further impoverishment of the country. Furthermore, in some areas, fighting continues, but, especially, the attacks carried out by ISIS-K do not decrease: “The Taliban passed on the message that there would no longer be crime and there would be more security. But that’s not the case, everything continues as before”, the Hambastagi activist tells us. The only difference is that the Taliban have shut down almost all the media and therefore it is more difficult to know what is happening.

    The abyss of Afghan women

    Segregated at home, forced to remain silent, victims of a society that has historically discriminated against girls and women, Afghan women have plunged back into the nightmare of the first Taliban period (1996-2001). In September 2021, in violation of any promise made during the Doha agreements, discrimination against them had already started and today women:

    • Are denied access to secondary schools and universities;
    • Have been ordered to cover themselves completely, including their faces, in public, and, in general, to stay at home. They are also not allowed to make long-distance journeys if not accompanied by a man;
    • Are forbidden from entering parks, amusement parks, gyms and public toilets;
    • Are forbidden to work for NGOs;
    • Have severe restrictions regarding working opportunities

    The government’s impositions are accompanied by an increase in domestic violence, including forced marriage, which has its roots in traditional Afghan society, and which now remains totally unpunished. And where bans and tradition are not enough, it is fear that forces women not to go out: “It is said that the Taliban take girls to give them to their soldiers and therefore their families prevent them from going out into the streets, even to buy bread. And there are more and more girls who, locked up at home, without being able to go to school, show sleep and mental disorders”, they say from Kabul.

    Furthermore, a strong sense of insecurity and instability remains, because the application of the decrees is inconsistent and unpredictable. In fact, the decrees are issued and implemented by different authorities, thus making it more difficult for women to know what is allowed and what is not.

    Opposition to the Taliban

    Just as in the 1980s the Western press was struck by the charisma of Ahmad Shah Massoud, today it has “elected” his son Ahmad, of the National Resistance Front, as representative of the opposition to the Taliban. But the FRN remains a group based on a fundamentalist and misogynist vision of society and is a reissue of the United Islamic Front for the Salvation of Afghanistan (known in the West as the Northern Alliance). Furthermore, although the Front fought against the Soviets and the Taliban in the first period, it was guilty of crimes against the Afghan population (Human Rights Watch) in the bloody years of the “warlords” (1992-1996). Finally, the young Massoud, who lived and studied in London, is little known at home.

    Instead, the underground resistance of organizations such as RAWA and Hambastagi continues, which, with great difficulties, try to oppose the Taliban oppression.

    The Taliban government and the international community

    Although until the first months of 2023 no country has officially recognized the Emirate yet, there is no shortage of bilateral contacts. In addition to close relations with Pakistan and Qatar, the Taliban maintains economic ties with Saudi Arabia and the United Arab Emirates.

    India, Russia, Iran and China are instead moved by the common concern that Afghanistan will become a haven and an incubator for jihadist movements in the area. And what better remedy than economic support? For now, China seems to be in the best position, with the recent signing of a contract for oil search and extraction in northern Afghanistan (an investment of 540 million dollars over 3 years). Opposite is the interest of the USA, who do not mind at all a jihadist activity in Iran, China and Russia.

    The economic matter is not secondary. According to the United States Geological Institute (USGS), up to 60 million tons of copper and 2.2 billion tons of iron could be present in the Afghan subsoil, as well as cobalt, gold and other precious metals, but, especially, 1.4 million tons of the new gold of digital companies, the so-called rare-earth elements, such as lithium, lanthanum, cerium, neodymium.

    Therefore, having contacts with the Taliban is in everyone’s interest, but Western countries must deal with their own public opinion: the EU and the UN have declared that the recognition of the Islamic Emirate of Afghanistan is conditional on the respect of human rights, of the rights of women and girls and on the building of an inclusive government across gender and ethnicity. But, the RAWA activists say that “an ‘inclusive’ government would be a catastrophe. It would mean including exponents of the past regime, fundamentalist and misogynist like the Taliban, and, precisely for this reason, willing to share power with them. And, even if among them there were female representatives, linked to those families and those parties, it would not be an advantage for Afghan women: their presence would only be used to legitimize the current system, without making any substantial difference.”