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Autore: Patrizia Fabbri

Freshta Khatera

Ero ancora una bambina quando mi sono resa conto di essere una pedina nel gioco d’azzardo di mio padre. Quando ero ancora nel ventre di mia madre, mi aveva promessa in sposa al figlio di un uomo che gli aveva vinto al gioco molto denaro.
A dieci anni sono stata fidanzata e a 13 anni ero sposata.
Giocavo con le bambine della mia età, quando mi è stato detto che sarei diventata la sposa di un uomo. La nostra situazione finanziaria non era buona da quando mio padre aveva perso al gioco tutto quello che il nonno gli aveva lasciato in eredità.
Non avevo ancora raggiunto la pubertà quando mi sono sposata, è successo dopo tre anni che vivevo con lui. Io non sapevo niente del sesso e delle relazioni tra marito e moglie. Mio marito non ha avuto nessun rispetto per me e per la mia età.
Adesso ho capito che venivo regolarmente violentata, tutto era terribile per me, piangevo per giorni ma non potevo dirlo a nessuno. Credevo che tutte le ragazze avessero queste difficoltà nel matrimonio. Ogni tanto pensavo alla crudeltà dei miei genitori e alla fine arrivavo sempre alla conclusione che tutti i genitori erano così, come i miei e in questo modo riuscivo a calmarmi.
La mia vita era molto brutta ma crescendo è diventata anche peggiore. Per fortuna non sono diventata madre a quell’età! Pensavo, tra me, che se fossi rimasta incinta, non sarei sopravvissuta al parto o, anche se fossi sopravvissuta, avrei avuto molte difficoltà a prendermi cura del bambino e di tutti gli altri lavori. Ho dovuto sopportare ogni tipo di violenza durante il mio matrimonio. Per queste condizioni di vita disumane, ho perso tre figli.
Mio marito era un maniaco sessuale e se rifiutavo le sue avances mi legava mani e piedi e faceva quello che voleva. Ho passato 12 anni con lui senza che ci fosse il minimo cambiamento nel suo comportamento , anzi, diventava ogni giorno più selvaggio. Adesso ho 5 figli, l’ultimo è nato dopo il divorzio. Sono malata e non ho mai potuto vedere un dottore.
Ho avuto il mio divorzio dopo un lungo e difficile lavoro, sono stata capace di liberare me stessa dalla violenza e dall’umiliazione. I miei bambini sono tutto per me. Adesso il mio desiderio più grande è quello di vedere i miei figli istruiti e crescerli perché siano di mente aperta e rispettosi verso le donne. Mio marito ancora mi minaccia, vuole portarmi via i miei figli. Io so bene che se i miei ragazzi andassero a vivere con lui diventerebbero delle bestie come lui, sarebbero ignoranti e crudeli come il loro padre.
Ho lavorato per tre mesi nell’ufficio di Hawca e mi hanno incoraggiato a studiare. Ho chiesto aiuto a una mia vicina di casa e adesso lei insegna a leggere e scrivere a me e ai miei figli. Purtroppo l’ufficio di Hawca in Mazar-e- Sharif è stato chiuso e io ho perso il lavoro. Cucinavo e facevo le pulizie per loro e sto cercando di trovare un altro lavoro. Per ora non l’ho trovato e ho davvero bisogno urgente di sostegno per poter continuare la mia strada e superare questi ostacoli.

Aggiornamenti

Freshta, che è entrata nel progetto qualche mese fa, ha ora il sostegno di Antonella, Mimmo e Marco. Accanto a loro affronterà le sue grandi sfide con un po’ di pace nel cuore.

Aggiornamento gennaio 2023

Khatera è molto felice di avere accanto i suoi sponsor. Ci dice: “Sono grata dal profondo del cuore ai miei sponsor. Sono persone davvero gentili. Per favore, continuate a tenere stretta la mia mano e quella dei miei bambini in questa orribile situazione.” Freshta era molto brava a ricamare, i bellissimi ricami afghani, ma questo oggi non basta affatto a sopravvivere. Nessuno ha soldi per comprare stoffe e vestiti. Così ha cominciato a cuocere dolci. Ci racconta: “Ho imparato a fare dei dolci molto speciali tra i ‘Mazari sweets’. Quando le persone fanno delle feste, come un compleanno oppure un matrimonio, io vado a casa loro e gli cucino i miei dolci. Ovviamente vado nelle case degli amici e di persone che mi sono presentate da loro, è questa la mia clientela. Ma anche se lavoro una o due volte al mese, è per me una buona opportunità andare nelle case a cucinare dolci e ne sono felice, perché penso che, così, potrò farmi pubblicità e espandere il mio lavoro in futuro. Quello che per me è importante è che le persone apprezzino i miei dolci fatti a mano e che io possa continuare a fare questo lavoro anche nei prossimi anni. Anche se guadagno poco, posso contribuire alle spese per i miei figli. Spero, con l’aiuto dei miei sponsor, di potere un giorno far rendere bene il mio lavoro e creare un futuro pieno di luce per i miei bambini. Abbraccio forte i miei sponsor.”

Aggiornamento gennaio 2024

“Sono diventata infinitamente felice quando ho visto Freshta – ci racconta S. la direttrice di Hawca –  Quando l’ho vista, sono rimasta insieme stupita e felicissima. Ho visto in Freshta una donna molto energica e allegra. Freshta era estremamente soddisfatta del suo lavoro e ha detto che la sua attività dolciaria era fiorente. Ora ha un contratto con una delle famose panetterie di Kabul e il suo datore di lavoro è una persona nobile e infinitamente cortese”.

“Dico sempre a me stessa- racconta Freshta- che sono stata benedetta due volte nella mia vita. Una è stata la presenza del mio caro sponsor, che ha trasformato la mia vita attraverso la sua assistenza e il suo sostegno. Sono sempre grata al mio caro sponsor e gli devo un mondo di gratitudine. E ora, anche il mio datore di lavoro si è mostrato una persona gentile e non smette di incoraggiarmi, permettendomi di stare in piedi da sola e di affrontare le spese della mia vita. Ancora una volta, esprimo la mia gratitudine per gli sforzi del mio amato sponsor e spero che invece di me, un’altra donna afgana riceva sostegno e porti un cambiamento nella sua vita come è successo per me. Io, finalmente, me la cavo da sola”.

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Una storia del progetto Vite preziose.

La fotografia è di solo carattere grafico e non rappresenta la donna protagonista della storia. Data la attuale situazione in Afghanistan, per evitare l’identificazione delle donne i nomi sono stati modificati, così come i luoghi dove si svolgono i fatti.

 

 

 

 

Un rifugio che diventa inferno: così il Pakistan deporta i rifugiati afghani

Se ne devono andare: un milione e 700mila persone, immigrati senza documenti in regola, quasi tutti afghani. L’annuncio è stato fatto il 7 ottobre dal governo pakistano, “per salvaguardare il benessere e la sicurezza del Paese”. In una prima fase potranno allontanarsi in forma “volontaria”, poi saranno deportati. In molti, più di trecentomila, hanno lasciato tutto e sono già partiti per paura di essere arrestati.

La vera caccia agli afghani si è aperta però il primo novembre 2023 e le carceri hanno iniziato a riempirsi. La polizia blocca le strade strette e affollate delle città pakistane, per impedire la fuga. Entra nelle case e chi non ha i documenti in regola viene caricato su furgoni e camion. Ma, a quanto ci dicono, succede anche a chi è regolare. A volte gli agenti entrano nell’abitazione di notte oppure giungono sul posto di lavoro. Succede, anche, che la casa e il negozio vengano distrutti. C’è poco tempo, devi sbrigarti, lasciare quasi tutto: puoi portare con te solo 150 dollari. “Mentre camminavo per strada a Lahore ho visto coi miei occhi famiglie picchiate dalla polizia per farle salire sul camion -racconta Javed, giovane attivista rifugiato-. Inutili le loro urla: si rifiutavano e sventolavano i documenti ma gli agenti rispondevano col manganello. Qualcuno, che il visto non ce l’ha, offre denaro: si apparta col poliziotto e poi risale in casa con tutta la famiglia. Se paghi ti lasciano in pace e ti congedano con rispetto”.

I video inondano il web. Si vedono afghani spinti a forza sui mezzi, schiacciati come in una valigia troppo piena, qualcuno cade e viene spinto di nuovo su, come un oggetto ingombrante. Si dirigono verso le porte del ritorno in Afghanistan: il valico di Torkham, Nord-Ovest del Paese, e quello di Chaman, a Sud-Ovest. Si caricano pezzi di vita sulle spalle, nei fagotti: qui in Pakistan non c’è più posto per loro. Nemmeno per chi è arrivato quarant’anni fa fuggendo dalla guerra dei russi: i “fratelli afghani” che vivono una vita a tutti gli effetti pakistana, i cui figli parlano solo urdu.

Per i 600mila arrivati negli ultimi due anni in fuga dai Talebani che danno loro la caccia è il crollo della speranza. “Molte famiglie sono venute qui -dice Rahima, cooperante per i diritti delle donne, fuggita in Pakistan- per salvarsi dalla mannaia talebana o per far studiare i figli, soprattutto le femmine, e dar loro la speranza di una vita che è morta da tempo in Afghanistan. Oppure per avere cure e medicine, impossibili nel nostro Paese. Devono lasciare subito le case in affitto ma è difficile trovare una guest house che ti accetti se non hai i documenti, anche perché i pakistani che ci aiutano sono passibili di arresto. Il governo ci ha voltato le spalle e sta distruggendo i nostri sogni. Tutti dovremo tornare a matmesra (parola in lingua dari che possiamo tradurre con ‘luogo buio dove non c’è speranza’, ndr)”.

Intanto nella spianata brulla di fronte al valico di Torkham si ammassano i camion, enormi, colorati, dipinti come quadri naif e stracolmi degli oggetti che accompagnano la vita di migliaia di persone. File interminabili di afghani nella piana desertica, contenute dal filo spinato. Aspettano, spingendo i loro averi in una carriola o se li portano sulle spalle, insieme ai bambini. A volte la pressione della folla, incalzata dalla polizia, si fa insostenibile ed è difficile proteggere anziani e bambini perché non siano calpestati. Beena ci racconta di aver perso la sua bambina, trascinata dalla folla, ma per fortuna l’ha ritrovata il giorno dopo, spaventata ma viva.

Hussein prende in braccio suo figlio sollevandolo da un tappeto polveroso su cui è appoggiato insieme ai pochi averi, ben impacchettati, della famiglia. È accampato davanti all’ufficio della Society for human rights and prisoners aid (Sharp), una Ong che fa la “selezione” per rilasciare il documento dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) che dovrebbe permettere agli afghani di restare. Ma la polizia spesso non lo tiene in considerazione.

Hussein ha paura: scuote la testa, racconta che era un soldato dell’Ana, l’esercito afghano, e i Talebani vogliono ucciderlo. Ha viaggiato per giorni da Karachi, città sulla costa orientale, fino a Islamabad ma i soldi sono finiti e adesso vive per terra, in questo campo desolato di spazzatura e zanzare. Spera di avere quel documento, per continuare la strada verso una vita possibile. Si guarda intorno, come per cercarla.

“Facciamo pressione sul governo pakistano- dice Philippa Candler, dell’Unhcr a Islamabad- perché fermi le deportazioni delle persone per le quali è proibito il respingimento dalle leggi internazionali. Per chi rischia la vita in caso di rientro: soprattutto le donne, le persone che hanno documenti, che sono registrati con noi o con il governo, che aspettano di essere ricollocati verso altri Paesi. Serve formare un Comitato di valutazione dei casi e lavorare insieme con le autorità locali”.

Intanto il fiume umano attraversa il confine, migliaia al giorno, verso il nulla. Cosa li aspetta al di là? Un Paese allo stremo, devastato dalla siccità e dai terremoti, in cui due terzi della popolazione hanno bisogno “urgente” di assistenza per poter sopravvivere ma il governo non ha né volontà, né capacità, né mezzi per intervenire. Dove non ci sono istruzione e lavoro per le donne. Non c’è vita. Che cosa ne farà il governo di Kabul, alle porte dell’inverno, di migliaia di compatrioti rifugiati che non hanno niente, e non sanno dove andare?

“Passato il confine i Talebani accolgono tutti gentilmente -continua Rahima- un bentornato ufficiale pieno di promesse. Ma sappiamo che non sono in grado di gestire questa situazione. È stato allestito solo un campo profughi a pochi chilometri dal confine. Tende, ma senza servizi igienici. Un problema enorme soprattutto per donne e bambini. Le Ong prevedono un disastro umanitario di proporzioni enormi”. Queste montagne hanno sostenuto i passi di migliaia di afghani nel corso di quarant’anni di guerra e di violenza, portando non pochi vantaggi al governo pakistano.

Ero a Peshawar nel 1980 e un fiume di persone attraversava la frontiera, da mesi, in fuga dalla guerra dei russi. La città era il regno dei partiti fondamentalisti afghani che registravano, con improbabili tessere, ogni compatriota arrivato. Se li contendevano ferocemente per ingrossare le fila dei sostenitori e imporsi sui propri rivali. Era sufficiente per stare in Pakistan: in quegli anni i rifugiati erano un buon affare per il governo. Per sostenere i mujaheddin afghani in funzione anti-russa, arrivavano fiumi di denaro, armi e sostegno politico. Soprattutto dalla Cia ma anche da altre agenzie di intelligence. Tutto passava per le mani del governo pakistano e dell’Inter-services intelligence.

“Quando sono arrivati gli americani -dice Noor Ahmed, anche lui rifugiato e oggi avvocato per i diritti umani- il Pakistan si è trovato a giocare due ruoli distinti. Da un lato era l’alleato chiave degli Stati Uniti e riceveva dalla Nato fondi per il supporto logistico delle truppe, dall’altro intascava il sostegno per l’accoglienza dei profughi, infine controllava sul suo territorio i gruppi Talebani. Oggi i rifugiati afghani non portano più vantaggi. Non servono a niente”.

Sul perché di questa immane deportazione Aisha, insegnante anche lei rifugiata, individua tre ragioni. “Il Pakistan ha ormai una posizione sbiadita nel gioco politico internazionale -spiega-. Per quarant’anni gli immigrati sono stati una risorsa: oggi non è più così e questa potrebbe essere una mossa per fare pressione sulla comunità internazionale e riacquistare importanza politica e denaro attraverso i rifugiati, d’altronde non sono i soli a farlo”. Ma per Aisha non è l’unico motivo: “La situazione economica pakistana è disastrosa e ci sono disordini e proteste. Presentare gli afghani come capro espiatorio e cacciarli dal Paese diventa una mossa diversiva per il consenso interno. Infine, i rapporti con Kabul stanno peggiorando: Islamabad fa pressione sui governanti afghani perché agiscano sui Talebani pakistani del Ttp (Tehreek-e-Taliban Pakistan), che operano al confine tra i due Paesi, e li spingano a negoziare con il governo. Accusano Kabul di essere dietro ai numerosi recenti attentati”. Intanto Hussein ha trovato degli amici. Ha una vera stanza, adesso. Il piccolo dorme finalmente su un materasso senza il tormento delle zanzare. Sorride, almeno per stanotte.

Pubblicato su Altreconomia 265 — Dicembre 2023

Cristiana Cella, giornalista, scrittrice, sceneggiatrice. Segue le vicende afghane dal 1980, quando entrò clandestinamente a Kabul, vietata ai giornalisti, per documentare la resistenza della città contro l’invasione russa.  Dal 2009 fa parte del Direttivo dell’Associazione Cisda (Coordinamento Italiano Sostegno donne afghane), ha partecipato a diverse delegazioni in Afghanistan. Ha pubblicato un libro: ‘Sotto un cielo di stoffa. Avvocate a Kabul’, edito da Città del Sole Edizioni.

OPAWC Report – Team sanitario mobile di Hamoon in visita nel distretto di Nari, Kunar

Il team sanitario mobile di Hamoon ha visitato la provincia di Kunar nell’Afghanistan orientale che gode di un bellissimo paesaggio, con alte montagne verdi e un grande fiume. Infatti, Kunar è famosa per le sue foreste verdi e il suo bellissimo fiume. Abbiamo scelto Nari, che è il distretto più grande di Kunar.

Crimini contro la popolazione

Durante il viaggio ciò che più ha attirato la nostra attenzione sono stati i resti di molte basi americane che vengono attualmente utilizzate dai Talebani. Sebbene gli Stati Uniti siano arrivati in Afghanistan con l’apparente motivazione di garantire i diritti delle donne e di combattere il terrorismo, siamo venuti a conoscenza di crimini scioccanti commessi contro la popolazione di Kunar, soprattutto donne, da parte delle truppe USA, del loro governo fantoccio e dei Talebani. Sembra si tratti del più alto numero di delitti d’onore e di assassinii di ex soldati militari avvenuti negli ultimi vent’anni e tenuti segreti dal governo di Ghani.

Una delle più grandi basi militari statunitensi si trovava nel centro del distretto di Nari. Secondo diverse testimonianze, cinque donne afgane provenienti dagli Stati Uniti in qualità di interpreti per le truppe americane sono state uccise dalle stesse truppe, e dopo un po’ di tempo i corpi di queste donne sono stati rinvenuti nelle valli del distretto. A pochi passi da una delle basi militari statunitensi è sorto un gruppo di milizie dell’ISIS che, secondo le testimonianze della gente, era sostenuto dagli Stati Uniti.

Il lavoro dell’équipe mobile di Hamoon

La nostra équipe composta da due medici, un uomo e una donna, e da due farmacisti, ha curato pazienti di tre diversi villaggi.

Il 13 dicembre 2023, la Squadra Sanitaria Mobile di Hamoon si è recata in un villaggio chiamato Machmana, composto da circa 100 famiglie. Il team ha visitato più di 150 pazienti. La clinica più vicina era a chilometri di distanza e per raggiungerla le persone dovevano camminare almeno un’ora. Inoltre, erano presenti solo un medico uomo e un’ostetrica, personale insufficiente per i bisogni della gente. I bambini della zona soffrivano di malattie stagionali e le famiglie non erano in grado di pagare le cure né di acquistare le medicine necessarie.

Il secondo giorno il nostro team sanitario si è recato nel villaggio di Salam Sangi. La popolazione era molto povera e soffriva di varie malattie. Sono stati curati 200 pazienti. La priorità è stata data alle donne e ai bambini. Le malattie più comuni in questo villaggio erano anemia tra le donne a causa di un’alimentazione molto povera e le pessime condizioni ginecologiche dovute a matrimoni di minorenni.

La maggior parte delle donne non poteva recarsi in clinica a causa delle difficili condizioni economiche e si lamentava dei costi elevati dei medici e dei farmaci. Stress e depressione erano visibili sui volti delle donne e dei bambini.

Le malattie della pelle dei bambini erano molto comuni e si ritiene che l’umidità della zona, dovuta alla vicinanza al fiume, sia una delle cause principali. Un’altra causa è dovuta all’inquinamento dell’aria per via delle esercitazioni militari effettuate nel passato dagli USA e dai Talebani nelle aree montuose del distretto di Nari.

Le donne raccontano

Le donne hanno raccontato storie di vita molto dolorose.

All’età di quindici anni, Marzia viene costretta senza il suo consenso a sposare un uomo con problemi mentali. La violenza del marito e il pesante lavoro domestico quotidiano le hanno piegato la schiena. Marzia non conosce i suoi diritti fondamentali perché è priva di istruzione, e pensa che la sfortuna sia la causa della sua attuale situazione. Ha due figli il cui volto mostra la miseria della loro povera vita.

Sakina ha diciotto anni e si è sposata due anni fa. Ha un problema ginecologico a causa del quale ha perso due volte due bambini a sette e nove mesi di gravidanza. Inoltre, un bambino di due mesi è morto nel suo grembo, ma a causa della mancanza di denaro, non si è potuta recare da un medico per abortire.

Adela è madre di sei figli. È venuta dal villaggio di Shah Masir per farsi curare. All’età di tredici anni suo padre l’ha costretta a sposare un uomo cieco da entrambi gli occhi. Fortunatamente è istruita e ha potuto lavorare in una scuola privata. È riuscita a studiare e ottenere il permesso di lavorare. Tutta la famiglia dipende economicamente da lei.

Adela ha raccontato molte storie di delitti d’onore nel suo villaggio. Una donna, madre di sei figli, è stata uccisa dal marito perché era innamorata di un altro uomo, anch’egli ammazzato dal marito in un’imboscata. I Talebani hanno convocato il marito nel loro dipartimento di sicurezza e si sono congratulati con lui per l’omicidio della donna e dell’uomo. Un altro ragazzo insieme alla ragazza che amava e alla sorella che li ha aiutati a fuggire, sono stati catturati dal fratello della ragazza e tutti e tre sono stati fucilati nello stesso giorno.

Nella maggior parte dei villaggi del distretto di Nari è consuetudine che se una ragazza fugge con un ragazzo, entrambi vengano uccisi per evitare faide familiari.

Laila era una bella ragazza che si era innamorata di un soldato dell’esercito nazionale. Entrambi parlavano al cellulare e si si scambiavano foto. Il ragazzo, arrestato dai talebani, ha cercato di distruggere il suo telefono in modo che la sua conversazione e le sue foto con Laila non venissero divulgate, ma non ce l’ha fatta. I Talebani hanno ucciso il ragazzo e hanno diffuso nella zona le foto di Laila e le loro conversazioni. Venuto a conoscenza della relazione di Laila, il fratello ha preso la pistola per ucciderla; lei ha lottato a lungo per sopravvivere e ha ferito il fratello al volto con le unghie, ma non è riuscita a fermarlo. La storia di Laila è nota tra gli abitanti del villaggio.

Il 15-12-2023 il nostro team sanitario si è recato nel villaggio di Nari, ha visitato i pazienti e ha somministrato i medicinali necessari. Poiché l’arrivo del team era già stato annunciato attraverso l’altoparlante della moschea, sono arrivate anche persone dai villaggi vicini. I nostri medici hanno curato un totale di 270 pazienti, inclusi bambini e donne. Raffreddore, mal di gola, ipertensione e malattie della pelle erano fra i disagi più comuni. Le persone si lamentavano del fatto che non potevano permettersi visite mediche a causa del costo delle medicine e della parcella del medico. Il loro unico reddito proviene dalla coltivazione della terra e riescono a malapena a pagare le spese di cibo e vestiti.

Nello stesso villaggio, infatti, c’è una clinica privata, ma la gente non può andarci a causa del costo eccessivo delle cure. Marzia si era recata dal medico per un’allergia e le è stato somministrato un farmaco stimolante senza essere stata prima sottoposta alle analisi necessarie. Questo farmaco le ha provocato un’infiammazione polmonare e Marzia ha iniziato a perdere peso. Sua sorella, che è un’insegnante, spende tutto il suo stipendio per curare Marzia, ma senza risultati positivi.

Una bambina di cinque anni soffriva di un’infiammazione della vescica perdendo sempre sangue nelle urine. La madre si è recata molte volte dai medici, ma la figlia non è guarita. La stessa madre era molto debole e soffriva di anemia.

Le persone erano felici e soddisfatte dell’ottima qualità dei medicinali forniti dalla nostra équipe. Hanno detto che era la prima volta che vedevano un team sanitario nel villaggio con medici esperti. Ogni giorno, alla fine delle visite e dei trattamenti medici, parlavamo con le persone dei loro problemi e delle loro condizioni di vita. La gente del posto ci ha accolto calorosamente e ci ha fatto visitare dei bellissimi luoghi nei loro villaggi.

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    RAWA Report – Distribuzione del cibo a Herat, dicembre 2023

    Una coppia con un figlio disabile ha speso tutti i suoi averi per le sue cure. Con l’arrivo dei talebani, il recente terremoto e disordini in città, il reddito del capofamiglia, che è un camionista e vive in un’umile casa di una sola stanza, non è più sufficiente a sostenere le loro vite.

    Afghanistan provincia di Herat

    Questa donna trascorre giorni e notti in una casa danneggiata con tre bambini e uno in arrivo. Suo marito è un lavoratore a giornata ed è difficile per lui trovare lavoro in città. Soffre anche di asma e diabete ma non ha abbastanza soldi per le cure.

    Afghanistan provincia di Herat

    Una giovane donna gravemente malata, madre di un bambino. La loro casa è in una delle zone più povere della città di Herat che è stata danneggiata nei vari periodi di guerra e del recente terremoto. A causa della povertà non è in grado di curarsi. È preoccupata di ammalarsi durante l’inverno poiché vive in un seminterrato buio e umido.

    Afghanistan provincia di Herat

    La calzolaia, il cui marito è disabile ad entrambe le mani e non può avere alcuna attività, lavora tutti i giorni con la sua piccola figlia sul ciglio della strada fino a sera. Si è lamentata del fatto che i talebani le hanno impedito di lavorare e l’hanno minacciata molte volte di togliere i suoi attrezzi ed andarsene.

    Afghanistan provincia di Herat

    Una donna deve mantenere sia i figli sia i nipoti dopo la morte del fratello (a seguito di un attacco suicida vicino al posto di lavoro). La cognata si è risposata ma ha lasciato i figli. Questa signora si è rivolta più volte al Ministero dei Martiri e degli Handicappati (per ricevere assistenza sociale) chiedendo aiuto, ma, essendo donna, è stata allontanata con minacce e insulti.

    Afghanistan provincia di Herat

    Una madre single (il marito era tossicodipendente ed è scomparso in Iran), deve prendersi cura anche del padre malato e ricoverato in ospedale. Avrebbe avuto un piccolo reddito affittando due stanze nella parte superiore della loro casa, ma a causa del terremoto sono crollate. Ora non ha modo di lavorare perché non può lasciare il suo anziano padre da solo e il suo bambino di sei anni.

    Afghanistan provincia di Herat

    Madre di tre figli, il cui marito è caduto durante lavori di costruzione in Iran perdendo la vita. Diverse parti della sua casa sono crollate a causa del recente terremoto, ma lei non ha i soldi per ripararle. Ogni sera a casa prepara cibi per il figlio dodicenne che li venderà per strada in modo che possano ottenere un piccolo guadagno.

    Afghanistan provincia di Herat

    I figli di questa donna vivono del lavoro giornaliero della loro mamma  (soprattutto pulisce e lava le case). Suo marito è scomparso in Iran da quattro anni e non si hanno più informazioni. Tre famiglie vivono insieme e per ridurre i costi dividono l’affitto di una casa di tre stanze.

    Afghanistan provincia di Herat

    Seema non era in casa perché impegnata a fare il bucato e le pulizie di altri dalla mattina alla sera. L’anziana nonna si prende cura ogni giorno dei suoi nipoti affinché la nuora, il cui marito è alcolizzato e violento, può preparare un boccone di pane per la famiglia.

    Afghanistan provincia di Herat

    Una grande famiglia vive sotto lo stesso tetto (madre, figlia e nuora possedendo ognuno una sola stanza). La suocera e la nuora sono entrambe vedove e la figlia sopravvive solo con il lavoro quotidiano del marito. Tutti i membri della famiglia sono impegnati a raccogliere la spazzatura dalla mattina alla sera.

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      Webinar Chiusura petizione Stand Up With Afghan Women

      In occasione delle celebrazioni per la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, il 25 novembre 2023, il Coordinamento Italiano a Sostegno delle Donne Afghane (CISDA), Large Movements Aps e AltrEconomia, insieme alle associazioni afghane Revolutionary Association of the Women of Afghanistan (RAWA) e Hambastagi (Partito della Solidarietà) hanno inviato all’attenzione delle istituzioni italiane, europee e internazionali la petizione “Stand Up With Afghan Women”. La petizione è stata lanciata un anno dopo il drammatico ritiro del 15 agosto 2021 delle truppe occidentali dall’Afghanistan seguito all’accordo di Doha tra Stati Uniti e Talebani, ed è una prima tappa della campagna di mobilitazione che vede coinvolte sugli stessi obiettivi 92 associazioni italiane ed europee insieme alle due organizzazioni afghane. Hanno partecipato al dibattito Rappresentanti delle organizzazioni afghane RAWA e Hambastagi, CISDA, Large Movements APS, AltrEconomia, Collettivo donne insieme di Casale Monferrato e il Gruppo di acquisto solidale di Fano e Pesaro

      I talebani sono cambiati?

      Talebano. Una parola ormai entrata nel nostro vocabolario quotidiano per indicare un’intransigenza cieca e feroce. Eppure, è una parola della quale, fino alla seconda metà degli anni ‘90, la maggioranza degli italiani ignorava l’esistenza e che, in ogni caso, non aveva nulla di sinistro significando “studente”.

      Il 27 settembre 1996 il termine “talebano” è esploso nei media occidentali nel significato minaccioso e truce che oggi utilizziamo: quel giorno, l’ultimo presidente della Repubblica Democratica dell’Afghanistan, Mohammad Najibullah, viene prelevato dall’edificio dell’ONU di Kabul (nel quale era rifugiato dal 1992), mutilato, torturato, trascinato con una jeep attorno al palazzo presidenziale, infine ucciso e il suo cadavere esposto per giorni. A compiere l’efferata messa in atto della condanna a morte dell’ex presidente è un “nuovo” gruppo, i talebani appunto, comparso un paio di anni prima in un paese devastato dalla guerra civile, dai crimini compiuti dai “signori della guerra” e da 10 anni di occupazione sovietica.

      Descritti come “studenti formatisi nelle scuole coraniche pakistane”, i talebani sono entrati nella scena politica afghana nel 1994 e non ne sono più usciti. Ma chi sono i talebani? Da dove vengono? Come sono riusciti a prendere il potere in Afghanistan nel 1996 e a riconquistarlo nel 2021, dopo 20 anni di occupazione NATO?

      Le radici dottrinali

      Delle quattro scuole giuridico-religiose dell’Islam sunnita, quella hanafita, costituita verso la fine dell’VIII secolo in Iraq e considerata la più “liberale” tra le scuole ortodosse dell’Islam, è oggi l’elaborazione dottrinale più diffusa nell’Asia centrale, in Egitto, Turchia, Siria, Giordania, Palestina e Iraq. All’interno di questa scuola, nella seconda metà del 1800 a Deoband in India, nasce la corrente detta appunto deobandi principalmente come reazione alla colonizzazione inglese dell’India che, ritenevano i suoi promotori, rischiava di corrompere l’Islam. Senza entrare nel dettaglio possiamo dire che più che una dottrina religioso-giuridica, quella deobandi è un’ideologia che si caratterizza, fin da subito, per il suo carattere anti-imperialista e si diffonde rapidamente in tutto il subcontinente indiano e in Afghanistan.

      Dal punto di vista dottrinale si rifà a un’interpretazione molto rigida dell’Islam. L’ideologia deobandi è influenzata anche dal wahabismo (che appartiene, seppur in modo contestato, a un’altra scuola giuridica, la hanbalita). Facciamo questa precisazione non per puro gusto accademico, ma perché dal wahabismo deriva, a sua volta, la scuola di pensiero salafita profondamente legata alla casa regnante dell’Arabia Saudita (e fondamento del movimento della Fratellanza musulmana) e il cui personaggio più famoso, a partire dagli anni ‘90, è un certo Osama bin-Laden.

      Nonostante i sunniti pakistani che seguono l’ideologia deobandi siano circa il 20%, essi gestiscono circa il 65% delle madrase (scuole religiose): è in queste scuole che si sono formati i talebani e dove emerge rapidamente una figura ammantata di mistero, il mullah Omar.

      Piccoli integralisti crescono

      Il contesto è quello che possiamo leggere nel capitolo finale di questo dossier: dopo l’evacuazione delle truppe sovietiche, in Afghanistan si è scatenato un nuovo inferno e gli “eroici” mujahiddin si sono trasformati nei nuovi aguzzini della popolazione, responsabili di crimini e soprusi quotidiani. Nelle scuole coraniche pakistane, i figli (spesso orfani) di afghani rifugiatisi in Pakistan dai tempi dell’invasione sono “profondamente delusi per lo sbriciolamento della leadership dei mujaheddin, un tempo idealizzata, e per le attività criminali dei loro esponenti”, scrive Ahmed Rashid nel suo libro Talebani. E il giornalista prosegue: “I talebani più giovani conoscono a malapena il proprio paese e la sua storia, ma nelle loro madrase vagheggiano la società islamica ideale creata dal profeta Maometto millequattrocento anni prima, la società che vogliono emulare… La loro semplice fede in un Islam messianico, puritano, l’Islam che è stato impresso nelle loro menti da semplici mullah di paese, è l’unico puntello cui aggrapparsi e che conferisce un po’ di senso alle loro vite”.

      Ma non solo: “Si sono radunati volontariamente nella confraternita esclusivamente maschile che i leader talebani hanno creato… sono orfani cresciuti senza donne – madri, sorelle, cugine. … Vivono una vita aspra, durissima… Si sentono minacciati da quella metà del genere umano che non hanno mai conosciuto, ed è quindi molto più facile rinchiuderla, questa metà, soprattutto se a ordinarlo sono i mullah che ricorrono a primitive ingiunzioni islamiche prive di fondamento nella legge coranica”, scrive sempre Rashid.

       

      L’entrata in scena

      Tutto il paese è risucchiato dalla guerra civile, ma l’Afghanistan meridionale e la provincia di Kandahar sono il centro dell’inferno con bande di ex mujaheddin che razziano la popolazione, commettendo ogni sorta di sopruso. È il 1994 e i talebani stanno per entrare in scena con un episodio ormai diventato leggenda: Omar è il mullah di una piccola madrasa a Singesar, vicino a Kandahar, e viene informato che un comandante locale ha fatto rapire due ragazzine poi violentate. Omar raduna una trentina di studenti di teologia e attacca la base, uccidendo il comandante e liberando le ragazzine. Fatti simili si ripetono e le fila dei talebani, che si presentano come “un movimento che si prefigge lo scopo di purificare la società” (Rashid), si ingrossano.

      Ma i talebani giocano un’altra carta che si rivelerà vincente: proteggono la mafia pakistana dei trasporti e del contrabbando che garantisce denaro e appoggi per poter liberamente transitare nei territori controllati dagli stessi talebani.

      Militari, governo e servizi segreti pakistani avevano fino a quel momento sostenuto Gulbuddin Hekmatyar ritenendolo il più probabile vincitore della guerra civile in un paese indispensabile per aprire le vie commerciali, e del petrolio, con le repubbliche centro-asiatiche. Rendendosi invece conto di star favorendo un perdente, i pakistani iniziano a sostenere il movimento dei talebani al quale, nel frattempo, si sono uniti anche diversi gruppi salafiti, appoggiati ed equipaggiati dall’Arabia Saudita.

      Il salto di qualità

      Inizialmente sostenuti da una parte della popolazione alla quale, dopo anni di guerre e angherie, promettono la pace, patrocinati da Pakistan e Arabia Saudita i talebani nel giro di due anni controllano il 90% del paese fino a conquistare Kabul e proclamare l’Emirato Islamico dell’Afghanistan.

      Se l’uccisione di Najibullah è l’atto che li fa conoscere al mondo, è la messa in atto della più oscurantista interpretazione dell’Islam che mostrerà al popolo afghano il vero volto dei talebani: le scuole femminili vengono chiuse, le donne non possono uscire di casa da sole e quando lo fanno devono essere integralmente coperte, vengono distrutti gli apparecchi televisivi e messi al bando sport e attività creative, vietata la musica e gli aquiloni, imposta la barba agli uomini e la frequentazione delle moschee, ogni violazione della sharia viene punita severamente fino ad arrivare a pubbliche esecuzioni e lapidazioni.

      L’Emirato viene riconosciuto solo da Emirati Arabi Uniti, Pakistan e Arabia Saudita, ma l’appoggio dell’Arabia Saudita e le repressioni della minoranza hazara, sciita, fanno dell’Iran un nemico dell’Emirato, solleticando così l’interesse degli USA (vedi l’articolo dedicato alla storia dell’Afghanistan): l’amministrazione Clinton vede favorevolmente l’affermarsi del movimento talebano non solo in visione anti-Iran, ma anche perché auspica di trovare un appoggio per la realizzazione dell’oleodotto sponsorizzato dalla multinazionale texana Unocal.

      Intanto, mentre la popolazione afghana, annichilita dal regime di terrore instaurato dai talebani, cerca di sopravvivere in un paese distrutto, gli “studenti” consolidano il proprio potere anche grazie ai proventi della coltivazione del papavero da oppio.

      Il vero salto di qualità, però, i talebani lo compiono nel 1996, quando Osama bin Laden si trasferisce definitivamente in Afghanistan insediando la base più importante di al-Qaeda, dove vengono addestrati 2500 guerriglieri. L’instaurazione dell’Emirato con l’implacabile applicazione della sharia e la presenza nel paese di uno dei 10 uomini più ricercati dagli Stati Uniti trasformano l’Afghanistan in un formidabile aggregatore di jihadisti: “L’Afghanistan era un’incubatrice, dove i semi [del movimento jihadista] sarebbero cresciuti”, sono le parole del numero due di al-Qaeda Ayman al-Zawahiri riportate da Elisa Giunchi nel suo libro sull’Afghanistan.

      Fuga e riorganizzazione

      Ed è proprio in quanto sede del centro operativo di Bin Laden che il regime dei talebani verrà ritenuto corresponsabile degli attentati dell’11 settembre 2001 e l’Afghanistan attaccato nell’ottobre dello stesso anno. Grande rilievo viene dato in Occidente alle operazioni USA prima e alle missioni NATO poi, ma la caduta dell’Emirato non corrisponde alla scomparsa dei talebani, che si rifugiano prima nei villaggi del sud dell’Afghanistan, loro storica roccaforte, e poi in Pakistan, nel Beluchistan e nelle FATA (Federally Administered Tribal Areas), un’area nella quale le tribù pashtun godono di una certa indipendenza rispetto al governo centrale di Islamabad.

      Nonostante le perdite, quasi l’intera struttura di comando dei talebani è rimasta intatta e in Pakistan, grazie al supporto dei servizi segreti pakistani, si riorganizzano rapidamente. I pashtun delle FATA aprono il loro territorio a integralisti di tutto il mondo (ceceni, centroasiatici, africani, indonesiani, uiguri) che vanno a ingrossare le file di al-Qaeda, le cui sorti si intrecciano sempre più con quelle dei talebani. Questi stanno anche imparando dall’organizzazione di Bin Laden e dai servizi segreti pakistani le tecniche di guerriglia e a utilizzare sofisticati mezzi di comunicazione. Nel 2004 i talebani possono già contare su solide basi in territorio afghano e compiono continue azioni contro le forze di polizia afghane e le truppe NATO.

      Il governo centrale afghano controlla di fatto solo la capitale, tanto che Hamid Karzai più che presidente viene chiamato “sindaco di Kabul”, mentre il resto del paese è nuovamente in balia dei signori della guerra e degli attacchi suicidi dei talebani che, a partire dal 2006, hanno intensificato l’utilizzo di questa tattica per colpire gli avversari.

      Rimandiamo alla Cronologia per il dettaglio degli eventi, quello che qui dobbiamo sottolineare è che in questi anni Karzai mantiene contatti con i talebani per cercare di coinvolgerli in “trattative di pace”. È qui che nasce il “mito” dei talebani “moderati”, con i quali, si dice, è possibile instaurare un dialogo. No, in questo caso il termine ha un significato ben diverso: i talebani non hanno modificato di una virgola la loro ideologia e nei territori che controllano l’oscurantismo integralista viene applicato con lo stesso zelo di quando governavano l’intero paese. Semplicemente, i talebani “moderati” sono quelle frange disposte a trattare con Karzai per spartirsi il controllo del paese e con l’Occidente perché la NATO esca dall’Afghanistan.

      1994 e 2021: i talebani sono diversi?

      Negli anni successivi i talebani continuano la loro guerra di logoramento e, nel contempo, terrorizzano la popolazione. Nel frattempo, gli USA sono impegnati nella guerra con l’Iraq e di lì a poco il mondo sarà sconvolto dalle guerre in Libia e in Siria che fanno emergere un nuovo attore nel panorama dell’integralismo islamico, l’ISIS. Un attore che farà il suo ingresso anche nella scena afghana.

      Mentre gli occhi del mondo sono catalizzati dagli orrori dell’ISIS in Siria, in Afghanistan i talebani controllano i tre quarti del paese. E quando nel febbraio 2020 si siedono al tavolo con i negoziatori USA in Qatar, quella che firmano non è un’intesa di pace, come viene pomposamente chiamata dall’amministrazione Trump, ma una via d’uscita per gli USA per l’evacuazione delle loro truppe dal paese entro l’agosto 2021 (termine precedentemente dato dall’amministrazione Obama).

      A questo punto torniamo alla domanda iniziale: sono diversi i talebani tornati al governo di Kabul nel 2021 rispetto a quelli che avevano preso il potere nel 1994? Sicuramente sono più preparati alla gestione del potere e nell’utilizzo dei mezzi informatici, cosa che ha permesso loro, per esempio, di accedere facilmente ai database con le informazioni relative ai cittadini afghani (vedi pagina 7). Poi sono meglio equipaggiati militarmente: oltre ai finanziamenti diretti ricevuti da Pakistan e Arabia Saudita, i talebani sono entrati in possesso dell’arsenale americano lasciato sul territorio dopo la fuga da Kabul nell’agosto 2021. Il consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca, Jake Sullivan, ha confermato che i miliziani hanno preso possesso di un enorme arsenale del valore di miliardi di dollari: [5] dai veicoli militari Humvee ai fucili M4 e M16, fino a elicotteri Black Hawk e aerei A-29; anche se è probabile che abbiano difficoltà a utilizzare le armi più avanzate, rimane comunque una dotazione importante di armi “leggere” in loro possesso.

      Ideologicamente invece sono sempre gli stessi e lo hanno dimostrato subito, ma sono meno coesi. Nella lotta per il potere emergono due fazioni principali, quella legata al mullah Abdul Ghani Baradar e quella che fa capo a Sirajuddin Haqqani. Il primo era il vice del mullah Omar, arrestato a Karachi nel 2010 e successivamente liberato su richiesta degli USA perché partecipasse ai colloqui di Doha fino alla firma dell’accordo del 2020. Il secondo è a capo della Rete Haqqani, un gruppo alleato dei talebani ma autonomo e molto vicino ad al-Qaeda; Sirajuddin è il figlio di Jalaluddin che fondò il proprio movimento durante l’occupazione sovietica grazie a un grosso trasferimento di armi e denaro da parte della CIA [6].

      Infine, c’è l’incognita ISIS. Nel 2014 l’ISIS aveva avviato contatti con il gruppo Tehrik i Taliban Pakistan (TTP), i cosiddetti talebani pakistani aderenti alla corrente salafita e quindi molto vicini ad al-Qaeda. Questa relazione aveva dato vita all’ISIS-K (Stato islamico dell’Iraq e del Levante – Provincia di Khorasan) che si era radicata nelle aree orientali dell’Afghanistan, attaccando tanto il governo afghano quanto i talebani. Oggi l’ISIS-K, responsabile di continui attentati ed azioni di guerriglia, in particolare nella zona di Narganhar, sta reclutando tra le proprie fila ex combattenti che non si sentono adeguatamente remunerati dal nuovo governo per il loro passato impegno ed ex membri delle forze di sicurezza afghane desiderosi di sfuggire ai talebani. La polveriera Afghanistan è pronta a esplodere nuovamente.