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Autore: Patrizia Fabbri

OPAWC Report – Team sanitario mobile di Hamoon in visita nel distretto di Nari, Kunar

Il team sanitario mobile di Hamoon ha visitato la provincia di Kunar nell’Afghanistan orientale che gode di un bellissimo paesaggio, con alte montagne verdi e un grande fiume. Infatti, Kunar è famosa per le sue foreste verdi e il suo bellissimo fiume. Abbiamo scelto Nari, che è il distretto più grande di Kunar.

Crimini contro la popolazione

Durante il viaggio ciò che più ha attirato la nostra attenzione sono stati i resti di molte basi americane che vengono attualmente utilizzate dai Talebani. Sebbene gli Stati Uniti siano arrivati in Afghanistan con l’apparente motivazione di garantire i diritti delle donne e di combattere il terrorismo, siamo venuti a conoscenza di crimini scioccanti commessi contro la popolazione di Kunar, soprattutto donne, da parte delle truppe USA, del loro governo fantoccio e dei Talebani. Sembra si tratti del più alto numero di delitti d’onore e di assassinii di ex soldati militari avvenuti negli ultimi vent’anni e tenuti segreti dal governo di Ghani.

Una delle più grandi basi militari statunitensi si trovava nel centro del distretto di Nari. Secondo diverse testimonianze, cinque donne afgane provenienti dagli Stati Uniti in qualità di interpreti per le truppe americane sono state uccise dalle stesse truppe, e dopo un po’ di tempo i corpi di queste donne sono stati rinvenuti nelle valli del distretto. A pochi passi da una delle basi militari statunitensi è sorto un gruppo di milizie dell’ISIS che, secondo le testimonianze della gente, era sostenuto dagli Stati Uniti.

Il lavoro dell’équipe mobile di Hamoon

La nostra équipe composta da due medici, un uomo e una donna, e da due farmacisti, ha curato pazienti di tre diversi villaggi.

Il 13 dicembre 2023, la Squadra Sanitaria Mobile di Hamoon si è recata in un villaggio chiamato Machmana, composto da circa 100 famiglie. Il team ha visitato più di 150 pazienti. La clinica più vicina era a chilometri di distanza e per raggiungerla le persone dovevano camminare almeno un’ora. Inoltre, erano presenti solo un medico uomo e un’ostetrica, personale insufficiente per i bisogni della gente. I bambini della zona soffrivano di malattie stagionali e le famiglie non erano in grado di pagare le cure né di acquistare le medicine necessarie.

Il secondo giorno il nostro team sanitario si è recato nel villaggio di Salam Sangi. La popolazione era molto povera e soffriva di varie malattie. Sono stati curati 200 pazienti. La priorità è stata data alle donne e ai bambini. Le malattie più comuni in questo villaggio erano anemia tra le donne a causa di un’alimentazione molto povera e le pessime condizioni ginecologiche dovute a matrimoni di minorenni.

La maggior parte delle donne non poteva recarsi in clinica a causa delle difficili condizioni economiche e si lamentava dei costi elevati dei medici e dei farmaci. Stress e depressione erano visibili sui volti delle donne e dei bambini.

Le malattie della pelle dei bambini erano molto comuni e si ritiene che l’umidità della zona, dovuta alla vicinanza al fiume, sia una delle cause principali. Un’altra causa è dovuta all’inquinamento dell’aria per via delle esercitazioni militari effettuate nel passato dagli USA e dai Talebani nelle aree montuose del distretto di Nari.

Le donne raccontano

Le donne hanno raccontato storie di vita molto dolorose.

All’età di quindici anni, Marzia viene costretta senza il suo consenso a sposare un uomo con problemi mentali. La violenza del marito e il pesante lavoro domestico quotidiano le hanno piegato la schiena. Marzia non conosce i suoi diritti fondamentali perché è priva di istruzione, e pensa che la sfortuna sia la causa della sua attuale situazione. Ha due figli il cui volto mostra la miseria della loro povera vita.

Sakina ha diciotto anni e si è sposata due anni fa. Ha un problema ginecologico a causa del quale ha perso due volte due bambini a sette e nove mesi di gravidanza. Inoltre, un bambino di due mesi è morto nel suo grembo, ma a causa della mancanza di denaro, non si è potuta recare da un medico per abortire.

Adela è madre di sei figli. È venuta dal villaggio di Shah Masir per farsi curare. All’età di tredici anni suo padre l’ha costretta a sposare un uomo cieco da entrambi gli occhi. Fortunatamente è istruita e ha potuto lavorare in una scuola privata. È riuscita a studiare e ottenere il permesso di lavorare. Tutta la famiglia dipende economicamente da lei.

Adela ha raccontato molte storie di delitti d’onore nel suo villaggio. Una donna, madre di sei figli, è stata uccisa dal marito perché era innamorata di un altro uomo, anch’egli ammazzato dal marito in un’imboscata. I Talebani hanno convocato il marito nel loro dipartimento di sicurezza e si sono congratulati con lui per l’omicidio della donna e dell’uomo. Un altro ragazzo insieme alla ragazza che amava e alla sorella che li ha aiutati a fuggire, sono stati catturati dal fratello della ragazza e tutti e tre sono stati fucilati nello stesso giorno.

Nella maggior parte dei villaggi del distretto di Nari è consuetudine che se una ragazza fugge con un ragazzo, entrambi vengano uccisi per evitare faide familiari.

Laila era una bella ragazza che si era innamorata di un soldato dell’esercito nazionale. Entrambi parlavano al cellulare e si si scambiavano foto. Il ragazzo, arrestato dai talebani, ha cercato di distruggere il suo telefono in modo che la sua conversazione e le sue foto con Laila non venissero divulgate, ma non ce l’ha fatta. I Talebani hanno ucciso il ragazzo e hanno diffuso nella zona le foto di Laila e le loro conversazioni. Venuto a conoscenza della relazione di Laila, il fratello ha preso la pistola per ucciderla; lei ha lottato a lungo per sopravvivere e ha ferito il fratello al volto con le unghie, ma non è riuscita a fermarlo. La storia di Laila è nota tra gli abitanti del villaggio.

Il 15-12-2023 il nostro team sanitario si è recato nel villaggio di Nari, ha visitato i pazienti e ha somministrato i medicinali necessari. Poiché l’arrivo del team era già stato annunciato attraverso l’altoparlante della moschea, sono arrivate anche persone dai villaggi vicini. I nostri medici hanno curato un totale di 270 pazienti, inclusi bambini e donne. Raffreddore, mal di gola, ipertensione e malattie della pelle erano fra i disagi più comuni. Le persone si lamentavano del fatto che non potevano permettersi visite mediche a causa del costo delle medicine e della parcella del medico. Il loro unico reddito proviene dalla coltivazione della terra e riescono a malapena a pagare le spese di cibo e vestiti.

Nello stesso villaggio, infatti, c’è una clinica privata, ma la gente non può andarci a causa del costo eccessivo delle cure. Marzia si era recata dal medico per un’allergia e le è stato somministrato un farmaco stimolante senza essere stata prima sottoposta alle analisi necessarie. Questo farmaco le ha provocato un’infiammazione polmonare e Marzia ha iniziato a perdere peso. Sua sorella, che è un’insegnante, spende tutto il suo stipendio per curare Marzia, ma senza risultati positivi.

Una bambina di cinque anni soffriva di un’infiammazione della vescica perdendo sempre sangue nelle urine. La madre si è recata molte volte dai medici, ma la figlia non è guarita. La stessa madre era molto debole e soffriva di anemia.

Le persone erano felici e soddisfatte dell’ottima qualità dei medicinali forniti dalla nostra équipe. Hanno detto che era la prima volta che vedevano un team sanitario nel villaggio con medici esperti. Ogni giorno, alla fine delle visite e dei trattamenti medici, parlavamo con le persone dei loro problemi e delle loro condizioni di vita. La gente del posto ci ha accolto calorosamente e ci ha fatto visitare dei bellissimi luoghi nei loro villaggi.

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    RAWA Report – Distribuzione del cibo a Herat, dicembre 2023

    Una coppia con un figlio disabile ha speso tutti i suoi averi per le sue cure. Con l’arrivo dei talebani, il recente terremoto e disordini in città, il reddito del capofamiglia, che è un camionista e vive in un’umile casa di una sola stanza, non è più sufficiente a sostenere le loro vite.

    Afghanistan provincia di Herat

    Questa donna trascorre giorni e notti in una casa danneggiata con tre bambini e uno in arrivo. Suo marito è un lavoratore a giornata ed è difficile per lui trovare lavoro in città. Soffre anche di asma e diabete ma non ha abbastanza soldi per le cure.

    Afghanistan provincia di Herat

    Una giovane donna gravemente malata, madre di un bambino. La loro casa è in una delle zone più povere della città di Herat che è stata danneggiata nei vari periodi di guerra e del recente terremoto. A causa della povertà non è in grado di curarsi. È preoccupata di ammalarsi durante l’inverno poiché vive in un seminterrato buio e umido.

    Afghanistan provincia di Herat

    La calzolaia, il cui marito è disabile ad entrambe le mani e non può avere alcuna attività, lavora tutti i giorni con la sua piccola figlia sul ciglio della strada fino a sera. Si è lamentata del fatto che i talebani le hanno impedito di lavorare e l’hanno minacciata molte volte di togliere i suoi attrezzi ed andarsene.

    Afghanistan provincia di Herat

    Una donna deve mantenere sia i figli sia i nipoti dopo la morte del fratello (a seguito di un attacco suicida vicino al posto di lavoro). La cognata si è risposata ma ha lasciato i figli. Questa signora si è rivolta più volte al Ministero dei Martiri e degli Handicappati (per ricevere assistenza sociale) chiedendo aiuto, ma, essendo donna, è stata allontanata con minacce e insulti.

    Afghanistan provincia di Herat

    Una madre single (il marito era tossicodipendente ed è scomparso in Iran), deve prendersi cura anche del padre malato e ricoverato in ospedale. Avrebbe avuto un piccolo reddito affittando due stanze nella parte superiore della loro casa, ma a causa del terremoto sono crollate. Ora non ha modo di lavorare perché non può lasciare il suo anziano padre da solo e il suo bambino di sei anni.

    Afghanistan provincia di Herat

    Madre di tre figli, il cui marito è caduto durante lavori di costruzione in Iran perdendo la vita. Diverse parti della sua casa sono crollate a causa del recente terremoto, ma lei non ha i soldi per ripararle. Ogni sera a casa prepara cibi per il figlio dodicenne che li venderà per strada in modo che possano ottenere un piccolo guadagno.

    Afghanistan provincia di Herat

    I figli di questa donna vivono del lavoro giornaliero della loro mamma  (soprattutto pulisce e lava le case). Suo marito è scomparso in Iran da quattro anni e non si hanno più informazioni. Tre famiglie vivono insieme e per ridurre i costi dividono l’affitto di una casa di tre stanze.

    Afghanistan provincia di Herat

    Seema non era in casa perché impegnata a fare il bucato e le pulizie di altri dalla mattina alla sera. L’anziana nonna si prende cura ogni giorno dei suoi nipoti affinché la nuora, il cui marito è alcolizzato e violento, può preparare un boccone di pane per la famiglia.

    Afghanistan provincia di Herat

    Una grande famiglia vive sotto lo stesso tetto (madre, figlia e nuora possedendo ognuno una sola stanza). La suocera e la nuora sono entrambe vedove e la figlia sopravvive solo con il lavoro quotidiano del marito. Tutti i membri della famiglia sono impegnati a raccogliere la spazzatura dalla mattina alla sera.

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      Webinar Chiusura petizione Stand Up With Afghan Women

      In occasione delle celebrazioni per la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, il 25 novembre 2023, il Coordinamento Italiano a Sostegno delle Donne Afghane (CISDA), Large Movements Aps e AltrEconomia, insieme alle associazioni afghane Revolutionary Association of the Women of Afghanistan (RAWA) e Hambastagi (Partito della Solidarietà) hanno inviato all’attenzione delle istituzioni italiane, europee e internazionali la petizione “Stand Up With Afghan Women”. La petizione è stata lanciata un anno dopo il drammatico ritiro del 15 agosto 2021 delle truppe occidentali dall’Afghanistan seguito all’accordo di Doha tra Stati Uniti e Talebani, ed è una prima tappa della campagna di mobilitazione che vede coinvolte sugli stessi obiettivi 92 associazioni italiane ed europee insieme alle due organizzazioni afghane. Hanno partecipato al dibattito Rappresentanti delle organizzazioni afghane RAWA e Hambastagi, CISDA, Large Movements APS, AltrEconomia, Collettivo donne insieme di Casale Monferrato e il Gruppo di acquisto solidale di Fano e Pesaro

      I talebani sono cambiati?

      Talebano. Una parola ormai entrata nel nostro vocabolario quotidiano per indicare un’intransigenza cieca e feroce. Eppure, è una parola della quale, fino alla seconda metà degli anni ‘90, la maggioranza degli italiani ignorava l’esistenza e che, in ogni caso, non aveva nulla di sinistro significando “studente”.

      Il 27 settembre 1996 il termine “talebano” è esploso nei media occidentali nel significato minaccioso e truce che oggi utilizziamo: quel giorno, l’ultimo presidente della Repubblica Democratica dell’Afghanistan, Mohammad Najibullah, viene prelevato dall’edificio dell’ONU di Kabul (nel quale era rifugiato dal 1992), mutilato, torturato, trascinato con una jeep attorno al palazzo presidenziale, infine ucciso e il suo cadavere esposto per giorni. A compiere l’efferata messa in atto della condanna a morte dell’ex presidente è un “nuovo” gruppo, i talebani appunto, comparso un paio di anni prima in un paese devastato dalla guerra civile, dai crimini compiuti dai “signori della guerra” e da 10 anni di occupazione sovietica.

      Descritti come “studenti formatisi nelle scuole coraniche pakistane”, i talebani sono entrati nella scena politica afghana nel 1994 e non ne sono più usciti. Ma chi sono i talebani? Da dove vengono? Come sono riusciti a prendere il potere in Afghanistan nel 1996 e a riconquistarlo nel 2021, dopo 20 anni di occupazione NATO?

      Le radici dottrinali

      Delle quattro scuole giuridico-religiose dell’Islam sunnita, quella hanafita, costituita verso la fine dell’VIII secolo in Iraq e considerata la più “liberale” tra le scuole ortodosse dell’Islam, è oggi l’elaborazione dottrinale più diffusa nell’Asia centrale, in Egitto, Turchia, Siria, Giordania, Palestina e Iraq. All’interno di questa scuola, nella seconda metà del 1800 a Deoband in India, nasce la corrente detta appunto deobandi principalmente come reazione alla colonizzazione inglese dell’India che, ritenevano i suoi promotori, rischiava di corrompere l’Islam. Senza entrare nel dettaglio possiamo dire che più che una dottrina religioso-giuridica, quella deobandi è un’ideologia che si caratterizza, fin da subito, per il suo carattere anti-imperialista e si diffonde rapidamente in tutto il subcontinente indiano e in Afghanistan.

      Dal punto di vista dottrinale si rifà a un’interpretazione molto rigida dell’Islam. L’ideologia deobandi è influenzata anche dal wahabismo (che appartiene, seppur in modo contestato, a un’altra scuola giuridica, la hanbalita). Facciamo questa precisazione non per puro gusto accademico, ma perché dal wahabismo deriva, a sua volta, la scuola di pensiero salafita profondamente legata alla casa regnante dell’Arabia Saudita (e fondamento del movimento della Fratellanza musulmana) e il cui personaggio più famoso, a partire dagli anni ‘90, è un certo Osama bin-Laden.

      Nonostante i sunniti pakistani che seguono l’ideologia deobandi siano circa il 20%, essi gestiscono circa il 65% delle madrase (scuole religiose): è in queste scuole che si sono formati i talebani e dove emerge rapidamente una figura ammantata di mistero, il mullah Omar.

      Piccoli integralisti crescono

      Il contesto è quello che possiamo leggere nel capitolo finale di questo dossier: dopo l’evacuazione delle truppe sovietiche, in Afghanistan si è scatenato un nuovo inferno e gli “eroici” mujahiddin si sono trasformati nei nuovi aguzzini della popolazione, responsabili di crimini e soprusi quotidiani. Nelle scuole coraniche pakistane, i figli (spesso orfani) di afghani rifugiatisi in Pakistan dai tempi dell’invasione sono “profondamente delusi per lo sbriciolamento della leadership dei mujaheddin, un tempo idealizzata, e per le attività criminali dei loro esponenti”, scrive Ahmed Rashid nel suo libro Talebani. E il giornalista prosegue: “I talebani più giovani conoscono a malapena il proprio paese e la sua storia, ma nelle loro madrase vagheggiano la società islamica ideale creata dal profeta Maometto millequattrocento anni prima, la società che vogliono emulare… La loro semplice fede in un Islam messianico, puritano, l’Islam che è stato impresso nelle loro menti da semplici mullah di paese, è l’unico puntello cui aggrapparsi e che conferisce un po’ di senso alle loro vite”.

      Ma non solo: “Si sono radunati volontariamente nella confraternita esclusivamente maschile che i leader talebani hanno creato… sono orfani cresciuti senza donne – madri, sorelle, cugine. … Vivono una vita aspra, durissima… Si sentono minacciati da quella metà del genere umano che non hanno mai conosciuto, ed è quindi molto più facile rinchiuderla, questa metà, soprattutto se a ordinarlo sono i mullah che ricorrono a primitive ingiunzioni islamiche prive di fondamento nella legge coranica”, scrive sempre Rashid.

       

      L’entrata in scena

      Tutto il paese è risucchiato dalla guerra civile, ma l’Afghanistan meridionale e la provincia di Kandahar sono il centro dell’inferno con bande di ex mujaheddin che razziano la popolazione, commettendo ogni sorta di sopruso. È il 1994 e i talebani stanno per entrare in scena con un episodio ormai diventato leggenda: Omar è il mullah di una piccola madrasa a Singesar, vicino a Kandahar, e viene informato che un comandante locale ha fatto rapire due ragazzine poi violentate. Omar raduna una trentina di studenti di teologia e attacca la base, uccidendo il comandante e liberando le ragazzine. Fatti simili si ripetono e le fila dei talebani, che si presentano come “un movimento che si prefigge lo scopo di purificare la società” (Rashid), si ingrossano.

      Ma i talebani giocano un’altra carta che si rivelerà vincente: proteggono la mafia pakistana dei trasporti e del contrabbando che garantisce denaro e appoggi per poter liberamente transitare nei territori controllati dagli stessi talebani.

      Militari, governo e servizi segreti pakistani avevano fino a quel momento sostenuto Gulbuddin Hekmatyar ritenendolo il più probabile vincitore della guerra civile in un paese indispensabile per aprire le vie commerciali, e del petrolio, con le repubbliche centro-asiatiche. Rendendosi invece conto di star favorendo un perdente, i pakistani iniziano a sostenere il movimento dei talebani al quale, nel frattempo, si sono uniti anche diversi gruppi salafiti, appoggiati ed equipaggiati dall’Arabia Saudita.

      Il salto di qualità

      Inizialmente sostenuti da una parte della popolazione alla quale, dopo anni di guerre e angherie, promettono la pace, patrocinati da Pakistan e Arabia Saudita i talebani nel giro di due anni controllano il 90% del paese fino a conquistare Kabul e proclamare l’Emirato Islamico dell’Afghanistan.

      Se l’uccisione di Najibullah è l’atto che li fa conoscere al mondo, è la messa in atto della più oscurantista interpretazione dell’Islam che mostrerà al popolo afghano il vero volto dei talebani: le scuole femminili vengono chiuse, le donne non possono uscire di casa da sole e quando lo fanno devono essere integralmente coperte, vengono distrutti gli apparecchi televisivi e messi al bando sport e attività creative, vietata la musica e gli aquiloni, imposta la barba agli uomini e la frequentazione delle moschee, ogni violazione della sharia viene punita severamente fino ad arrivare a pubbliche esecuzioni e lapidazioni.

      L’Emirato viene riconosciuto solo da Emirati Arabi Uniti, Pakistan e Arabia Saudita, ma l’appoggio dell’Arabia Saudita e le repressioni della minoranza hazara, sciita, fanno dell’Iran un nemico dell’Emirato, solleticando così l’interesse degli USA (vedi l’articolo dedicato alla storia dell’Afghanistan): l’amministrazione Clinton vede favorevolmente l’affermarsi del movimento talebano non solo in visione anti-Iran, ma anche perché auspica di trovare un appoggio per la realizzazione dell’oleodotto sponsorizzato dalla multinazionale texana Unocal.

      Intanto, mentre la popolazione afghana, annichilita dal regime di terrore instaurato dai talebani, cerca di sopravvivere in un paese distrutto, gli “studenti” consolidano il proprio potere anche grazie ai proventi della coltivazione del papavero da oppio.

      Il vero salto di qualità, però, i talebani lo compiono nel 1996, quando Osama bin Laden si trasferisce definitivamente in Afghanistan insediando la base più importante di al-Qaeda, dove vengono addestrati 2500 guerriglieri. L’instaurazione dell’Emirato con l’implacabile applicazione della sharia e la presenza nel paese di uno dei 10 uomini più ricercati dagli Stati Uniti trasformano l’Afghanistan in un formidabile aggregatore di jihadisti: “L’Afghanistan era un’incubatrice, dove i semi [del movimento jihadista] sarebbero cresciuti”, sono le parole del numero due di al-Qaeda Ayman al-Zawahiri riportate da Elisa Giunchi nel suo libro sull’Afghanistan.

      Fuga e riorganizzazione

      Ed è proprio in quanto sede del centro operativo di Bin Laden che il regime dei talebani verrà ritenuto corresponsabile degli attentati dell’11 settembre 2001 e l’Afghanistan attaccato nell’ottobre dello stesso anno. Grande rilievo viene dato in Occidente alle operazioni USA prima e alle missioni NATO poi, ma la caduta dell’Emirato non corrisponde alla scomparsa dei talebani, che si rifugiano prima nei villaggi del sud dell’Afghanistan, loro storica roccaforte, e poi in Pakistan, nel Beluchistan e nelle FATA (Federally Administered Tribal Areas), un’area nella quale le tribù pashtun godono di una certa indipendenza rispetto al governo centrale di Islamabad.

      Nonostante le perdite, quasi l’intera struttura di comando dei talebani è rimasta intatta e in Pakistan, grazie al supporto dei servizi segreti pakistani, si riorganizzano rapidamente. I pashtun delle FATA aprono il loro territorio a integralisti di tutto il mondo (ceceni, centroasiatici, africani, indonesiani, uiguri) che vanno a ingrossare le file di al-Qaeda, le cui sorti si intrecciano sempre più con quelle dei talebani. Questi stanno anche imparando dall’organizzazione di Bin Laden e dai servizi segreti pakistani le tecniche di guerriglia e a utilizzare sofisticati mezzi di comunicazione. Nel 2004 i talebani possono già contare su solide basi in territorio afghano e compiono continue azioni contro le forze di polizia afghane e le truppe NATO.

      Il governo centrale afghano controlla di fatto solo la capitale, tanto che Hamid Karzai più che presidente viene chiamato “sindaco di Kabul”, mentre il resto del paese è nuovamente in balia dei signori della guerra e degli attacchi suicidi dei talebani che, a partire dal 2006, hanno intensificato l’utilizzo di questa tattica per colpire gli avversari.

      Rimandiamo alla Cronologia per il dettaglio degli eventi, quello che qui dobbiamo sottolineare è che in questi anni Karzai mantiene contatti con i talebani per cercare di coinvolgerli in “trattative di pace”. È qui che nasce il “mito” dei talebani “moderati”, con i quali, si dice, è possibile instaurare un dialogo. No, in questo caso il termine ha un significato ben diverso: i talebani non hanno modificato di una virgola la loro ideologia e nei territori che controllano l’oscurantismo integralista viene applicato con lo stesso zelo di quando governavano l’intero paese. Semplicemente, i talebani “moderati” sono quelle frange disposte a trattare con Karzai per spartirsi il controllo del paese e con l’Occidente perché la NATO esca dall’Afghanistan.

      1994 e 2021: i talebani sono diversi?

      Negli anni successivi i talebani continuano la loro guerra di logoramento e, nel contempo, terrorizzano la popolazione. Nel frattempo, gli USA sono impegnati nella guerra con l’Iraq e di lì a poco il mondo sarà sconvolto dalle guerre in Libia e in Siria che fanno emergere un nuovo attore nel panorama dell’integralismo islamico, l’ISIS. Un attore che farà il suo ingresso anche nella scena afghana.

      Mentre gli occhi del mondo sono catalizzati dagli orrori dell’ISIS in Siria, in Afghanistan i talebani controllano i tre quarti del paese. E quando nel febbraio 2020 si siedono al tavolo con i negoziatori USA in Qatar, quella che firmano non è un’intesa di pace, come viene pomposamente chiamata dall’amministrazione Trump, ma una via d’uscita per gli USA per l’evacuazione delle loro truppe dal paese entro l’agosto 2021 (termine precedentemente dato dall’amministrazione Obama).

      A questo punto torniamo alla domanda iniziale: sono diversi i talebani tornati al governo di Kabul nel 2021 rispetto a quelli che avevano preso il potere nel 1994? Sicuramente sono più preparati alla gestione del potere e nell’utilizzo dei mezzi informatici, cosa che ha permesso loro, per esempio, di accedere facilmente ai database con le informazioni relative ai cittadini afghani (vedi pagina 7). Poi sono meglio equipaggiati militarmente: oltre ai finanziamenti diretti ricevuti da Pakistan e Arabia Saudita, i talebani sono entrati in possesso dell’arsenale americano lasciato sul territorio dopo la fuga da Kabul nell’agosto 2021. Il consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca, Jake Sullivan, ha confermato che i miliziani hanno preso possesso di un enorme arsenale del valore di miliardi di dollari: [5] dai veicoli militari Humvee ai fucili M4 e M16, fino a elicotteri Black Hawk e aerei A-29; anche se è probabile che abbiano difficoltà a utilizzare le armi più avanzate, rimane comunque una dotazione importante di armi “leggere” in loro possesso.

      Ideologicamente invece sono sempre gli stessi e lo hanno dimostrato subito, ma sono meno coesi. Nella lotta per il potere emergono due fazioni principali, quella legata al mullah Abdul Ghani Baradar e quella che fa capo a Sirajuddin Haqqani. Il primo era il vice del mullah Omar, arrestato a Karachi nel 2010 e successivamente liberato su richiesta degli USA perché partecipasse ai colloqui di Doha fino alla firma dell’accordo del 2020. Il secondo è a capo della Rete Haqqani, un gruppo alleato dei talebani ma autonomo e molto vicino ad al-Qaeda; Sirajuddin è il figlio di Jalaluddin che fondò il proprio movimento durante l’occupazione sovietica grazie a un grosso trasferimento di armi e denaro da parte della CIA [6].

      Infine, c’è l’incognita ISIS. Nel 2014 l’ISIS aveva avviato contatti con il gruppo Tehrik i Taliban Pakistan (TTP), i cosiddetti talebani pakistani aderenti alla corrente salafita e quindi molto vicini ad al-Qaeda. Questa relazione aveva dato vita all’ISIS-K (Stato islamico dell’Iraq e del Levante – Provincia di Khorasan) che si era radicata nelle aree orientali dell’Afghanistan, attaccando tanto il governo afghano quanto i talebani. Oggi l’ISIS-K, responsabile di continui attentati ed azioni di guerriglia, in particolare nella zona di Narganhar, sta reclutando tra le proprie fila ex combattenti che non si sentono adeguatamente remunerati dal nuovo governo per il loro passato impegno ed ex membri delle forze di sicurezza afghane desiderosi di sfuggire ai talebani. La polveriera Afghanistan è pronta a esplodere nuovamente.

       

      Are the Taliban Different?

      Taliban: A word now ingrained in our daily vocabulary to denote blind and fierce intransigence. However, until the late 1990s, most Italians were unaware of its existence, and in any case, it did not have any sinister connotations, simply meaning “student.”

      On September 27, 1996, the term “Taliban” exploded in Western media with the menacing and grim meaning we use today: that day, the last president of the Democratic Republic of Afghanistan, Mohammad Najibullah, was taken from the UN building in Kabul (where he had taken refuge since 1992), mutilated, tortured, dragged around the presidential palace by a jeep, finally killed, and his corpse displayed for days. The brutal execution of the former president was carried out by a “new” group, the Taliban, which had emerged a couple of years earlier in a country devastated by civil war, crimes committed by “warlords,” and ten years of Soviet occupation.

      Described as “students trained in Pakistani madrassas,” the Taliban entered the Afghan political scene in 1994 and have remained there ever since. But who are the Taliban? Where do they come from? How did they manage to take power in Afghanistan in 1996 and regain it in 2021 after 20 years of NATO occupation?

      Doctrinal Roots

      Of the four legal-religious schools of Sunni Islam, the Hanafi school, established towards the end of the 8th century in Iraq and considered the most “liberal” among the orthodox schools of Islam, is today the most widespread doctrinal interpretation in Central Asia, Egypt, Turkey, Syria, Jordan, Palestine, and Iraq. Within this school, in the second half of the 1800s in Deoband, India, the Deobandi movement emerged mainly as a reaction to the British colonization of India, which its proponents believed was at risk of corrupting Islam. Without going into detail, we can say that more than a religious-legal doctrine, Deobandism is an ideology characterized from the start by its anti-imperialist stance and it quickly spread throughout the Indian subcontinent and Afghanistan.

      Doctrinally, it adheres to a very strict interpretation of Islam. Deobandi ideology is also influenced by Wahhabism (which belongs, albeit controversially, to another legal school, the Hanbali school). We make this clarification not for pure academic interest but because Wahhabism gave rise to the Salafist school of thought, closely tied to the ruling house of Saudi Arabia (and the foundation of the Muslim Brotherhood movement), whose most famous figure from the 1990s onward is a certain Osama bin Laden.

      Despite Pakistani Sunnis following Deobandi ideology being about 20%, they manage about 65% of the madrassas (religious schools): it is in these schools that the Taliban were trained, and where a mysterious figure, Mullah Omar, emerged.

      Little Fundamentalists Grow Up

      The context is described in the final chapter of this dossier: after the evacuation of Soviet troops, Afghanistan descended into new chaos and the “heroic” mujahideen became the new tormentors of the population, responsible for daily crimes and abuses. In Pakistani madrassas, the children (often orphans) of Afghans who had taken refuge in Pakistan since the invasion are “deeply disillusioned by the disintegration of the mujahideen leadership, once idealized, and the criminal activities of their leaders,” writes Ahmed Rashid in his book Taliban. The journalist continues: “The younger Taliban know little about their own country and its history, but in their madrassas, they long for the ideal Islamic society created by the Prophet Muhammad fourteen hundred years ago, the society they want to emulate… Their simple faith in a messianic, puritanical Islam, the Islam that has been imprinted in their minds by simple village mullahs, is the only support they cling to and that gives some sense to their lives.”

      Moreover: “They have voluntarily gathered in the exclusively male brotherhood created by Taliban leaders… they are orphans raised without women – mothers, sisters, cousins… They live a harsh, grueling life… They feel threatened by the half of humanity they have never known, so it is much easier to lock it away, especially if ordered by the mullahs who use primitive Islamic injunctions without foundation in Quranic law,” Rashid continues.

      Entering the Scene

      The entire country is engulfed in civil war, but southern Afghanistan and Kandahar province are the center of hell with bands of former mujahideen raiding the population, committing all sorts of abuses. It is 1994 and the Taliban are about to enter the scene with an episode that has become legendary: Omar, the mullah of a small madrasa in Singesar near Kandahar, is informed that a local commander has kidnapped two girls who were then raped. Omar gathers about thirty theology students and attacks the base, killing the commander and freeing the girls. Similar incidents occur, and the Taliban, who present themselves as “a movement aimed at purifying society” (Rashid), grow in numbers.

      But the Taliban play another winning card: they protect the Pakistani transport and smuggling mafia, ensuring money and support for free passage through Taliban-controlled territories.

      Pakistani military, government, and intelligence services had until then supported Gulbuddin Hekmatyar, considering him the most likely winner of the civil war in a country essential for opening trade routes and oil pipelines with Central Asian republics. Realizing they were backing a loser, the Pakistanis began supporting the Taliban movement, which had also attracted several Salafi groups, supported and equipped by Saudi Arabia.

      The Leap in Quality

      Initially supported by a part of the population to whom they promised peace after years of wars and abuses, sponsored by Pakistan and Saudi Arabia, the Taliban controlled 90% of the country within two years, eventually capturing Kabul and proclaiming the Islamic Emirate of Afghanistan.

      If the killing of Najibullah was the act that introduced them to the world, it was their implementation of the most obscurantist interpretation of Islam that showed the Afghan people the true face of the Taliban: girls’ schools were closed, women could not leave home alone and had to be fully covered, televisions were destroyed, sports and creative activities banned, music and kites prohibited, men were required to grow beards and attend mosques, and every violation of sharia was severely punished, including public executions and stonings.

      The Emirate was recognized only by the United Arab Emirates, Pakistan, and Saudi Arabia, but Saudi support and repression of the Shiite Hazara minority made Iran an enemy of the Emirate, thus attracting the interest of the USA (see the article on Afghanistan’s history): the Clinton administration viewed the rise of the Taliban favorably, not only as an anti-Iran stance but also in hopes of finding support for the Unocal-sponsored pipeline project.

      Meanwhile, as the Afghan population, crushed by the Taliban’s reign of terror, tried to survive in a devastated country, the “students” consolidated their power, also thanks to the proceeds from opium poppy cultivation.

      However, the real leap in quality for the Taliban came in 1996 when Osama bin Laden permanently moved to Afghanistan, establishing al-Qaeda’s most important base, where 2500 fighters were trained. The establishment of the Emirate with the relentless application of sharia and the presence of one of the ten most wanted men by the United States turned Afghanistan into a formidable hub for jihadists: “Afghanistan was an incubator where the seeds [of the jihadist movement] would grow,” said al-Qaeda’s number two, Ayman al-Zawahiri, quoted by Elisa Giunchi in her book on Afghanistan.

      Escape and Reorganization

      It was precisely as the operational base of bin Laden that the Taliban regime was held co-responsible for the September 11, 2001, attacks, and Afghanistan was attacked in October of the same year. Great importance was given in the West to US operations first and NATO missions later, but the fall of the Emirate did not correspond to the disappearance of the Taliban, who first took refuge in the southern Afghan villages, their historic stronghold, and then in Pakistan, in Baluchistan and the FATA (Federally Administered Tribal Areas), an area where Pashtun tribes enjoy a certain independence from the central government of Islamabad.

      Despite the losses, almost the entire Taliban command structure remained intact and in Pakistan, thanks to support from Pakistani intelligence services, they quickly reorganized. The Pashtuns of the FATA opened their territory to fundamentalists from around the world (Chechens, Central Asians, Africans, Indonesians, Uighurs), who joined the ranks of al-Qaeda, whose fate became increasingly intertwined with that of the Taliban. They also learned guerrilla techniques and how to use sophisticated communication means from bin Laden’s organization and Pakistani intelligence services. By 2004, the Taliban had solid bases in Afghan territory and carried out continuous actions against Afghan police forces and NATO troops.

      The Afghan central government effectively controlled only the capital, so much so that Hamid Karzai was called “mayor of Kabul” rather than president, while the rest of the country was again at the mercy of warlords and Taliban suicide attacks, which intensified starting in 2006.

      Refer to the Chronology for event details. What we need to emphasize here is that in these years, Karzai maintained contacts with the Taliban to involve them in “peace negotiations.” This is where the “pragmatism” of a part of the Taliban is evidenced, and it will become important in later years: according to agreements with the Afghan government, the Taliban suspend military activities during the presidential elections, and to a lesser extent, for the parliamentary elections.

      1994 and 2021: Are the Taliban Different?

      Given what we’ve described so far, it’s no surprise that from May 2021, when the US began evacuating its troops, the Taliban were able to conquer territory with disconcerting speed and without encountering serious resistance, so much so that a month later, they were already laying siege to Kabul and the provincial capitals.

      Twenty years had passed since the first NATO bombing, and if the Taliban had learned guerrilla techniques in the first years of their existence, in these years of NATO presence, they learned modern communication techniques and diplomatic mechanisms. Above all, they understood that the population cannot be subjugated by fear alone.

      It is also no surprise that the Taliban of 2021 had a different profile than the Taliban of 1994: after twenty years of Afghan lives wasted, destroyed by violence, NATO bombings, forced migrations, lack of schools, and devastation of the territory, the new Taliban are “pragmatic,” write Monica Bernabe and Lucio Caracciolo in the introduction to the dossier Afghanistan 2021. They have learned to “avoid excesses to gain legitimacy in the eyes of the international community.” This legitimization, pursued for years with the “peace negotiations,” has had a first, sensational result with the Doha Agreement between the United States and the Taliban, signed in February 2020. The agreement promised the Taliban withdrawal of NATO troops in exchange for a promise not to give refuge to al-Qaeda.

      This is the first point to note about the “new” Taliban: they wanted to appear different, peaceful, reliable partners in dialogue, capable of guaranteeing human rights, and even women’s rights (or at least that’s what the “negotiators” said). They wanted to transform the perception of the Taliban, a task that was initially successful, but then failed.

      The Taliban are still a group that identifies with the Deobandi doctrine and maintains its essence, however much “pragmatism” they may exhibit. This became clear as soon as they took power, through acts similar to those they carried out in 1996: they prohibited co-education, expelled female students from universities, prohibited women from working for international NGOs, and implemented increasingly oppressive measures against women in general.

      There is also another factor to consider: the “new” Taliban have learned that control of territory cannot be based solely on terror and the imposition of a single interpretation of sharia. Consequently, they reached agreements with local forces (like in the province of Panjshir, historically opposed to the Taliban) and tribes, recognizing their autonomy.

      Therefore, the Taliban of 2021 differ in their approach from those of 1996, and perhaps the “modernized” Taliban will reintroduce a “softer” interpretation of their religious doctrine, capable of allowing the Afghan people to emerge from the obscurantism and repression that have characterized their history over the past fifty years.

      Report Last Twenty 2023 – Afghanistan – La tragedia di un popolo sedotto e abbandonato

      Come è noto, nel 2021 l’Italia ha ospitato il G20. Nel luglio dello stesso anno si è tenuto a Reggio Calabria, il primo incontro degli L20, ovvero degli Ultimi 20 Paesi in base agli indicatori socio-economici. A questo primo incontro ne son seguiti altri e nell’ottobre del 2022 si è costituita l’Associazione L20 a cui hanno aderito e continuano ad aderire singole persone, associazioni, Ong, ecc. È stato quindi un Comitato scientifico e un gruppo di lavoro per redigere il secondo Report L20 con l’obiettivo di guardare il mondo dai “margini”, per leggere il mutamento – economico, sociale, ambientale e politico – da quest’altra faccia del nostro pianeta. Dare voce agli Ultimi, conoscere questi Paesi, la loro storia, cultura, e i loro bisogni emergenti.

      Riportiamo qui il testo, scritto da Antonella Garofalo di CISDA, relativo all’Afghanistan. Chi desidera ottenere il Report completo, lo può ricevere via mail compilando il modulo pubblicato in calce all’articolo.


      La situazione dell’Afghanistan, dopo due anni di regime talebano, è quella di un Paese allo stremo delle sue forze, impoverito e affamato.

      Nessuno aveva creduto alle promesse dei talebani. Appena avevano riconquistato il potere con la presa definitiva di Kabul il 15 agosto 2021 dichiaravano di essere cambiati: avrebbero consentito alle ragazze di andare a scuola e lavorare. Promettevano addirittura di concedere libertà di espressione. Ma non era possibile fidarsi. In questi due anni sono spariti o sono stati uccisi giornaliste, giudici donne, soldati, medici e infermiere. Continuano a eliminare i loro oppositori e oppositrici politiche, seminando violenza e terrore in tutta la popolazione.

      Il 90% della popolazione afghana è sotto la soglia di povertà, i 2/3 della popola- zione (quasi 20 milioni su 34 milioni di abitanti) hanno difficoltà enormi ad accedere a provviste alimentari di prima necessità.

      È diminuito il tasso di occupazione anche per gli uomini, ma per le donne, spesso vedove, subire il divieto di lavorare significa non poter dare da mangiare ai propri figli.

      Da settembre del 2021 sono stati emessi dai talebani oltre 50 editti che cancellano ogni diritto per le donne, a cui è preclusa la partecipazione sociale e politica e soprattutto l’accesso ai servizi di base indispensabili, sanitari, educativi e di lavoro. Nostre fonti nel Paese ci confermano che l’applicazione degli editti è del tutto arbitraria e le sanzioni sono comminate a discrezione dei talebani presenti al momento dei con- trolli e diversi a seconda dei luoghi in cui si trovano. Ciò quindi rafforza un clima di insicurezza costante, terrore e impunità.

      I fondi arrivano al governo di fatto soprattutto da USA e ONU, giustificati dalla crisi umanitaria a causa della quale sono state sospese le sanzioni economiche con- tenute nella risoluzione 2615 del Consiglio di Sicurezza. E arrivano dalle TASSE imposte dai Talebani sui passaggi alla frontiera di merci e persone (compresa la vendita dei passaporti); sulle concessioni minerarie (contratti con Paesi come la Cina e la Russia); dalla vendita dell’oppio.

      Su quest’ultimo tema, l’oppio, uno studio di David Mansfield (2021-2023) docu- menta una significativa riduzione della produzione di papavero, rilevata attraverso immagini satellitari di precisione. Nella provincia di Helmand, da cui veniva il 50% del prodotto, la coltivazione risulta diminuita del 99%. Questo dimostrerebbe che il bando promulgato dai talebani nell’aprile 2022 viene ora applicato, mentre in una prima fase i talebani avevano lasciato concludere il ciclo già avviato, tanto che nel novembre del 2022 gli esperti ONU (rapporto UNODOC) avevano rilevato un aumento della produzione di oppio del 32%.

      Ci sono varie ipotesi di spiegazione di questo nuovo corso: zelo religioso? Conflitti interni di potere? Attirare assistenza allo sviluppo dalla comunità internazionale? Monopolizzare il commercio e manipolare i mercati? Abbiamo chiesto ai nostri contatti di riferimento in Afghanistan e sono molto scettici sulla possibilità che i talebani intendano ridimensionare la loro principale fonte di reddito, cioè produzione, raffinazione e commercializzazione dell’oppio: non possono farne a meno.

      Nell’immediato, si paventa la perdita di 450.000 posti di lavoro a tempo pieno nel settore con conseguente nuova spinta migratoria.

      Rilevante anche il nuovo aumento dei rifugiati interni, documentato dall’ONU: nel novembre 2022 sono stimati 5.9 milioni, di cui 68% per conflitti e violenze, 32% per disastri “naturali”, cioè dovuti ai cambiamenti climatici (siccità e alluvioni) e terremoti.

      Negli ultimi rapporti ONU (Human Right ONU resolution 51/20; il report del UN High Commissioner for Human Rights presentato alla 52° sessione dell’Hu- man Right Council; il report specifico sulla “Situazione delle donne e delle ragaz- ze” pubblicato il 15/06/23 a firma dello stesso Special Rapporteur, Richard Bennet, A/HRC/53/21) rileviamo dati che confermano ampiamente quanto arriva dai no- stri contatti all’interno dell’Afghanistan. Viene chiaramente indicato come l’insie- me delle violazioni vada considerato pienamente “persecuzione di genere”, crimine contro l’umanità. E che come tale andrebbe perseguito. Le autorità di fatto talebane stanno infatti “normalizzando” le discriminazioni e la privazione sistemica dei diritti fondamentali delle donne e la violenza contro di loro in quanto donne.

      È la conclusione a cui giunge anche il rapporto di Amnesty International, scritto con la Commissione Internazionale dei Giuristi, che chiede quindi al Tribunale Penale Internazionale di indagare, e ai singoli Paesi di utilizzare i propri strumenti legali per consegnare alla giustizia i criminali che dovessero transitare nel proprio territorio.

      Interessante anche il giudizio molto esplicito espresso dal doc ONU del 15/06/23 di cui sopra: gli accordi di Doha deL2020 “exemplified the willingness of all actors to disregard women’s rights for the sake of political expedience” (“dimostrano la volontà di tutti gli attori di ignorare i diritti delle donne a beneficio della convenienza politica”) e sono stati assunti in modo non trasparente e non inclusivo.

      Il CISDA continua a sostenere la resistenza delle attiviste di Rawa, l’Associazione Rivoluzionaria delle Donne Afghane e delle attiviste e degli attivisti di Hambastagi, il Partito della Solidarietà. Sono organizzazioni progressiste, democratiche, laiche e antifondamentaliste. RAWA è anche, e in primo luogo, un’organizzazione femminista attiva in Afghanistan da 46 anni, rimasta fedele all’impegno per la giustizia sociale inaugurato da Meena, la sua fondatrice, come azione centrale nella rivoluzione portata avanti fin dalle origini. RAWA è da sempre costretta a operare nella clandestinità.

      Insieme a RAWA e HAMBASTAGI, CISDA sostiene dalla fine degli anni ’90 tutta una rete di associazioni e ong che si occupano di portare aiuto alle donne e alla popolazione e di difendere i diritti umani. Si tratta di organizzazioni che hanno una caratteristica fondamentale: sono composte per lo più da donne e sono guidate dalle donne.

      Quello che le organizzazioni non governative afghane stanno facendo oggi è un vero slalom tra emergenza umanitaria, e divieti e arbitri imposti dalle autorità. CISDA denuncia il pericolo in cui, a causa dell’inasprimento della repressione in corso, incorrono in modo particolare proprio le operatrici e gli operatori di questa rete di associazione e ong locali costretti alla semi-clandestinità perché le loro attività sono considerate sospette. I talebani rastrellano le case, quartiere per quartiere, in particolare quelle di attiviste e attivisti e delle responsabili. Spesso hanno elenchi con i nomi, per andare a colpo sicuro. Anche le case delle lavoratrici e dei lavoratori delle ong della nostra rete sono state perquisite e loro sono state obbligate/i a cambiare spesso abitazione per non rischiare la vita, a distruggere documenti e a nascondere computer e telefoni.

      Una delle attività maggiormente a rischio in ambito umanitario è quella dell’istruzione: i talebani, oltre a vietare l’accesso alle scuole per le bambine dai 12 anni, vogliono impedire l’istituzione di classi clandestine, una delle poche modalità per garantire oggi il diritto all’istruzione di bambine e ragazze e di poter accedere allo studio di materie scientifiche e alla lingua inglese, sfuggendo all’indottrinamento religioso che pervade quello che rimane dell’istruzione statale.

      Ma anche tante altre attività realizzate da RAWA e HAMBASTAGI e dalle ong afghane che sosteniamo vengono ostacolate in tutti i modi: impossibile tenere aperta una casa protetta per le vittime di violenza, se non rendendola ancora più segreta e assolutamente non identificabile come quella che stiamo sostenendo dopo l’evacua- zione dello shelter di Kabul.

      Sempre più difficile anche la distribuzione di cibo alle persone più bisognose: per poterla realizzare è necessario passare controlli e interrogatori inventandosi ogni genere di trucco per far proseguire i rifornimenti oltre i check-point, senza mettere a rischio operatrici/attivisti e derrate alimentari.

      Ci sembra più che mai necessario dare voce a Belquis Roshan, senatrice nella Ca- mera alta del Parlamento afghano durante il precedente governo, costretta a lasciare il suo Paese e ora rifugiata in Europa, che il 26 agosto 2023, durante un incontro con Richard Bennett, il relatore speciale dell’ONU sulla situazione dei diritti umani in Afghanistan e i delegati alla prima sessione delle NU per discutere dell’”apartheid di genere” in Afghanistan, dichiara:

      «Chiedere semplicemente ai talebani di riaprire scuole e centri educativi per donne è un obiettivo molto limitato. I talebani hanno trasformato il sistema educativo in una piattaforma fondamentalista e terroristica al fine di crescere i nostri bambini e ragazzi con una mentalità violenta e prepararli ad attentati suicidi, esplosioni e criminalità, e questo è un grave pericolo non solo per l’Afghanistan ma per tutto il mondo. Anche se le ragazze vi potessero andare, è preferibile non avere scuole del genere dove non vi sono elementi di progresso o conoscenza.

      Le donne che protestano vengono attaccate, quindi le istituzioni internazionali dovrebbero essere la loro voce. Invece di sponsorizzare alcune lobbiste talebane che sono la causa di questa misera situazione, alle donne che combattono coraggiosamente in Afghanistan contro i talebani dovrebbe essere data l’opportunità di far sentire le loro urla pro-democrazia e di essere ascoltate.

      L’”amnistia generale” dei talebani è una menzogna: stanno uccidendo ex dipendenti governativi, soprattutto nel settore militare e gli attivisti per i diritti umani. Si dovrebbe alzare la voce su questo.

      Il mondo ha dimenticato l’Afghanistan. Il caso dell’Afghanistan, i diritti umani e la sua catastrofe umanitaria non dovrebbero essere lasciati incustoditi, gli atti terroristici e misogini dei talebani dovrebbero essere smascherati e il mondo ne dovrebbe parlare seriamente.

      Bisogna trattare i talebani non come un governo legittimo ma come criminali le cui mani sono macchiate del sangue di innocenti afghani e come forza che cerca di fare dell’Afghanistan il centro del terrorismo e del fondamentalismo. Questo è il minimo che possiamo aspettarci dal mondo e dalle istituzioni per i diritti umani».

      A conclusione di questo report, comunichiamo che continua la campagna #StandUpWithAfghanWomen!

      Si propone di tutelare i diritti umani in Afghanistan e di promuovere un’azione incisi- va per il sostegno alle realtà democratiche e antifondamentaliste che operano nel Paese.

      La campagna si incentra su quattro temi principali:

      1. Non riconoscimento del Governo dei talebani
      2. Autodeterminazione del popolo afghano
      3. Riconoscimento politico delle forze afghane progressiste e messa al bando di personaggi politici legati ai partiti fondamentalisti
      4. Monitoraggio sul rispetto dei diritti umani

      Stand Up With Afghan Women! nasce dalla collaborazione tra Cisda e Large Movements, con il sostegno della rivista Altreconomia nell’ambito della rete eu- ro-afghana di coalizione per la democrazia e la laicità, network di organizzazioni già impegnate a vario titolo nella loro azione quotidiana, per la difesa dei diritti umani.

      L’unica via per le donne resta quella dell’autodeterminazione. Solo un governo democratico e laico può garantire al popolo afghano la sicurezza, l’indipendenza, l’uguaglianza di genere e la fine delle discriminazioni razziali. Come chiedono le attiviste afghane: “Aiutiamo a creare una coscienza politica afghana, aiutiamo le donne a sentirsi libere di pensare e dire quello in cui credono”.


      Il Report Last Twenty 2023 è il frutto di un lavoro collettivo, coordinato da Tonino Perna e Ugo Melchionda, rispettivamente Presidente e segretario dell’associazione L20 Aps. Hanno collaborato alla stesura di questo Report: Marco Ricceri, segretario generale EURISPES; Francesco Vigliarolo, Università Catòlica de la Plata, Cattedra UNESCO; Nadia Marrazzo, geografa, Università di Napoli Federico II; Valentino Bobbio, segretario generale NeXt; Antonella Garofalo, Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane, Simon Gomnan e Rondouba Brillant giornalista; Federica Faroldi, cooperante internazionale; Siid Negash, Coordinamento Eritrea Democratica; Paolo Massaro, delegato di Terre des Hommes per il Mozambico.

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