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Autore: Patrizia Fabbri

Benhaz e Sara

Ho 22 anni e vengo da Ghor, nella parte occidentale del paese, vicino ad Herat. All’inizio sono stata fortunata, più di tante altre. Mi sono sposata a 16 anni, lui ne aveva 20. Un uomo gentile, premuroso, ci volevamo molto bene. Non so come sia possibile che sia nato in una famiglia come quella. Siamo andati a vivere con loro. Mio marito mi ha sempre protetta, litigava spesso, soprattutto col fratello. Un anno fa, mio marito è morto.
Mi ha lasciata sola con le mie due bambine, adesso hanno 2 e 4 anni. Anzi, magari fossimo sole, noi tre. Essere vedova qui non è facile. Non ho soldi, non ho lavoro, non sono in grado di mantenerci. Una donna qui non è niente. Ci vuole un mahram, un uomo che si occupi di lei. La famiglia di mio marito ha deciso per me: devo sposare mio cognato che ha già due mogli e molti figli. Secondo la tradizione.
Così tutto sarebbe a posto. Non per me però. Io non voglio. Non mi piace, è un uomo violento, so bene come si comporta con le mogli. Così sono andata da mio padre. Ma lui non è disposto a prenderci con sé. Non riesce nemmeno a far mangiare gli altri figli, non può accollarsi anche noi. Mi ha rimandata a casa dei suoceri, devo fare come vogliono loro , è l’unica soluzione per vivere, dice. Ma qui, ogni volta che rifiuto di sposarlo, mio cognato mi picchia. Potrei essere libera, certo, scappare, andarmene. Ma dovrei dire addio alle mie figlie. Se non le posso mantenere o se mi sposo con qualcun altro devo rinunciare a loro.
Ecco, è questo il ricatto. Essere madre ti rende fragile. Quando non ce la faccio più torno da mio padre e lui mi rimanda indietro. E tutto ricomincia. Ogni tanto sto male, mi agito molto e perdo i sensi. Questa situazione non può durare ancora per molto. Sono giovane e vorrei tanto una vita tranquilla, crescere le bambine e mandarle a scuola… sì lo vorrei proprio.

Aggiornamenti

Il ricatto è chiaro: o Benhaz sposerà un cognato o perderà le figlie, non potrà vederle mai più. Il sostegno di Annalisa le permette di fare un passo importante. Finalmente il padre, ora che può mantenersi, le permette di abitare con lui insieme con le figlie. La famiglia del marito non demorde e Benhaz cerca disperatamente un lavoro.
Se dimostrerà di poterle mantenere forse la Corte le darà il permesso di tenerle con sé.
Può solo fare la cuoca o la donna di servizio, non ha istruzione, ma il padre non vuole e anche questo è un ostacolo. Non si lascia scoraggiare e può curare la sua depressione. Ora le figlie abitano con lei ma la vita a casa dei suoi genitori non è facile. Non le perdonano la sua scelta di lasciare la casa del marito. Riesce a mandare a scuola le figlie.
Questo è un grande successo. Sara, la maggiore, è molto brava e decisa a costruirsi una vita migliore. Così le abbiamo trovato uno sponsor, Enrico, che la sostiene nel suo percorso scolastico e le permette di integrare la scarsa qualità dell’istruzione con altri corsi. Benhaz è molto fiera di lei e della sorella, il loro entusiasmo per lo studio e per la vita l’aiuta a combattere i suoi problemi psicologici e a credere nel futuro.

Aggiornamento gennaio 2023

Benhaz

Benhaz manda tutto il suo amore al suo sponsor. Dice che il suo sponsor è la sua migliore amica, un’amica che è nella sua vita e che le sta accanto in ogni momento difficile. È orgogliosa della amica e spera che rimanga con lei. Ecco cosa dice:

“Mia figlia (v. Sara) è molto impegnata a studiare anche se non abbiamo nessuna speranza che le scuole possano riaprire nel prossimo futuro. Recentemente avevo deciso di mandarla a un corso di parrucchiera per poter lavorare in un salone, un mestiere che aveva delle possibilità per le ragazze, ma, sfortunatamente anche i parrucchieri sono spariti sotto le grinfie dei talebani. Prego cinque volte al giorno per il collasso del regime dei talebani. Spero che possa arrivare un buon regime che riapra al più presto le scuole per le ragazze.”

Chiede di accompagnare ancora la sua vita perché ha molto bisogno di aiuto.

Sara

Sara ringrazia tanto chi la sta sostenendo da lontano e gli manda tutto il suo affetto, non dimentica mai di pregare perché la sua vita sia felice. Dice Sara: “I talebani non potranno mai sbarrare completamente le porte all’educazione delle donne. Quando loro chiudono una porta, noi troviamo una nuova strada e continuiamo a studiare e imparare nuove cose per renderci sempre più forti e capaci e per resistere, con fermezza e con le nostre armi, all’oscurità. Oltre allo studio per potenziare le mie capacità seguo un corso di sartoria e uno di inglese. So bene che stiamo vivendo una situazione terribile e insopportabile per ogni donna ma noi facciamo del nostro meglio per andare avanti e non farci schiacciare.” Chiede di non dimenticarla e di continuate ad aiutarla come ha sempre fatto, perché per lei è indispensabile.

Aggiornamento gennaio 2024

Behnaz dice: “Io, come migliaia di altre madri afgane, assisto alla morte dei sogni delle mie figlie. Non hanno futuro, e temo che se ne stiano con le mani in mano a casa. Le mando a imparare la sartoria da uno dei nostri vicini, ma ogni giorno si scoraggiano di più. Una delle mie figlie, che aveva una grande passione per diventare avvocato, ora soffre di ansia ed emicrania a causa dell’angoscia. Anche io e la mia famiglia siamo angosciati, ma purtroppo non possiamo fare molto. Qualche tempo fa, l’ho portata in una clinica che forniva consulenza e servizi psicologici gratuiti. Tuttavia, quando ci siamo recati lì, i talebani l’avevano chiusa. I medici e i farmaci sono molto costosi e mi rattrista il fatto di non poter sempre portare mia figlia dal medico. I medici mi consigliano di cercare di renderla felice, ma la povertà e l’angoscia per aver dovuto abbandonare gli studi ci impediscono di essere felici. Questa volta, con l’aiuto della mia gentile sponsor, sono riuscita a procurarmi dei vestiti e delle medicine, e sono infinitamente grata alla mia generosa sponsor per aver aiutato me e i miei figli”.

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Una storia del progetto Vite preziose.

La fotografia è di solo carattere grafico e non rappresenta la donna protagonista della storia. Data la attuale situazione in Afghanistan, per evitare l’identificazione delle donne i nomi sono stati modificati, così come i luoghi dove si svolgono i fatti.

 

 

 

Somaya

Somaya Saifullah, 15 anni, ha un fratello e quattro sorelle. Attualmente sta studiando in una delle classi segrete di HAWCA, dice: “Prima dell’arrivo dei talebani, avevamo una vita relativamente tranquilla e modesta. Lottavamo contro la scarsità di cibo, ma ogni mattina andavo volentieri a scuola e studiavo con grande entusiasmo, sognando di diventare un giorno medico e di esaudire i desideri dei miei genitori. I miei genitori hanno fatto infiniti sacrifici per me e per gli altri loro figli, tessendo sogni separati per ognuno di noi”. E continua: “Mio padre lavorava come cuoco prima dell’arrivo di questi spietati talebani, e mia madre era instancabilmente impegnata nelle faccende domestiche delle case dei vicini per guadagnare qualcosa. Tuttavia, con l’arrivo di questi miliziani, la nostra vita pacifica è andata in frantumi. Mio padre ha perso il lavoro, e in seguito la donna per cui lavorava mia madre è rimasta disoccupata e ha dovuto licenziarla. Essendo la più grande tra le mie sorelle, sono stata e continuo ad essere testimone delle difficoltà e dei problemi vissuti dai miei genitori in ogni momento. Mio padre cerca lavoro ogni giorno, diventando sempre più disperato ogni giorno che passa. Dopo un po’, il padrone di casa è venuto e ha chiesto l’affitto, affermando che se non fosse stato pagato, avremmo dovuto lasciare la casa entro la fine della settimana. Questo è stato un altro duro colpo per i miei genitori. Hanno fatto sforzi infiniti, ma purtroppo non sono riusciti a trovare lavoro. Alla fine mia madre è andata dal suo vecchio datore di lavoro e ha chiesto un prestito. Il datore di lavoro le ha proposto di vivere gratuitamente nella loro vecchia casa e in cambio mia madre avrebbe lavorato per loro senza essere pagata. È stata la notizia più bella per mia madre e mio padre. Ci siamo trasferiti nella nostra nuova casa il prima possibile. Tuttavia, queste circostanze hanno influito molto sul benessere di mio padre, che si è ammalato gravemente. Ha bisogno di vedere un medico e ricevere cure. Spero di poter trovare un modo per guarire il mio caro padre”.

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Una storia del progetto Vite preziose.

La fotografia è di solo carattere grafico e non rappresenta la donna protagonista della storia. Data la attuale situazione in Afghanistan, per evitare l’identificazione delle donne i nomi sono stati modificati, così come i luoghi dove si svolgono i fatti.

 

Nazbo, Kapisa

Nazbo nasce in un villaggio rurale, Najrab, nella provincia di Kapisa. Ha 15 anni quando la sua famiglia la vende in matrimonio, contro la sua volontà, a un mullah di 45, con due mogli e svariati figli. È la più giovane e le toccano sempre i lavori più pesanti. Le botte arrivano, tutti i giorni, per qualsiasi sciocchezza. Non solo il marito ma anche le due mogli più vecchie fanno a gara per picchiarla e insultarla.
Passa 20 anni così, fronteggiando e sopportando violenze di ogni tipo. Ha 5 figli, dei quali il padre non si occupa mai.
4 di loro muoiono in tenera età per la malnutrizione e la mancanza di cure. Racconta Nazbo: ”I miei bambini erano piccoli e io non avevo tempo per prendermi cura adeguatamente di loro, dovevo sempre lavorare sotto la minaccia delle botte. Dovevo lavare, cucinare, pulire, fare il bucato per tutti e nessuno si prendeva cura dei miei piccoli”.

Per loro, non c’era mai abbastanza cibo.” Una sola figlia sopravvive alla famiglia, ma, a 13 anni, il padre la sposa a un uomo di 40 anni. Lo stesso destino di sua madre, la storia infinita. Rimane subito incinta, ma è troppo giovane per avere una gravidanza normale.
L’assistenza medica non esiste. Muore durante il parto, insieme al suo bambino. La vita di Nazbo precipita. Il marito e le mogli la insultano, la picchiano, la umiliano, le dicono che porta male, che è lei la responsabile delle sue sventure. In quel periodo ha seri problemi mentali, i cui effetti continuano ancora oggi. Dopo qualche anno, il marito si ammala e muore. Le mogli più anziane la sbattono fuori di casa.

Trova rifugio da alcuni parenti che la accolgono e la portano in ospedale. Le cure le fanno bene e, quando sta un po’ meglio, decide di adottare un bambino.
Restano a vivere con queste persone per parecchio tempo. Per fortuna, la sua strada, un giorno, incrocia quella di Hawca e comincia a lavorare per loro, nel Centro di Peace Building, come cuoca. Trova una stanza vicino al Centro e comincia una nuova vita con suo figlio. Purtroppo, al Centro, tutto lo staff è minacciato dai talebani.

La situazione si fa sempre più pericolosa e Hawca è costretta a cambiare zona e a trasferire il Centro in un’altra parte della città, lontano dall’abitazione di Nazbo. Spostarsi, per grandi distanze, nella città è difficile e rischioso, Nazbo deve lasciare il lavoro.
Gli anni passati a lavorare con Hawca, dove ha trovato l’affetto che non aveva mai conosciuto, sono stati i migliori della sua vita ma, adesso, è di nuovo senza lavoro. Ogni giorno è una scommessa. Di nuovo, la sua vita è difficile e le tracce del suo passato riemergono rendendola fragile.

Aggiornamenti

Entra nel progetto un anno fa. Ora non è più sola, ha accanto a sé il sostegno di Maurizio. Potrà curarsi e cercare, senza ansia, insieme ad Hawca, il lavoro di cui ha bisogno. Nazbo è stata incredibilmente felice quando ha saputo di avere uno sponsor e del denaro per vivere, lo ringrazia con tutto il cuore.

Non sapeva dove andare a vivere e Hawca le ha trovato una stanza nella casa di un insegnante della scuola di Peace Building che hanno dovuto chiudere a causa delle minacce talebane. Potrà stare lì fino a quando non avrà trovato un lavoro per pagarsi una stanza autonoma.
Sta cercando un lavoro come domestica, magari anche tra i vicini di casa. Ma il quartiere dove vive è abitato da gente molto povera che non può permettersi una domestica.
Per questo è difficile, per lei, trovare lavoro.

Dice Nazbo al suo sponsor:’ Sono molto felice, non avrei mai pensato che ci potessero essere persone, in giro per il mondo, così amorevoli come te, che si occupano degli altri e si aiutano l’un l’altro. Il tuo aiuto sta cambiando la mia vita. Grazie a te sono viva, potrò vivere e stare ancora per molto tempo con il mio bambino.’

Aggiornamento gennaio 2023

Nazboo è una donna in grave difficoltà. Ringrazia tanto il suo sponsor e spera nel suo aiuto per la sua sopravvivenza. “Al telefono la sua voce , dice Shafiqa, era fievole e oppressa. Non ha mezzi di sussistenza e il denaro del progetto serve per le medicine e le cure che deve fare. Ha problemi per procurarsi la legna e, senza aiuto, non sa come superare l’inverno.” Dice: “I miei vicini conoscono la mia situazione, e, ogni tanto, quando possono, dividono il loro cibo con noi. La loro solidarietà e la vostra è tutto quello che abbiamo.”

È importante continuare a sostenere questa donna, di cui, comunque, Hawca si sta prendendo cura.

Aggiornamento gennaio 2024

Nazbo dice: “Che cosa posso dire della mia vita dolorosamente difficile? Ogni giorno affronto pressioni strane e insolite, e a volte mi chiedo quando è stata l’ultima volta che ho riso veramente. La vita in Afghanistan era dura, ma lo è diventata ancora di più con l’arrivo dei talebani. Non vediamo alcuna speranza per condizioni migliori. Tutti fuggono e nessuno è soddisfatto di questa situazione. I sogni e le aspirazioni delle ragazze e delle donne sono stati sepolti. Nonostante l’estrema povertà, speravo che mio figlio potesse ricevere un’istruzione in modo da non soffrire come me. Ma ora ho perso la speranza per il suo futuro e temo che subirà lo stesso mio destino e le mie stesse miserie. Uno dei nostri parenti, vedendo le mie condizioni di vita, si è dispiaciuto per me e si è offerto di presentarmi al loro datore di lavoro nella speranza che potessi trovare lavoro. Fortunatamente, ha accettato e ora lavoro in un laboratorio di cucito. Anche se il reddito è molto scarso e i miei occhi sono diventati estremamente deboli, sono ancora contenta. Rimango sveglia fino a tarda notte per lavorare un po’ di più. Sono felice del mio lavoro. Questa volta, con l’aiuto del mio gentile sponsor e del mio magro stipendio, sono stata in grado di provvedere ad alcune cose essenziali per la casa e al cibo per mio figlio. Esprimo la mia più sentita gratitudine al mio gentile e solidale sponsor che è al mio fianco e ci aiuta in questa situazione. Auguro loro tutto il meglio”.

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Una storia del progetto Vite preziose.

La fotografia è di solo carattere grafico e non rappresenta la donna protagonista della storia. Data la attuale situazione in Afghanistan, per evitare l’identificazione delle donne i nomi sono stati modificati, così come i luoghi dove si svolgono i fatti.

Nahida

Nahida ha due sorelle più piccole e un fratello di 8 anni.
Siamo una famiglia povera ma fino a un anno fa ce la facevamo a vivere decentemente. Poi c’è stato quell’attacco suicida, uno dei tanti.
Ma quel giorno c’era anche mio marito. Ha perso i piedi e le mani e non può più lavorare. Sono io a mantenere la famiglia, faccio il bucato per i vicini.
Ma Nahida è la mia preoccupazione più grande.
Ha un‘infezione alle orecchie che ha attaccato anche l’osso. Quando mio marito stava bene, ha cercato di curarla. Il medico ha detto che deve essere operata al più presto altrimenti sarà sorda per sempre e avrà problemi anche con la gola. Ma i soldi adesso non ci sono per curarla. L’unico modo per trovarli è andare a mendicare.
A volte, i problemi che ho sulle spalle mi sembrano troppi e mi manca il coraggio.

Aggiornamenti

Nahida ha sei anni quando entra nel progetto. Albalisa, che è considerata dalla famiglia una seconda mamma, si prende cura di lei fin dall’inizio e le è sempre vicina per tutti questi anni.
La bimba soffre molto d’inverno, gli inverni qui sono durissimi, gelidi e riscaldarsi costa molto. Deve anche mangiare bene per sostenersi.
Pian piano migliora le sue condizioni, si cura e riprende la scuola con molto successo. È brava anche se deve fare parecchie assenze.
Il suo problema non è di facile soluzione e va spesso in Pakistan per le cure. Ora Hawca le ha trovato un apparecchio per sentire meglio e la sua vita è molto migliorata.

Aggiornamento gennaio 2023

Nahida è sempre tanto grata alla sua sponsor per tutto l’aiuto che le hanno dato in questi anni. È sempre una ragazza forte e non smette mai di andare avanti e di imparare nuove competenze e abilità. “Nonostante i miei problemi fisici, adesso, tengo dei corsi di Dari e matematica per i bambini dei miei vicini. Naturalmente la maggior parte dei miei allievi sono ragazze e io sono felice di passare del tempo insieme a loro. Con quello che guadagno dai miei allievi mi pago i corsi di Inglese e Scienze (che organizza Hawca)” È sempre sotto trattamento regolare per i suoi problemi alle orecchie.

Manda tutto il suo amore alla sua sponsor che le sta accanto da tanto tempo e anche adesso, in questi tempi così difficili.

Aggiornamento gennaio 2024

Nahida dice di aver perso la speranza. I talebani hanno chiuso il corso che teneva per i bambini del vicinato a casa sua e hanno minacciato la prigione per chi si azzarderà a farlo. Hanno persino annunciato nella moschea che, a meno che non sia una scuola religiosa, chiunque inizi un corso privato sarà arrestato insieme a tutti gli uomini del villaggio. Di conseguenza, Nahida è stata costretta a chiudere il suo corso, ed è molto a terra. A volte le sue studentesse la contattano, piangendo e dicendo che le loro speranze si basavano su questo corso. Due sue studentesse, di circa quindici e sedici anni, si sono sposate. Quando parlano con Nahida, dicono: “Maestra, i nostri sogni sono stati sepolti per sempre”. Da un lato, Nahida ha perso tutte le sue entrate e, dall’altro, si sente immensamente dispiaciuta e preoccupata per i suoi studenti. Tutte queste preoccupazioni e stress l’hanno resa profondamente depressa e senza speranza. È rattristata dal fatto che il mondo non ascolti le voci delle donne afghane e che siano costrette a rinunciare ai loro diritti umani. Si sente angosciata e triste, ma è grata che ci siano ancora sponsor gentili come l’amica che sostiene lei e altre donne afghane. Con l’aiuto della sua amorevole sponsor, è riuscita a visitare un medico e a pagare parte dell’affitto della sua casa. Esprime profonda gratitudine per il suo aiuto e spera che verrà un giorno in cui potrà stare in piedi da sola e coprire le sue spese.

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Una storia del progetto Vite preziose.

La fotografia è di solo carattere grafico e non rappresenta la donna protagonista della storia. Data la attuale situazione in Afghanistan, per evitare l’identificazione delle donne i nomi sono stati modificati, così come i luoghi dove si svolgono i fatti.

Freshta Khatera

Ero ancora una bambina quando mi sono resa conto di essere una pedina nel gioco d’azzardo di mio padre. Quando ero ancora nel ventre di mia madre, mi aveva promessa in sposa al figlio di un uomo che gli aveva vinto al gioco molto denaro.
A dieci anni sono stata fidanzata e a 13 anni ero sposata.
Giocavo con le bambine della mia età, quando mi è stato detto che sarei diventata la sposa di un uomo. La nostra situazione finanziaria non era buona da quando mio padre aveva perso al gioco tutto quello che il nonno gli aveva lasciato in eredità.
Non avevo ancora raggiunto la pubertà quando mi sono sposata, è successo dopo tre anni che vivevo con lui. Io non sapevo niente del sesso e delle relazioni tra marito e moglie. Mio marito non ha avuto nessun rispetto per me e per la mia età.
Adesso ho capito che venivo regolarmente violentata, tutto era terribile per me, piangevo per giorni ma non potevo dirlo a nessuno. Credevo che tutte le ragazze avessero queste difficoltà nel matrimonio. Ogni tanto pensavo alla crudeltà dei miei genitori e alla fine arrivavo sempre alla conclusione che tutti i genitori erano così, come i miei e in questo modo riuscivo a calmarmi.
La mia vita era molto brutta ma crescendo è diventata anche peggiore. Per fortuna non sono diventata madre a quell’età! Pensavo, tra me, che se fossi rimasta incinta, non sarei sopravvissuta al parto o, anche se fossi sopravvissuta, avrei avuto molte difficoltà a prendermi cura del bambino e di tutti gli altri lavori. Ho dovuto sopportare ogni tipo di violenza durante il mio matrimonio. Per queste condizioni di vita disumane, ho perso tre figli.
Mio marito era un maniaco sessuale e se rifiutavo le sue avances mi legava mani e piedi e faceva quello che voleva. Ho passato 12 anni con lui senza che ci fosse il minimo cambiamento nel suo comportamento , anzi, diventava ogni giorno più selvaggio. Adesso ho 5 figli, l’ultimo è nato dopo il divorzio. Sono malata e non ho mai potuto vedere un dottore.
Ho avuto il mio divorzio dopo un lungo e difficile lavoro, sono stata capace di liberare me stessa dalla violenza e dall’umiliazione. I miei bambini sono tutto per me. Adesso il mio desiderio più grande è quello di vedere i miei figli istruiti e crescerli perché siano di mente aperta e rispettosi verso le donne. Mio marito ancora mi minaccia, vuole portarmi via i miei figli. Io so bene che se i miei ragazzi andassero a vivere con lui diventerebbero delle bestie come lui, sarebbero ignoranti e crudeli come il loro padre.
Ho lavorato per tre mesi nell’ufficio di Hawca e mi hanno incoraggiato a studiare. Ho chiesto aiuto a una mia vicina di casa e adesso lei insegna a leggere e scrivere a me e ai miei figli. Purtroppo l’ufficio di Hawca in Mazar-e- Sharif è stato chiuso e io ho perso il lavoro. Cucinavo e facevo le pulizie per loro e sto cercando di trovare un altro lavoro. Per ora non l’ho trovato e ho davvero bisogno urgente di sostegno per poter continuare la mia strada e superare questi ostacoli.

Aggiornamenti

Freshta, che è entrata nel progetto qualche mese fa, ha ora il sostegno di Antonella, Mimmo e Marco. Accanto a loro affronterà le sue grandi sfide con un po’ di pace nel cuore.

Aggiornamento gennaio 2023

Khatera è molto felice di avere accanto i suoi sponsor. Ci dice: “Sono grata dal profondo del cuore ai miei sponsor. Sono persone davvero gentili. Per favore, continuate a tenere stretta la mia mano e quella dei miei bambini in questa orribile situazione.” Freshta era molto brava a ricamare, i bellissimi ricami afghani, ma questo oggi non basta affatto a sopravvivere. Nessuno ha soldi per comprare stoffe e vestiti. Così ha cominciato a cuocere dolci. Ci racconta: “Ho imparato a fare dei dolci molto speciali tra i ‘Mazari sweets’. Quando le persone fanno delle feste, come un compleanno oppure un matrimonio, io vado a casa loro e gli cucino i miei dolci. Ovviamente vado nelle case degli amici e di persone che mi sono presentate da loro, è questa la mia clientela. Ma anche se lavoro una o due volte al mese, è per me una buona opportunità andare nelle case a cucinare dolci e ne sono felice, perché penso che, così, potrò farmi pubblicità e espandere il mio lavoro in futuro. Quello che per me è importante è che le persone apprezzino i miei dolci fatti a mano e che io possa continuare a fare questo lavoro anche nei prossimi anni. Anche se guadagno poco, posso contribuire alle spese per i miei figli. Spero, con l’aiuto dei miei sponsor, di potere un giorno far rendere bene il mio lavoro e creare un futuro pieno di luce per i miei bambini. Abbraccio forte i miei sponsor.”

Aggiornamento gennaio 2024

“Sono diventata infinitamente felice quando ho visto Freshta – ci racconta S. la direttrice di Hawca –  Quando l’ho vista, sono rimasta insieme stupita e felicissima. Ho visto in Freshta una donna molto energica e allegra. Freshta era estremamente soddisfatta del suo lavoro e ha detto che la sua attività dolciaria era fiorente. Ora ha un contratto con una delle famose panetterie di Kabul e il suo datore di lavoro è una persona nobile e infinitamente cortese”.

“Dico sempre a me stessa- racconta Freshta- che sono stata benedetta due volte nella mia vita. Una è stata la presenza del mio caro sponsor, che ha trasformato la mia vita attraverso la sua assistenza e il suo sostegno. Sono sempre grata al mio caro sponsor e gli devo un mondo di gratitudine. E ora, anche il mio datore di lavoro si è mostrato una persona gentile e non smette di incoraggiarmi, permettendomi di stare in piedi da sola e di affrontare le spese della mia vita. Ancora una volta, esprimo la mia gratitudine per gli sforzi del mio amato sponsor e spero che invece di me, un’altra donna afgana riceva sostegno e porti un cambiamento nella sua vita come è successo per me. Io, finalmente, me la cavo da sola”.

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Una storia del progetto Vite preziose.

La fotografia è di solo carattere grafico e non rappresenta la donna protagonista della storia. Data la attuale situazione in Afghanistan, per evitare l’identificazione delle donne i nomi sono stati modificati, così come i luoghi dove si svolgono i fatti.

 

 

 

 

Un rifugio che diventa inferno: così il Pakistan deporta i rifugiati afghani

Se ne devono andare: un milione e 700mila persone, immigrati senza documenti in regola, quasi tutti afghani. L’annuncio è stato fatto il 7 ottobre dal governo pakistano, “per salvaguardare il benessere e la sicurezza del Paese”. In una prima fase potranno allontanarsi in forma “volontaria”, poi saranno deportati. In molti, più di trecentomila, hanno lasciato tutto e sono già partiti per paura di essere arrestati.

La vera caccia agli afghani si è aperta però il primo novembre 2023 e le carceri hanno iniziato a riempirsi. La polizia blocca le strade strette e affollate delle città pakistane, per impedire la fuga. Entra nelle case e chi non ha i documenti in regola viene caricato su furgoni e camion. Ma, a quanto ci dicono, succede anche a chi è regolare. A volte gli agenti entrano nell’abitazione di notte oppure giungono sul posto di lavoro. Succede, anche, che la casa e il negozio vengano distrutti. C’è poco tempo, devi sbrigarti, lasciare quasi tutto: puoi portare con te solo 150 dollari. “Mentre camminavo per strada a Lahore ho visto coi miei occhi famiglie picchiate dalla polizia per farle salire sul camion -racconta Javed, giovane attivista rifugiato-. Inutili le loro urla: si rifiutavano e sventolavano i documenti ma gli agenti rispondevano col manganello. Qualcuno, che il visto non ce l’ha, offre denaro: si apparta col poliziotto e poi risale in casa con tutta la famiglia. Se paghi ti lasciano in pace e ti congedano con rispetto”.

I video inondano il web. Si vedono afghani spinti a forza sui mezzi, schiacciati come in una valigia troppo piena, qualcuno cade e viene spinto di nuovo su, come un oggetto ingombrante. Si dirigono verso le porte del ritorno in Afghanistan: il valico di Torkham, Nord-Ovest del Paese, e quello di Chaman, a Sud-Ovest. Si caricano pezzi di vita sulle spalle, nei fagotti: qui in Pakistan non c’è più posto per loro. Nemmeno per chi è arrivato quarant’anni fa fuggendo dalla guerra dei russi: i “fratelli afghani” che vivono una vita a tutti gli effetti pakistana, i cui figli parlano solo urdu.

Per i 600mila arrivati negli ultimi due anni in fuga dai Talebani che danno loro la caccia è il crollo della speranza. “Molte famiglie sono venute qui -dice Rahima, cooperante per i diritti delle donne, fuggita in Pakistan- per salvarsi dalla mannaia talebana o per far studiare i figli, soprattutto le femmine, e dar loro la speranza di una vita che è morta da tempo in Afghanistan. Oppure per avere cure e medicine, impossibili nel nostro Paese. Devono lasciare subito le case in affitto ma è difficile trovare una guest house che ti accetti se non hai i documenti, anche perché i pakistani che ci aiutano sono passibili di arresto. Il governo ci ha voltato le spalle e sta distruggendo i nostri sogni. Tutti dovremo tornare a matmesra (parola in lingua dari che possiamo tradurre con ‘luogo buio dove non c’è speranza’, ndr)”.

Intanto nella spianata brulla di fronte al valico di Torkham si ammassano i camion, enormi, colorati, dipinti come quadri naif e stracolmi degli oggetti che accompagnano la vita di migliaia di persone. File interminabili di afghani nella piana desertica, contenute dal filo spinato. Aspettano, spingendo i loro averi in una carriola o se li portano sulle spalle, insieme ai bambini. A volte la pressione della folla, incalzata dalla polizia, si fa insostenibile ed è difficile proteggere anziani e bambini perché non siano calpestati. Beena ci racconta di aver perso la sua bambina, trascinata dalla folla, ma per fortuna l’ha ritrovata il giorno dopo, spaventata ma viva.

Hussein prende in braccio suo figlio sollevandolo da un tappeto polveroso su cui è appoggiato insieme ai pochi averi, ben impacchettati, della famiglia. È accampato davanti all’ufficio della Society for human rights and prisoners aid (Sharp), una Ong che fa la “selezione” per rilasciare il documento dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) che dovrebbe permettere agli afghani di restare. Ma la polizia spesso non lo tiene in considerazione.

Hussein ha paura: scuote la testa, racconta che era un soldato dell’Ana, l’esercito afghano, e i Talebani vogliono ucciderlo. Ha viaggiato per giorni da Karachi, città sulla costa orientale, fino a Islamabad ma i soldi sono finiti e adesso vive per terra, in questo campo desolato di spazzatura e zanzare. Spera di avere quel documento, per continuare la strada verso una vita possibile. Si guarda intorno, come per cercarla.

“Facciamo pressione sul governo pakistano- dice Philippa Candler, dell’Unhcr a Islamabad- perché fermi le deportazioni delle persone per le quali è proibito il respingimento dalle leggi internazionali. Per chi rischia la vita in caso di rientro: soprattutto le donne, le persone che hanno documenti, che sono registrati con noi o con il governo, che aspettano di essere ricollocati verso altri Paesi. Serve formare un Comitato di valutazione dei casi e lavorare insieme con le autorità locali”.

Intanto il fiume umano attraversa il confine, migliaia al giorno, verso il nulla. Cosa li aspetta al di là? Un Paese allo stremo, devastato dalla siccità e dai terremoti, in cui due terzi della popolazione hanno bisogno “urgente” di assistenza per poter sopravvivere ma il governo non ha né volontà, né capacità, né mezzi per intervenire. Dove non ci sono istruzione e lavoro per le donne. Non c’è vita. Che cosa ne farà il governo di Kabul, alle porte dell’inverno, di migliaia di compatrioti rifugiati che non hanno niente, e non sanno dove andare?

“Passato il confine i Talebani accolgono tutti gentilmente -continua Rahima- un bentornato ufficiale pieno di promesse. Ma sappiamo che non sono in grado di gestire questa situazione. È stato allestito solo un campo profughi a pochi chilometri dal confine. Tende, ma senza servizi igienici. Un problema enorme soprattutto per donne e bambini. Le Ong prevedono un disastro umanitario di proporzioni enormi”. Queste montagne hanno sostenuto i passi di migliaia di afghani nel corso di quarant’anni di guerra e di violenza, portando non pochi vantaggi al governo pakistano.

Ero a Peshawar nel 1980 e un fiume di persone attraversava la frontiera, da mesi, in fuga dalla guerra dei russi. La città era il regno dei partiti fondamentalisti afghani che registravano, con improbabili tessere, ogni compatriota arrivato. Se li contendevano ferocemente per ingrossare le fila dei sostenitori e imporsi sui propri rivali. Era sufficiente per stare in Pakistan: in quegli anni i rifugiati erano un buon affare per il governo. Per sostenere i mujaheddin afghani in funzione anti-russa, arrivavano fiumi di denaro, armi e sostegno politico. Soprattutto dalla Cia ma anche da altre agenzie di intelligence. Tutto passava per le mani del governo pakistano e dell’Inter-services intelligence.

“Quando sono arrivati gli americani -dice Noor Ahmed, anche lui rifugiato e oggi avvocato per i diritti umani- il Pakistan si è trovato a giocare due ruoli distinti. Da un lato era l’alleato chiave degli Stati Uniti e riceveva dalla Nato fondi per il supporto logistico delle truppe, dall’altro intascava il sostegno per l’accoglienza dei profughi, infine controllava sul suo territorio i gruppi Talebani. Oggi i rifugiati afghani non portano più vantaggi. Non servono a niente”.

Sul perché di questa immane deportazione Aisha, insegnante anche lei rifugiata, individua tre ragioni. “Il Pakistan ha ormai una posizione sbiadita nel gioco politico internazionale -spiega-. Per quarant’anni gli immigrati sono stati una risorsa: oggi non è più così e questa potrebbe essere una mossa per fare pressione sulla comunità internazionale e riacquistare importanza politica e denaro attraverso i rifugiati, d’altronde non sono i soli a farlo”. Ma per Aisha non è l’unico motivo: “La situazione economica pakistana è disastrosa e ci sono disordini e proteste. Presentare gli afghani come capro espiatorio e cacciarli dal Paese diventa una mossa diversiva per il consenso interno. Infine, i rapporti con Kabul stanno peggiorando: Islamabad fa pressione sui governanti afghani perché agiscano sui Talebani pakistani del Ttp (Tehreek-e-Taliban Pakistan), che operano al confine tra i due Paesi, e li spingano a negoziare con il governo. Accusano Kabul di essere dietro ai numerosi recenti attentati”. Intanto Hussein ha trovato degli amici. Ha una vera stanza, adesso. Il piccolo dorme finalmente su un materasso senza il tormento delle zanzare. Sorride, almeno per stanotte.

Pubblicato su Altreconomia 265 — Dicembre 2023