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Autore: Patrizia Fabbri

Campagna sociale multisoggetto a favore dei diritti delle donne

L’Italia ha un problema con le donne e con l’evoluzione del loro ruolo nella società. Lo dimostrano la violenza domestica in crescita, le discriminazioni sul posto di lavoro, i modelli maschili tossici proposti dai mass media, gli stereotipi di alcuna pubblicità che continua a proporre donne come oggetto sessuale e nel tradizionale ruolo di cura della casa, del marito, dei figli e che sembra non considerare la presenza femminile nel mercato del lavoro. E se negli altri paesi europei la parità di genere viene incoraggiata perché valutata come fattore di crescita nazionale, in Italia le donne continuano ad essere considerate “elemento comprimario”.

Sui manifesti, in tv e nel web compaiono campagne che si firmano “dalla parte delle donne” ma che contrastano i nostri diritti e trasmettono informazioni scorrette, attaccando in modo pesantissimo la nostra autodeterminazione.

Il clima culturale che sta emergendo nel nostro Paese porta avanti un discorso di “dissuasione”. Ad esempio, sulla libera scelta della maternità: nell’ambito del de-finanziamento del sistema sanitario pubblico, l’ostruzionismo, discreto ma efficace al diritto all’interruzione volontaria di gravidanza, usa fondi pubblici per “convincere” le donne a non abortire. La retorica sulla natalità, anziché combattere la carenza di servizi sociali, colpevolizza le donne che ricorrono all’IVG – definita “cultura dello scarto” e “cultura della morte”. E, a fronte del via libera dell’AIFA alla gratuità della pillola anticoncezionale, c’è chi esprime perplessità sulla copertura finanziaria del provvedimento.

La campagna LEI E’ nasce dall’affermazione dell’autodeterminazione delle donne e sottolinea la forza di ogni donna, in base alle leggi e i decreti che ne determinano i diritti, assumendo anche un valore educativo. È una campagna informativa che intende correggere le falsità, perché le donne devono conoscere e rivendicare i loro diritti.

Il nostro messaggio vuole offrire una corretta informazione sul contrasto alla violenza di genere, sulle molestie verbali e fisiche, sulla libera scelta di una maternità consapevole, sulla tutela dell’equa rappresentanza nei posti di potere, sul gap salariale, sull’importanza della lotta agli stereotipi e alle discriminazioni di genere, sul valore dell’educazione al consenso.

L’obiettivo è far conoscere leggi e diritti faticosamente conquistati negli anni e difenderli perché valgano anche domani.

Dal diritto di scegliere se portare avanti una gravidanza, garantito dalla legge 194, alla parità salariale sancita dalla Costituzione; dalla denuncia della violenza maschile, riconosciuta come violazione dei diritti umani dalla Convenzione di Istanbul, alla tutela di chi trova il coraggio di denunciare, prevista dal Codice Rosso.

Una campagna che mira anche a scardinare luoghi comuni e stereotipi sul ruolo delle donne, nel mondo del lavoro come in politica e nelle relazioni intime, che limitano la loro libertà e alimentano la violenza di genere che ha profonde radici culturali.

La campagna sociale multisoggetto LEI E’ a favore dei diritti delle donne si sviluppa in 12 soggetti diversi (scarica il pdf), ma con al centro la libertà di scelta e l’autodeterminazione delle donne.

Proposta dall’associazione Lofficina e co-firmata da Senonoraquando?Torino, Break the Silence Italia, Torino Città per le Donne, è stata realizzata pro bono dalla Agenzia di pubblicità Hub09.

È solo grazie al patrocinio della Fondazione Pubblicità Progresso – che consente di accedere agli spazi gratuiti dei media nazionali qualora i Concessionari acconsentano ad ospitarla – che la nostra campagna potrà essere diffusa sulle principali testate TV, affissione e stampa nazionali (in allegato le prime uscite sui stampa e affissione).

In allegato, la lettera di assegnazione del Patrocinio.

Condividiamo pianamente il loro obiettivo di: “contribuire alla soluzione di problemi morali, civili ed educativi della comunità, ponendo la comunicazione di massa al servizio della collettività e perseguendo l’intento di dimostrare l’utilità di un intervento pubblicitario professionale per stimolare la coscienza civile ad agire per il bene comune.”

Poiché gli spazi social sono a pagamento, stiamo raccogliendo donazioni volontarie da parte delle associazioni e degli enti del settore delle pari opportunità per  la pianificazione sul web, che garantisca anche un’adeguata diffusione online della campagna LEI E’.

Alla conferenza stampa di presentazione presso la Sala Caduti di Nassirya del Senato sono intervenute le responsabili delle 4 associazioni promotrici: Elena Rosa de Lofficina, Laura Onofri per Senonoraquando?Torino, Maria Chiara Cataldo per Break The Silence Italia, Antonella Parigi di Torino Città per le Donne. Per la Fondazione Pubblicità Progresso Serena Fasano, per l’Agenzia di pubblicità Hub09 Angela Sannicandro.

La senatrice Anna Rossomando che ha sostenuto l’incontro ha aperto i lavori.

Zohra Orchestra – Keeping The Music Alive

Questo video è un estratto, sottotitolato in italiano da CISDA, del film originale pubblicato da CNA INSIDER! nell’ottobre 2022, con i sottotitoli in inglese. La Zohra Orchestra, il primo e unico ensemble musicale tutto femminile dell’Afghanistan, ha avuto una storia di successo globale. Erano un simbolo di libertà. Quando i talebani hanno ripreso il controllo nell’agosto 2021, la vita di queste ragazze è stata sconvolta e questa prima parte del film racconta come è nata l’orchestra, quello che facevano prima del ritorno dei talebani e cosa è successo alla loro ripresa del potere. Per vedere il film originale integrale clicca qui

Mentre la seconda parte, originale e sottotitolata in inglese, è disponibile qui 

Il 2023 in Afghanistan tra diritti violati, disastro umanitario e resistenza. Il bilancio di CISDA

Terremoti, siccità, fame, violazione dei diritti, oblio, ma anche resistenza: questo è stato il 2023 per le afghane e gli afghani sotto il regime talebano.

Con una popolazione stimata di circa 43 milioni, gli afghani che avrebbero avuto bisogno di assistenza umanitaria nel 2023 sono stati circa 23,7 milioni, di cui il 25% rappresentato da donne e il 52% da bambini (Rapporto OCHA, dicembre 2023). Ma gli aiuti di ONG e organizzazioni internazionali hanno potuto raggiungere solo una minima parte della popolazione perché intercettati dai Talebani per sostenere il loro apparato statale.

La condizione di estrema povertà del paese impatta su una situazione sanitaria già molto fragile con l’aumento, fino a rasentare vere e proprie epidemie, dei casi di tubercolosi, morbillo, colera e poliomielite. A causa delle restrizioni e dei diritti violati, sono in aumento i casi di depressione grave e di suicidio, soprattutto tra le ragazze adolescenti. A tutto ciò si aggiunge il fatto che oltre 40 anni di conflitto hanno lasciato un paese tra i più contaminati al mondo da mine e ordigni inesplosi che provocano quotidianamente morti e feriti. Una situazione aggravata dalle norme medievali e misogine che impediscono o limitano fortemente alle donne di lavorare anche nel settore sanitario e vietano loro le cure erogate da dottori maschi.

Prosegue l’attacco ai diritti civili, in particolare quelli delle donne e nell’aprile 2023 i Talebani hanno aggiunto un altro tassello al mosaico delle nefandezze compiute contro le donne vietando alle afghane, alle quali è già precluso l’accesso all’istruzione e alla maggior parte delle attività, di lavorare per le Nazioni Unite e i relativi fondi, programmi e agenzie.

Un altro fronte sul quale i Talebani stanno mostrando tutti i loro limiti è la tanto decantata sicurezza: il 2023 è stato inaugurato da un attentato all’aeroporto di Kabul al quale ne sono seguiti numerosi altri firmati dall’ISIS-K, gruppo terroristico radicato nella regione del Khorasan.

L’Afghanistan, inoltre, si estende su un territorio estremamente vulnerabile che obbliga la sua popolazione a misurarsi con una delle più gravi siccità mai affrontate finora e con i continui terremoti: tra il 7 e il 15 ottobre 2023 tre forti terremoti di magnitudo 6.3 hanno squassato l’Afghanistan. L’epicentro è stato localizzato a 30 km a nord-est del distretto di Zinda Jan, nella provincia di Herat che conta poco meno di due milioni di abitanti. I terremoti hanno impattato circa 275.000 persone, in distretti dove il 23% della popolazione è composto da bambini di età inferiore ai 5 anni; anche se avere dati affidabili non è facile, si stima che il sisma abbia provocato la morte di circa 1.500 afghani e il ferimento di oltre 2.100 persone. Gravissimo l’impatto sulle infrastrutture con centinaia di abitazioni distrutte, danni a una rete idrica già fortemente compromessa e a circa 40 strutture sanitarie. L’intervento dei Talebani a sostegno della popolazione è stato tardivo o inesistente e la popolazione è stata abbandonata in balia di se stessa.

Nello stesso giorno in cui la terra afghana tremava, un altro terremoto si è abbattuto sulla popolazione: il Pakistan annuncia che, entro il 31 ottobre 2023, tutti gli stranieri irregolari, privi di documenti certificati dalle autorità, dovranno lasciare il paese. Anche se l’annuncio riguarda tutti i cittadini stranieri, la misura colpisce principalmente gli afghani, circa 1 milione e 700mila rifugiati che, spesso, vivono in Pakistan da decenni o vi sono addirittura nati. Un numero alimentato anche dagli oltre 700mila che sarebbero arrivati nel paese dopo il ritorno al potere dei talebani. A partire da novembre le autorità pakistane stanno rimpatriando con la forza i rifugiati che giungono in un paese dove, quarant’anni di conflitti e i ricorrenti disastri naturali, hanno già provocato molteplici ondate di sfollamenti forzati interni. L’OCHA stima che 6,3 milioni di individui (circa 1 afghano su 7) stiano vivendo uno sfollamento a lungo termine. Si prevede che l’aumento dei rimpatri continuerà, con proiezioni che indicano che oltre 1,46 milioni di afghani provenienti da Pakistan e Iran torneranno nel 2024.

Intanto l’Afghanistan è uscito dal radar dell’attenzione della comunità internazionale rientrandovi solo per qualche flash in occasione di disastri naturali, come il terremoto di ottobre, o per il tentativo di “normalizzare” i rapporti con i Talebani: il 29 dicembre il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha votato quasi all’unanimità una delibera che darà l’avvio a un nuovo corso nei rapporti del mondo con l’Afghanistan dei Talebani il cui obiettivo è “un Afghanistan in pace con se stesso e con i suoi vicini, pienamente reintegrato nella comunità internazionale e che onori i suoi obblighi internazionali”. Un provvedimento che cambia la strategia finora adottata dall’ONU e confermata nella Conferenza di Doha dello scorso maggio che stabiliva di non trattare direttamente con i Talebani finché non avessero riconosciuto i diritti alle donne.

Ma le donne afghane sono forti e resistono

Nonostante una repressione che, nei confronti delle donne, raggiunge il suo apice, le afghane non si arrendono e anche questo 2023 è stato un anno di lotta e resistenza.

Qualsiasi tipo di esposizione delle donne è molto pericolosa con il rischio di arresti ed esecuzioni sommarie, ma le afghane hanno sfidato le forze di sicurezza talebane: il 29 aprile, a Kabul, si è svolta una manifestazione spontanea di un gruppo di donne che ha chiesto alla comunità internazionale, in vista dell’incontro internazionale sull’Afghanistan convocato dalle Nazioni Unite a Doha, di non riconoscere il governo dei Talebani; altre donne hanno lanciato i loro slogano contro i Talebani il 15 agosto, nella ricorrenza dei due anni dalla ripresa del potere degli integralisti religiosi.

Una sfida e una resistenza che si concretizza nel supporto alla popolazione e nel sostegno alle donne.

Le attiviste di Rawa, che non hanno mai lasciato l’Afghanistan e vivono in clandestinità, hanno portato soccorso più volte ai villaggi nei territori più lontani e abbandonati dai soccorsi medici e dagli aiuti; nel gelido inverno afghano Rawa ha distribuito decine di pacchi di cibo a famiglie ridotte in stato di estrema povertà.

Al sostegno economico e sanitario, si affianca l’impegno in programmi educativi rivolti alle ragazze e alle donne. Corsi segreti, che si svolgono in condizioni di grande difficoltà e riguardano alfabetizzazione per donne anziane, lezioni di scienze per le ragazze che non possono frequentare la scuola, corsi di lingua inglese per tutte le età, corsi di rinforzo per i bambini che frequentano ancora la scuola, ma hanno bisogno di un’istruzione migliore a causa dell’atteggiamento misogino dei Talebani e del sistema educativo di bassa qualità.

Anche altre associazioni attive in Afghanistan, come Hawca e Opawc, sono intervenute sollecitamente e hanno messo in atto diversi interventi per andare in aiuto alla popolazione affamata e in difficoltà. Il team sanitario mobile di Hamoon, per esempio, ha visitato nello scorso dicembre la provincia di Kunar curando pazienti di tre diversi villaggi.

Come Cisda sostiene le donne afghane

Cisda, che opera in Italia per sostenere economicamente e politicamente le donne e il popolo afghano, supporta da anni queste associazioni sul piano economico e su quello politico.

Ecco i progetti che il Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane ha finanziato nel 2023:

  • Educational Center for Women: Scuola per ragazze dalla 6° alla 12° classe. Il progetto prevede l’organizzazione di corsi per ragazze dai 13 ai 18 anni, sospesi dai Talebani. I corsi continuano a essere svolti in clandestinità.
  • Sartoria: Corso di taglio e cucito con relativi strumenti (macchine per cucire, stoffe etc.). Il corso è iniziato nella città di Kabul, poi esteso ad altre 4 province. Acquisto di 80 macchine per cucire e relativo materiale come stoffe e filo che al termine del corso verranno lasciate alle donne per il sostentamento delle famiglie.
  • Piccolo shelter per 4 donne. Apertura di una casa protetta per accogliere 4 casi particolarmente difficili fornendo protezione, supporto psicologico ed economico alle donne e relativi figli piccoli. Si prevede anche acquisto di macchine per cucire per rendere le donne attive e indipendenti economicamente.
  • Vite Preziose. Sostegno a distanza per donne vittime di violenza. Alcune di loro erano ospitate nelle case rifugio (shelter) oggi abbandonate e hanno bisogno di aiuto per vivere e proteggersi. Altre devono continuare il loro percorso di riscatto in condizioni ancora più difficili.
  • Mobile Health Unit. Team sanitario mobile di supporto medico – Ex ospedale Hamoon, ora unità mobile.
  • Educational Center. Scuola privata che prevede l’organizzazione di corsi per ragazze dalla 6° alla 12° classe (13-18 anni). I corsi vengono tenuti in clandestinità. Inizialmente previsto a Kabul, ma poi effettuato a Bamyan.
  • Giallo Fiducia: progetto Zafferano. Progetto in collaborazione con Costa Family Foundation e Insieme si Può di Belluno. Zafferano raccolto da una cooperativa di donne che frequenta anche la scuola.
  • Distribuzione capre alle vedove. Progetto in collaborazione con Costa Family Foundation e Insieme si Può di Belluno.
  • Staffetta femminista. Tante squadre distribuite su più tappe dall’Italia all’Afghanistan a sostegno dei progetti di autonomia di donne e ragazze, con particolare attenzione alle vittime di violenza sessuale e familiare.

Al sostegno economico si affianca quello politico e di comunicazione per dare voce, anche in Italia, alle donne afghane.

Nel corso del 2023 si sono consolidate le attività della Coalizione euro-afghana per la democrazia e la laicità, nata per rispondere all’appello delle forze laiche e democratiche afghane Rawa e Hambastagi per creare una alleanza tra queste e le Associazioni e le Reti Europee che, pur agendo in ambiti specifici, individuino terreni comuni di azione per promuovere una reale democrazia sia in Afghanistan, sia in Italia e in Europa. Nell’ambito di queste attività, il 25 novembre, in occasione delle celebrazioni per la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, è stata inviata all’attenzione delle istituzioni italiane, europee e internazionali la petizione Stand Up With Afghan Women.

È stato inoltre realizzato il Dossier Afghanistan – I diritti negati delle donne afghane, un documento con il quale Cisda ha voluto ripercorre le tappe principali della storia afghana, cercando di capire chi sono i Talebani di oggi e realizzando approfondimenti tematici per comprendere qual è la situazione attuale del paese. Ma con il quale ha soprattutto voluto dar voce alle donne afghane raccogliendo le loro storie.

Nel 2023 è proseguita la collaborazione con Altreconomia, inaugurata l’anno precedente, attraverso la quale Cisda ha potuto pubblicare costanti aggiornamenti su specifici aspetti della vita in Afghanistan.

Infine, sono stati quasi 100 gli incontri pubblici organizzati da Cisda o nei quali le attiviste di Cisda sono intervenute per diffondere le informazioni sulla situazione afghana, ai quali vanno aggiunte le decine di momenti di confronto realizzati nelle scuole.

Sostieni Cisda per continuare a sostenere le donne afghane.

L’interessato dialogo con i Talebani, l’ultimo tradimento occidentale dell’Afghanistan

Nel tentativo strisciante di portare l’opinione pubblica verso il riconoscimento del governo dei Talebani la nuova parola magica è “engagement”nella versione italiana dell’ambasciatrice per l’Afghanistan Natalia Quintavalle, o “normalizzazione” in quella dell’inviata speciale degli Stati Uniti per i diritti umani e le donne afghane Rina Amiri al Forum di Doha . 

Questa “nuova” definizione serve a nascondere all’opinione pubblica, indignata per il trattamento riservato in Afghanistan alla popolazione e in particolare alle donne, la reale volontà degli Stati Uniti e dei governi occidentali, cioè quella di riprendere con i Talebani quei colloqui che li avevano riportati al governo del Paese nel 2021. Un dialogo poi ufficialmente interrotto perché difficilmente giustificabile, data l’evidenza del persistere del loro fondamentalismo e della gravità dei provvedimenti antidemocratici presi da quel governo, ritornato al potere dopo 20 anni di una guerra che l’Occidente diceva fatta appositamente per eliminarli. 

Quindi ancora non si accetta di “riconoscere” ufficialmente il governo talebano ma si ammette la necessità di dialogare, come atteggiamento pragmatico che riconosce che questo è un dato di fatto e che, se non lo facciamo noi, il dialogo e i contratti economici li faranno solo le altre potenze regionali più o meno grandi. La giustificazione di questo cedimento è nello stato di bisogno immenso in cui si trova la popolazione afghana, ridotta alla fame da quarant’anni di conflitti, da fattori economici e climatici (freddo, carestia, terremoto) e, non ultima, dalla politica dei Talebani stessi. 

Questa strada era stata aperta nella primavera scorsa quando John Sopko, l’Ispettore generale speciale per la ricostruzione afghana (Sigar), aveva affermato pubblicamente e con grande indignazione che gli aiuti umanitari largamente mandati in Afghanistan erano stati per lo più sequestrati dai Talebani per far funzionare il loro apparato statale e mantenere i loro sostenitori, lasciando così alla popolazione sole le briciole. Si erano aggiunti i resoconti dei vari importanti enti internazionali che si occupano di aiuti all’Afghanistan che affermavano delusi che i risultati in termini di miglioramenti per la popolazione erano molto scarsi. 

Si è così cominciata a insinuare l’idea della necessità di un cambiamento di strategia, la necessità di dare un aiuto non solo emergenziale quanto invece un sostegno alla ripresa dell’economia del Paese. Erano quindi iniziate le manovre di avvicinamento, prima dando al turco Feridun Sinirlioğlu, coordinatore speciale delle Nazioni Unite per gli affari afghani, l’incarico di stendere un rapporto “indipendente” per indicare la strada con cui arrivare alla “piena normalizzazione e integrazione dell’Afghanistan nel sistema internazionale”. Quindi con riunioni internazionali a vari livelli, infine, il 10 e 11 dicembre, con il contatto diretto tra Stati Uniti e Talebani avuto con il Forum di Doha. 

Conferenza che, dopo le raccomandazioni e le lamentele sul mancato riconoscimento del diritto all’istruzione e al lavoro delle ragazze e delle donne, si è concentrata sui veri problemi che interessano ai Talebani e agli Stati convenuti: le modalità di sblocco dei soldi afghani trattenuti dagli Usa e le possibilità di ripresa dell’economia afghana, con conseguenti accordi economici, commerciali, in vista di una “normalizzazione” senza “riconoscimento” che faccia dell’Afghanistan uno dei tanti Paesi al mondo che non rispettano i diritti umani come dovrebbero ma con i quali si fanno affari economici perché “se si ferma l’economia si ferma tutto e anche la popolazione affamata ne risente”. 

Anche l’Italia è perfettamente inserita nella prospettiva di dialogo con i Talebani, come ha spiegato chiaramente l’ambasciatrice Quintavalle in una intervista pubblicata da Avvenire a fine novembre 2023. Ha detto che la sua funzione è proprio quella di fare da ponte tra le ambasciate fuori sede (che, come la nostra, non vogliono mostrare di avere contatti diretti con Kabul), i funzionari delle Ong, gli esuli afghani e i Talebani.

Incontra regolarmente esponenti di Kabul per fare engagement, cioè coinvolgerli nelle cose concrete (intervento umanitario, terrorismo, economia), perché su queste tematiche pratiche è più facile trovare un accordo che non sui discorsi di principio, l’anti-fondamentalismo e la laicità, il rispetto dei diritti umani e delle donne. Problematiche che, una volta enunciate e contestate da entrambe le parti, vengono appunto accantonate per passare a problemi più stringenti, pratici. Su questi i Talebani dialogano volentieri, anzi sono addirittura d’accordo sul concedere l’istruzione alle ragazze, non fosse per quel “cattivo” dell’emiro che, da lontano comanda però su tutto e tutti e non la vuole. Ma forse ce la faranno a mandare le ragazze almeno nelle scuole religiose, dove non si impara niente tranne che la religione (abbiamo visto recentemente che perfino i ragazzi che le hanno frequentate ne sono usciti delusi perché si sono resi conto di non avere niente in mano di spendibile per il loro futuro) ma, insomma, almeno queste ragazze possono uscire di casa, poverine, svagarsi un po’, e forse non si suicideranno più così tanto come ora.

L’ambasciatrice afferma che questo le chiedono le donne e le ragazze rimaste in Afghanistan. Ma appare difficile che da lontano e dalla sua posizione istituzionale abbia contatti diretti con loro e sappia che cosa vogliono. Sono infatti le ex leader politiche uscite dal Paese che vengono invitate ai vari consessi internazionali, e che sicuramente lei avrà spesso incontrato. Pensiamo a Fazia Kofi, Rangina Hamidi, Hoda Khamosh, Mahbouba Seraj, le stesse che hanno partecipato direttamente ai Colloqui di Doha del 2019, che si spendono in ogni occasione per perorare la necessità di dialogare con i Talebani e convincerli a fare un governo più “inclusivo”, cioè un governo che permetta loro di tornare a occupare quelle posizioni di leader, fosse anche di secondo piano, che avevano nel vecchio esecutivo. 

Non è questo, invece, che vogliono e ci chiedono le attiviste che vivono in Afghanistan, che lottano e manifestano in tutti i modi la loro opposizione al regime dei Talebani e alla sua normalizzazione. Perché non c’è niente in quell’ideologia e in quella pratica di governo che possa essere considerato accettabile anche solo in minima parte o tradursi in leggi che consentano la vita e i diritti delle donne e della popolazione afghana. 

Pubblicato su Altreconomia

Farzana, Farah

Farzana ha 28 anni ed è nata in un villaggio della provincia di Farah (una delle più pericolose, con combattimenti continui). Apparteneva alla classe media, una grande famiglia con sei sorelle e tre fratelli.

Come altre ragazze del villaggio, sposa, senza il suo consenso, a 18 anni un uomo di 30. Nonostante lei non lo volesse sposare, con quest’uomo ha una vita felice e due figli. Farzana ricorda con gioia quei tempi con il marito che era un essere umano buono e gentile. Purtroppo non aveva lavoro ed deve emigrare in Iran per qualche tempo. Questa decisone non porta nessun guadagno alla famiglia e, alla fine, il marito si unisce ai talebani, l’unico modo per far sopravvivere la famiglia. Resta due anni con loro, combattendo in infinite battaglie ma la situazione si deteriora e diventa troppo pericolosa. Così il marito scappa dalle milizie talebane. Non sa fare altro che combattere e si arruola nell’esercito, pensando di essere meno esposto. Non è così e, durante un combattimento, dopo solo qualche mese dal suo arrivo, viene ucciso. I nuovi arrivati sono sempre mandati in prima linea.

Farzana inizia la sua vita di vedova con i parenti di lui e i suoi due figli. Si occupa di tutto in casa per la famiglia che conta 12 membri. I parenti del marito la insultano, la minacciano, la picchiano, ma lei sopporta la violenza per proteggere i suoi figli.

‘ Ogni tanto- dice Farzana- pensavo di scappare e rifugiarmi a casa dei miei genitori ma non potevo lasciare in quella famiglia i miei figli. Non sarebbero sopravvissuti senza di me. Il mio bambino più grande mi ha sempre aiutata nelle faccende domestiche e nel lavoro che dovevo fare, mi era molto vicino e avevo paura di lasciarlo lì. Ho due suocere. La peggiore è la seconda moglie del padre di mio marito. E’ lei che mi minaccia e mi insulta, è lai la fonte di tutti i problemi.’

Dopo sei anni di vedovanza, Farzana si rassegna e sposa il cognato, come prescrive la tradizione. Da lui ha un figlio che ora ha due anni. Ora vive in una stanza separata con il marito, ma tutta la casa è composta di due stanze in un grande cortile, più la cucina e il bagno comuni. Con il marito va abbastanza bene, è contenta, ma la famiglia continua a insultarla e minacciarla e le rende la vita difficile. La perseguitano e la umiliano. Per le credenze tradizionali, quando un uomo muore, la colpa della disgrazia ricade sulla moglie che viene additata come una persona cattiva che porta sfortuna e sciagura alla famiglia. Una sorta di strega. Per questo sono così feroci con lei.

‘I miei due figli più grandi sono tutto quello che ho nel mondo e loro, i parenti di mio marito , li istigano contro di me. Cercano di tagliare il legame d’amore che c’è tra madre e figli. Dicono loro continuamente che sono una donna cattiva. Nonostante mio marito sia una brava persona, subisce l’influenza dei suoi parenti e ha cominciato a insultarmi e a picchiarmi anche lui. A volte dice che sposerà un’altra donna perché io sono una vedova, insomma qualcuno che non vale niente e porta anche male.

Mio marito non ha una buona situazione finanziaria. Ha uno stipendio che a stento ci permette di arrivare alla fine del mese. I problemi nella vita stanno continuando ad aumentare. Ho paura per i miei figli, voglio che siano istruiti e ricevano un’educazione. Anch’io vorrei tanto studiare, ma è impossibile in questa casa. Sono sicura che se resteremo tutti a vivere qui, con la famiglia di mio marito, i miei figli lavoreranno per loro come schiavi e saranno analfabeti come me e mio marito.’

Aggiornamenti

Farzana crede fermamente che, se avesse i mezzi di sussistenza, sarebbe in grado di portare i suoi figli lontano da questa famiglia e dalla sua pessima influenza, e di mandarli ogni giorno a scuola. Potrebbe dargli tutto l’amore e le cure di cui hanno bisogno e che non hanno potuto avere.

Le serve un aiuto per fare questo passo. Allontanarsi da questa famiglia, trovare un lavoro e mandare a scuola i suoi figli e magari poter anche lei studiare.

Aggiornamento gennaio 2023

Farzana è molto felice con il marito e i figli. Adesso vive da sola con la sua famiglia e si è salvata dalla violenza della suocera che le rendeva la vita impossibile. Si considera molto fortunata ad avere uno sponsor. Ci racconta: “Mio marito lavora nei campi di grano ed è molto difficile coltivarlo perché non abbiamo mezzi agricoli idonei. Mio figlio lo aiuta molto. Con il denaro che ho ricevuto dalla sponsor ho comprato vestiti caldi per i miei bambini e della legna per scaldarci. Anche mio marito ha bisogno di vestiti caldi perché comincia a lavorare la mattina presto quando fa molto freddo. Così ho comprato due set di vestiti anche per lui. Io sono molto occupata con la casa e i bambini. Cerco di far vivere i miei figli e mio marito in una spazio sicuro e sano. Voglio insegnare ai miei figli che noi possiamo vivere con sincerità e amore. Anche se io vivo una vita semplice e povera, sono felice. Sono sicura che un giorno i miei figli potranno studiare e tutti i nostri problemi saranno risolti.” Manda alla sua sponsor saluti e amore.

Aggiornamento gennaio 2024

Farzana dice di sentirsi emotivamente esausta. Dice: “Io e mio marito stiamo facendo del nostro meglio, ma la siccità e l’impennata dei prezzi dei fertilizzanti hanno causato una significativa diminuzione dei raccolti, portando a perdite ancora maggiori. E d’altra parte, la pressione dei talebani per impadronirsi delle nostre terre è implacabile. Non ascoltano quando spieghiamo che non abbiamo guadagnato nulla, ci minacciano e ci mandano via se non gli diamo la loro parte. Queste pressioni hanno messo a dura prova i nervi di mio marito, che è diventato estremamente aggressivo. L’atmosfera della nostra casa, già pesante per la povertà, è diventata ancora più difficile e tesa. Mio marito, un tempo di buon cuore, non sopporta più il rumore e la giocosità dei nostri figli. Li rimprovera costantemente e ricorre persino a punizioni corporali. I miei figli sono diventati estremamente introversi. Penso sempre che ora, oltre al cibo, manchi loro anche l’amore. Mi frustra profondamente il fatto di non poter fornire loro quello che gli serve per i loro primari bisogni. Sono profondamente rattristata dalle strane leggi che i talebani hanno imposto alle donne, impedendomi di lavorare e risolvere i problemi nella vita dei miei figli. Prego con fervore dal profondo del mio cuore perché questo popolo selvaggio scompaia al più presto dalla nostra patria, in modo che tutti possano tirare un sospiro di sollievo. Qualche settimana fa, quando la mia bambina si è ammalata e si è indebolita, eravamo tutti devastati. Purtroppo non potevo permettermi di portarla dal dottore. Dopo che sono passati alcuni giorni e le sue condizioni sono peggiorate, ho preso in prestito una piccola somma di denaro e l’ho portata dal dottore. Dopo l’esame, il medico ha detto che mia figlia soffriva di una grave anemia e che se non fosse stata trattata, le sue condizioni sarebbero peggiorate ulteriormente. Ha sottolineato la necessità di una corretta alimentazione e di cibi nutrienti. Con il cuore pesante, mi sono resa conto che quando sono tornata a casa e ho affrontato mio marito, anche lui era angosciato, ma la sua frustrazione si è trasformata in brutti commenti sul dottore e se l’è presa con me. Tuttavia, sento che la mia unica fonte di felicità e fortuna è avere uno sponsor buono e compassionevole che è sempre venuto in mio aiuto nei momenti difficili e mi ha aiutato. Anche questa volta, è arrivato il suo sostegno e sono riuscita a curare mia figlia e a farla mangiare meglio”.

 

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Una storia del progetto Vite preziose.

La fotografia è di solo carattere grafico e non rappresenta la donna protagonista della storia. Data la attuale situazione in Afghanistan, per evitare l’identificazione delle donne i nomi sono stati modificati, così come i luoghi dove si svolgono i fatti.

 

 

 

 

 

The Self-Interested Dialogue with the Taliban: The Latest Western Betrayal of Afghanistan

In the creeping attempt to sway public opinion toward recognizing the Taliban government, the new buzzword is “engagement,” according to the Italian ambassador to Afghanistan, Natalia Quintavalle, or “normalization,” as per the U.S. Special Envoy for Human Rights and Afghan Women, Rina Amiri, at the Doha Forum.

This “new” term serves to conceal from the public—outraged by the treatment of the Afghan population, especially women—the real intentions of the United States and Western governments, which is to resume talks with the Taliban that had brought them back to power in 2021. These talks were officially halted because they were difficult to justify given the obvious persistence of the Taliban’s fundamentalism and the severity of their anti-democratic measures, after a 20-year war that the West claimed was fought to eliminate them.

While official recognition of the Taliban government is still not accepted, the need for dialogue is acknowledged as a pragmatic stance that recognizes this as a fact, and if we don’t engage, only other regional powers will, making economic deals. The justification for this concession lies in the immense need of the Afghan population, reduced to hunger by forty years of conflict, economic and climatic factors (cold, famine, earthquakes), and not least, the Taliban’s own policies.

This path began last spring when John Sopko, the Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction (SIGAR), publicly and indignantly stated that the humanitarian aid sent to Afghanistan was largely seized by the Taliban to run their state apparatus and support their backers, leaving only crumbs for the population. This was echoed by reports from various major international aid organizations for Afghanistan, which disappointingly stated that the improvements for the population were minimal.

Thus, the idea of a strategic shift began to take hold: the need for not just emergency aid but support for the country’s economic recovery. Maneuvers for rapprochement started, initially by giving Turkish diplomat Feridun Sinirlioğlu, the UN Special Coordinator for Afghan Affairs, the task of writing an “independent” report outlining the path to “full normalization and integration of Afghanistan into the international system.” This was followed by international meetings at various levels, and finally, on December 10-11, with direct contact between the United States and the Taliban at the Doha Forum.

The conference, after the usual recommendations and complaints about the lack of recognition of girls’ and women’s right to education and work, focused on the real issues of interest to both the Taliban and the participating states: the unfreezing of Afghan funds held by the U.S. and the possibilities for the Afghan economy’s recovery, leading to economic and trade agreements aimed at a “normalization” without “recognition” that would make Afghanistan one of the many countries worldwide that do not respect human rights as they should but with whom economic deals are made because “if the economy stops, everything stops, and the starving population suffers too.”

Italy is also fully engaged in this dialogue with the Taliban, as Ambassador Quintavalle explained clearly in an interview published by Avvenire at the end of November 2023. She stated that her role is to act as a bridge between the embassies abroad (which, like ours, do not want to show direct contact with Kabul), NGO officials, Afghan exiles, and the Taliban.

She regularly meets with Kabul representatives to engage them in concrete matters (humanitarian intervention, terrorism, economy), because it is easier to find agreement on these practical issues than on matters of principle, anti-fundamentalism, secularism, human rights, and women’s rights. Once these problematic principles are stated and contested by both sides, they are set aside to address more urgent, practical problems. On these issues, the Taliban are willing to dialogue and even agree to grant education to girls, if not for the “bad” emir who commands everything from afar and does not allow it. But perhaps they will manage to send the girls at least to religious schools, where they learn nothing but religion (as we have recently seen, even boys who attended these schools were disappointed because they realized they had nothing practical for their future) but, at least, these girls can leave their homes, poor things, relax a bit, and maybe won’t commit suicide as much as they do now.

The ambassador claims that this is what women and girls left in Afghanistan ask for. However, it seems unlikely that she has direct contact with them from afar and from her institutional position and knows what they want. It is the former political leaders who left the country who are invited to various international forums and whom she has surely often met. Think of Fazia Kofi, Rangina Hamidi, Hoda Khamosh, Mahbouba Seraj, the same ones who directly participated in the Doha Talks in 2019, who take every opportunity to advocate the need to dialogue with the Taliban and convince them to form a more “inclusive” government, meaning a government that allows them to return to leadership positions, even if secondary, they held in the old executive.

This is not what the activists living in Afghanistan want and ask for, those who fight and manifest in every possible way their opposition to the Taliban regime and its normalization. There is nothing in that ideology and government practice that can be considered acceptable even in the slightest or translated into laws that allow the life and rights of women and the Afghan population.

The ideological and practical principles of the Taliban government are incompatible with any form of compromise or inclusion, and their governance system cannot be reformed to respect human rights. Supporting the regime through dialogue only betrays the Afghan people, who need genuine support to overthrow the oppressive regime and build a society that truly respects human dignity and rights.