Possono i talebani smettere di essere fondamentalisti? Possono restituire libertà e diritti alle donne e alle ragazze afghane?
È quello che speravano l’Onu e la comunità internazionale quando hanno organizzato, il 18-19 febbraio a Doha, il secondo Incontro dei 25 paesi più ricchi del mondo per parlare dei problemi dell’Afghanistan, come avevano già fatto un anno fa, ma questa volta invitando direttamente i talebani a parteciparvi per avviare un processo di avvicinamento e “normalizzazione” in grado di aggirare lo scoglio, per i più insormontabile, del riconoscimento del loro governo.
Nelle intenzioni, un atto di real politik, un riconoscimento di fatto, senza ufficializzarlo, così che l’opinione pubblica non se ne accorgesse – o comunque non se ne sentisse in colpa.
Questa strategia era iniziata nell’aprile 2023 con l’affidamento al Coordinatore speciale delle Nazioni Unite per l’Afghanistan Feridun Sinirlioğlu dell’incarico di fare una valutazione “indipendente” sull’andamento dei rapporti tra il mondo democratico e il governo de facto dell’Afghanistan, cioè sulle condizioni delle donne e della popolazione afghana dopo due anni di crisi economica e umanitaria conseguente al ritorno dei talebani a Kabul.
Verificato che le sanzioni economiche e politiche, messe in atto nei confronti dell’Afghanistan per premere sui talebani e costringerli ad allentare la morsa sui diritti umani delle donne, non avevano minimamente scalfito l’ideologia fondamentalista e nemmeno scosso la loro saldezza politica; che nonostante i miliardi di aiuti arrivati direttamente e indirettamente dalla cooperazione internazionale e dagli stati più ricchi la situazione per il popolo non era granché migliorata mentre i talebani avevano continuato a consolidarsi proprio grazie agli aiuti internazionali e alle buone relazioni con gli stati delle Regione, in barba alle rituali lamentele circa le violazioni delle norme internazionali, anche le Nazioni Unite avevano cominciato a parlare di cambiare strategia.
Non si pensava più di premere direttamente sui talebani per ottenere l’adeguamento del loro governo alle norme internazionali in materia di democrazia, diritti alle donne e inclusività dando loro in cambio il riconoscimento. Si decise invece di mettere in atto un avvicinamento ai talebani, un dialogo con loro, che si pensava efficace perché il confronto con l’Occidente li avrebbe persuasi della bontà della nostra democrazia e della cattiveria della loro sharia, o almeno della convenienza a diventare più malleabili.
Da questa nuova convinzione è nata l’idea di invitare anche i talebani al secondo Incontro di Doha – nonostante le proteste delle organizzazioni democratiche della società civile e delle donne, messe a tacere con il contentino di un invito a qualcuna di loro – ma scelta come? veniva chiesto – per un incontro a margine di quelli ufficiali.
E qui il colpo di scena: i talebani non solo non si sono dimostrati riconoscenti di fronte a questa possibilità di entrare finalmente nel consesso internazionale degli stati per bene ma addirittura hanno snobbato l’incontro, rifiutandosi di partecipare se non fossero stati gli unici rappresentanti del popolo afgano – niente donne, niente altre forze – cioè, in sostanza pretendendo da subito il riconoscimento… e senza nulla in cambio.
Quindi nella controversa questione, che da mesi mette a confronto l’Onu che difende la ragion di stato e le organizzazioni che difendono le donne e i diritti umani, se sia più utile alla causa della democrazia legare il riconoscimento del governo de facto alla concessioni di diritti o andare al dialogo nella speranza di convincerli gradualmente a cambiare, sono stati gli stessi talebani a risolvere il problema, non presentandosi all’incontro in quanto non interessati al dialogo se non alle loro condizioni.
Nella conferenza stampa finale Guterres ha fatto buon viso non manifestando delusione per questo rifiuto, plaudendo all’accordo tra tutti i presenti, prendendo atto che con i talebani funzionano maggiormente gli incontri bilaterali o regionali e augurandosi che in futuro si mostrino più disponibili. Un commento di prammatica, insomma, che ha nascosto il fallimento del meeting.
Ma perché i talebani non hanno accettato la mano tesa dell’Occidente, la possibilità per loro di uscire finalmente dall’isolamento?
Innanzitutto, perché isolati non sono. Già “dialogano” con Usa e Unione europea e ricevono soldi dai paesi occidentali e sempre più alacremente fanno trattative e accordi economici con Cina, Russia, Iran, con i paesi della Regione e del Medio Oriente, stati che li hanno già, chi più chi meno, riconosciuti di fatto e senza porre difficoltà ideologiche nonostante le dichiarazioni formali.
Ma soprattutto perché, se anche così non fosse, se fossero davvero isolati, i talebani non potrebbero comunque aprire a un governo inclusivo e tanto meno trattare sui diritti delle donne, perché la loro ideologia integralista e fondamentalista non contempla il confronto delle idee e la mediazione, vogliono tutto o niente, l’applicazione integrale della loro visione della religione e della politica o il passaggio dall’altra parte, la chiusura nel loro mondo in attesa di ritornare vincitori.
Quindi è illusorio credere che dare riconoscimento e concessioni possa strappare qualche diritto per le donne. Le posizioni dei talebani non sono scalfibili perché, se non fossero così misogini, intransigenti e fondamentalisti non sarebbero talebani.
Possono fare accordi economici con chiunque e accettare condizioni, ma ciò che li distingue e caratterizza è l’intransigenza nella vita personale e nell’ideologia, l’assoluta schiavitù del corpo e della mente a quei principi religiosi “musulmani” che loro considerano l’unica verità possibile. Se diventassero inclusivi e democratici perderebbero l’identità e la ragion d’essere.
L’ostilità verso le libertà e i diritti delle donne fa parte dell’identità dei gruppi fondamentalisti, che non possono rinunciarvi perché vorrebbe dire rinunciare alla loro identità. Per questo non è fattibile trattare con i talebani, bisogna semplicemente sconfiggerli, eliminare la loro ideologia.
Il fanatismo religioso, la convinzione di essere depositari della parola di dio, è del resto ciò che compensa il popolo dei sacrifici e li persuade ad accettare la sua povertà economica e culturale: non hanno niente ma si sentono privilegiati per il loro rapporto con dio.
Perché cambi questa mentalità è necessario quindi fare una battaglia culturale, che contrasti l’ignoranza presente soprattutto nelle zone più remote e isolate e renda le persone consapevoli della propria dignità e dei propri diritti contro una schiavitù che appare inevitabile.
È ciò che fanno le attiviste di Rawa, che da anni lavorano in questo senso soprattutto con le donne, che sono le più oppresse dalla ideologia patriarcale e che stanno resistendo tutti i giorni nella speranza di creare un consenso popolare capace di ribellarsi ai talebani e rovesciarli.
Così come non si può esportare la democrazia, come pretendevano di fare gli Usa e gli alleati con l’invasione dell’Afghanistan conclusasi con il ritorno dei talebani, perché è solo il popolo che può conquistarla in maniera duratura agendo in prima persona, così adesso è solo il popolo che può decidere di porre fine a questo regime che li opprime.
Noi dobbiamo sostenere le forze democratiche all’interno del paese. A loro, alle donne, ai gruppi e alle organizzazioni che lavorano lì per creare una cultura e una resistenza che contrasti l’ideologia talebana nel profondo, deve andare il sostegno internazionale. Non solo con azioni politiche direttamente rivolte a ciò ma prima ancora con aiuti concreti alla popolazione per far fronte ai bisogni primari che la crisi umanitaria ha reso impellenti. A patto che il sostegno umanitario non passi attraverso le mani dei talebani stessi, che lo destinano a ben altri fini, ma attraverso canali indipendenti.