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Autore: Patrizia Fabbri

Nonostante tutto…i corsi di cucito (e non solo) continuano

Qualche giorno fa abbiamo ricevuto informazioni dall’organizzazione afghana che sostiene il progetto Sartoria e volentieri lo pubblichiamo. Ricordiamo che al corso di taglio e cucito si affiancano lezioni di alfabetizzazione. Come sempre, per ragioni di sicurezza, abbiamo omesso o modificato nomi e situazioni che potrebbero aiutare a identificare le nostre valorose compagne che continuano a svolgere in Afghanistan attività a favore delle donne.

“Tutti i nostri corsi stanno procedendo senza intoppi, senza grossi problemi. Gli studenti frequentano i corsi con amore ed entusiasmo. Nonostante le circostanze estremamente difficili e impegnative che mettono ogni giorno un’enorme pressione sulle donne, i nostri devoti insegnanti si sono opposti coraggiosamente alle decisioni discriminatorie dei talebani e continuano a insegnare alle ragazze che sono state lasciate indietro. Prendiamo in considerazione tutte le precauzioni, assicurandoci che gli studenti frequentino i corsi individualmente in orari diversi e lascino le aule con discrezione, per non attirare l’attenzione. In questi giorni i talebani hanno reso le condizioni ancora più difficili per le ragazze, arrestando giovani donne e ragazze con il pretesto di aspetto o codice di abbigliamento inappropriati e tenendole in custodia per ore. Una ragazza che protestava nella provincia afghana di Kunduz ha perso la vita dopo qualche tempo sotto la custodia dei talebani. Lo spirito delle donne e delle ragazze in Afghanistan si deteriora ogni giorno e loro si sentono davvero impotenti. Il team della nostra organizzazione si sforza di avere un impatto positivo sulle ragazze afghane attraverso questi corsi. Continueremo i nostri sforzi fino all’ultimo momento per sostenere le ragazze del nostro Paese e fornire loro speranza, aspirazioni e motivazione. Siamo immensamente grati di avervi al nostro fianco”.

La comunicazione dell’organizzazione afghani è proseguita raccontandoci una triste storia emblematica della condizione nella quale sono costrette a vivere le donne e che, purtroppo, non rappresenta un caso isolato.

“Attualmente, una delle nostre studentesse di cucito è scomparsa da più di venti giorni. Abbiamo organizzato un incontro con la madre Fariba (nome di fantasia ndr) per esserle di supporto nella ricerca della figlia. Fariba ha spiegato che la figlia era andata a iscriversi al corso di cucito che si era aperto nel loro quartiere qualche giorno prima, ma purtroppo da allora non è più tornata a casa. Quando il suo fidanzato è venuto a conoscenza della situazione, si è arrabbiato moltissimo e ha chiesto l’annullamento del fidanzamento, elencando tutte le spese sostenute durante il loro fidanzamento e accusando Fariba di inganno.

Fariba ha visitato tutte le prigioni talebane, ma non ha ricevuto alcuna informazione. La madre è estremamente preoccupata perché tutti i parenti hanno tagliato i ponti con la famiglia, sostenendo che non sono più rispettabili a causa della scomparsa della figlia. Si rifiutano di avere qualsiasi contatto.

L’istruttrice di cucito e la responsabile del progetto, hanno fatto ogni sforzo per fornire supporto a Fariba, ma il suo dolore è travolgente e versa solo lacrime. Tutti speriamo che un giorno la figlia di Fariba venga ritrovata.

La situazione peggiora ogni giorno e tutte le donne e le ragazze sono terrorizzate. Tuttavia, tutte le nostre studentesse sono determinate a non arrendersi a queste difficili circostanze. Si avvicinano agli studi con entusiasmo e dicono: “Non ci sottometteremo alle cattive condizioni“.

Possono i talebani smettere di essere fondamentalisti?

Possono i talebani smettere di essere fondamentalisti? Possono restituire libertà e diritti alle donne e alle ragazze afghane?

È quello che speravano l’Onu e la comunità internazionale quando hanno organizzato, il 18-19 febbraio a Doha, il secondo Incontro dei 25 paesi più ricchi del mondo per parlare dei problemi dell’Afghanistan, come avevano già fatto un anno fa, ma questa volta invitando direttamente i talebani a parteciparvi per avviare un processo di avvicinamento e “normalizzazione” in grado di aggirare lo scoglio, per i più insormontabile, del riconoscimento del loro governo.

Nelle intenzioni, un atto di real politik, un riconoscimento di fatto, senza ufficializzarlo, così che l’opinione pubblica non se ne accorgesse – o comunque non se ne sentisse in colpa.

Questa strategia era iniziata nell’aprile 2023 con l’affidamento al Coordinatore speciale delle Nazioni Unite per l’Afghanistan Feridun Sinirlioğlu dell’incarico di fare una valutazione “indipendente” sull’andamento dei rapporti tra il mondo democratico e il governo de facto dell’Afghanistan, cioè sulle condizioni delle donne e della popolazione afghana dopo due anni di crisi economica e umanitaria conseguente al ritorno dei talebani a Kabul.

Verificato che le sanzioni economiche e politiche, messe in atto nei confronti dell’Afghanistan per premere sui talebani e costringerli ad allentare la morsa sui diritti umani delle donne, non avevano minimamente scalfito l’ideologia fondamentalista e nemmeno scosso la loro saldezza politica; che nonostante i miliardi di aiuti arrivati direttamente e indirettamente dalla cooperazione internazionale e dagli stati più ricchi la situazione per il popolo non era granché migliorata mentre i talebani avevano continuato a consolidarsi proprio grazie agli aiuti internazionali e alle buone relazioni con gli stati delle Regione, in barba alle rituali lamentele circa le violazioni delle norme internazionali, anche le Nazioni Unite avevano cominciato a parlare di cambiare strategia.

Non si pensava più di premere direttamente sui talebani per ottenere l’adeguamento del loro governo alle norme internazionali in materia di democrazia, diritti alle donne e inclusività dando loro in cambio il riconoscimento. Si decise invece di mettere in atto un avvicinamento ai talebani, un dialogo con loro, che si pensava efficace perché il confronto con l’Occidente li avrebbe persuasi della bontà della nostra democrazia e della cattiveria della loro sharia, o almeno della convenienza a diventare più malleabili.

Da questa nuova convinzione è nata l’idea di invitare anche i talebani al secondo Incontro di Doha – nonostante le proteste delle organizzazioni democratiche della società civile e delle donne, messe a tacere con il contentino di un invito a qualcuna di loro – ma scelta come? veniva chiesto – per un incontro a margine di quelli ufficiali.

E qui il colpo di scena: i talebani non solo non si sono dimostrati riconoscenti di fronte a questa possibilità di entrare finalmente nel consesso internazionale degli stati per bene ma addirittura hanno snobbato l’incontro, rifiutandosi di partecipare se non fossero stati gli unici rappresentanti del popolo afgano – niente donne, niente altre forze – cioè, in sostanza pretendendo da subito il riconoscimento… e senza nulla in cambio.

Quindi nella controversa questione, che da mesi mette a confronto l’Onu che difende la ragion di stato e le organizzazioni che difendono le donne e i diritti umani, se sia più utile alla causa della democrazia legare il riconoscimento del governo de facto alla concessioni di diritti o andare al dialogo nella speranza di convincerli gradualmente a cambiare, sono stati gli stessi talebani a risolvere il problema, non presentandosi all’incontro in quanto non interessati al dialogo se non alle loro condizioni.

Nella conferenza stampa finale Guterres ha fatto buon viso non manifestando delusione per questo rifiuto, plaudendo all’accordo tra tutti i presenti, prendendo atto che con i talebani funzionano maggiormente gli incontri bilaterali o regionali e augurandosi che in futuro si mostrino più disponibili. Un commento di prammatica, insomma, che ha nascosto il fallimento del meeting.

Ma perché i talebani non hanno accettato la mano tesa dell’Occidente, la possibilità per loro di uscire finalmente dall’isolamento? 

Innanzitutto, perché isolati non sono. Già “dialogano” con Usa e Unione europea e ricevono soldi dai paesi occidentali e sempre più alacremente fanno trattative e accordi economici con Cina, Russia, Iran, con i paesi della Regione e del Medio Oriente, stati che li hanno già, chi più chi meno, riconosciuti di fatto e senza porre difficoltà ideologiche nonostante le dichiarazioni formali.

Ma soprattutto perché, se anche così non fosse, se fossero davvero isolati, i talebani non potrebbero comunque aprire a un governo inclusivo e tanto meno trattare sui diritti delle donne, perché la loro ideologia integralista e fondamentalista non contempla il confronto delle idee e la mediazione, vogliono tutto o niente, l’applicazione integrale della loro visione della religione e della politica o il passaggio dall’altra parte, la chiusura nel loro mondo in attesa di ritornare vincitori.

Quindi è illusorio credere che dare riconoscimento e concessioni possa strappare qualche diritto per le donne. Le posizioni dei talebani non sono scalfibili perché, se non fossero così misogini, intransigenti e fondamentalisti non sarebbero talebani.

Possono fare accordi economici con chiunque e accettare condizioni, ma ciò che li distingue e caratterizza è l’intransigenza nella vita personale e nell’ideologia, l’assoluta schiavitù del corpo e della mente a quei principi religiosi “musulmani” che loro considerano l’unica verità possibile. Se diventassero inclusivi e democratici perderebbero l’identità e la ragion d’essere.

L’ostilità verso le libertà e i diritti delle donne fa parte dell’identità dei gruppi fondamentalisti, che non possono rinunciarvi perché vorrebbe dire rinunciare alla loro identità. Per questo non è fattibile trattare con i talebani, bisogna semplicemente sconfiggerli, eliminare la loro ideologia.

Il fanatismo religioso, la convinzione di essere depositari della parola di dio, è del resto ciò che compensa il popolo dei sacrifici e li persuade ad accettare la sua povertà economica e culturale: non hanno niente ma si sentono privilegiati per il loro rapporto con dio.

Perché cambi questa mentalità è necessario quindi fare una battaglia culturale, che contrasti l’ignoranza presente soprattutto nelle zone più remote e isolate e renda le persone consapevoli della propria dignità e dei propri diritti contro una schiavitù che appare inevitabile.

È ciò che fanno le attiviste di Rawa, che da anni lavorano in questo senso soprattutto con le donne, che sono le più oppresse dalla ideologia patriarcale e che stanno resistendo tutti i giorni nella speranza di creare un consenso popolare capace di ribellarsi ai talebani e rovesciarli.

Così come non si può esportare la democrazia, come pretendevano di fare gli Usa e gli alleati con l’invasione dell’Afghanistan conclusasi con il ritorno dei talebani, perché è solo il popolo che può conquistarla in maniera duratura agendo in prima persona, così adesso è solo il popolo che può decidere di porre fine a questo regime che li opprime.

Noi dobbiamo sostenere le forze democratiche all’interno del paese. A loro, alle donne, ai gruppi e alle organizzazioni che lavorano lì per creare una cultura e una resistenza che contrasti l’ideologia talebana nel profondo, deve andare il sostegno internazionale. Non solo con azioni politiche direttamente rivolte a ciò ma prima ancora con aiuti concreti alla popolazione per far fronte ai bisogni primari che la crisi umanitaria ha reso impellenti. A patto che il sostegno umanitario non passi attraverso le mani dei talebani stessi, che lo destinano a ben altri fini, ma attraverso canali indipendenti.

Coalizione euro-afghana per la democrazia e la laicità

CISDA ha deciso di rispondere all’appello delle forze laiche e democratiche  afghane – RAWA (Revolutionary Association of the Women of Afghanistan) e a Hambastagi (Solidarity Party of Afghanistan) e di  creare una alleanza tra queste e le Associazioni e le Reti Europee che, pur agendo in ambiti specifici, quali ad esempio il disarmo, pace e antimilitarismo, eguaglianza di genere, questione migratoria, fuoriuscita dalla Nato, individuino terreni comuni di azione per promuovere una reale democrazia sia in Afghanistan, sia in Italia e in Europa.

Cosa ha fatto CISDA 

Dopo la presa di potere dei Talebani a metà agosto 2021, abbiamo aggregato tante piazze italiane intorno allo slogan Afghan lives matter-Ogni vita conta con flash mob ed eventi in presenza in numerose città nelle giornate dell’11 e del 25 settembre, e abbiamo avviato il processo di costruzione della Coalizione euro-afghana Stand Up With Afghan Women!  attraverso i primi incontri nazionali.
Fra settembre e dicembre 2021, CISDA ha realizzato o partecipato a circa 150 iniziative in tantissime città italiane, rispondendo alla richiesta delle organizzazioni locali e inviando le proprie attiviste in presenza o in remoto. Diverse sono anche le iniziative realizzate nelle scuole. Le richieste di partecipazione continuano ad arrivare nonostante si sia registrato un calo di attenzione dei media: segno che la società civile invece è molto vitale e determinata a portare avanti la mobilitazione.
Sul piano istituzionale, CISDA è stata invitata alle seguenti audizioni parlamentari:

  • III Commissione/Comitato Permanente per i Diritti Umani nel mondo – Camera (21/09/2021). Indagine conoscitiva sull’impegno dell’italia nella comunità internazionale per la promozione e tutela dei diritti umani e contro le discriminazioni. Insieme a CISDA è stata invitata a partecipare RAWA.
  • III Commissione (Affari Esteri e Migrazioni) e IV Commissione (Difesa) – Senato della Repubblica (intervento internazionale in Afghanistan 09/11/2021). Insieme a CISDA, è stato invitato a partecipare il Prof A. Giustozzi del King’s College di Londra.

Obiettivo della Rete di Coalizione euro-afghana

L’obiettivo della rete di Coalizione è di sostenere la resistenza delle associazioni democratiche in Afghanistan agendo in modo coordinato fra tutte le organizzazioni aderenti alla Coalizione e in collaborazione con altre reti della società civile.

La Coalizione promuove campagne fondate su appelli specifici che partono dai punti della piattaforma come strumento per arrivare ai decisori politici in un mutuo sostegno alla promozione di campagne e mobilitazioni.

Cos’è la Coalizione? Piattaforma politica

Le forze laiche e democratiche afghane chiedono alla società civile occidentale due cose: sostenere l’autodeterminazione del popolo afghano poiché la democrazia non può essergli imposta dall’esterno, e creare una grande rete di sostegno alla loro resistenza in Europa. 

Scarica la Piattaforma politica completa della Coalizione per la democrazia e laicità in Eu e Afghanistan dove sono riportati nel dettaglio i principi intorno ai quali si è costituita la Coalizione.

Le campagne e le azioni promosse o sostenute dalla Coalizione euro-afghana

Essere parte attiva della rete euro-afghana di coalizione significa anche agire in un’ottica di sostegno reciproco per mandare a buon fine le campagne e le azioni promosse o adottate da Stand Up With Afghan Women! o lanciate da organizzazioni partner della nostra rete comune.

Di seguito tutte le campagne lanciate o sostenute dalla rete euro-afghana di coalizione. Vi invitiamo a consultarne i siti, a inviare la vostra adesione e a diffondere l’opportunità a tutti i vostri contatti.

Campagne attive

  • Campagna sociale multisoggetto a favore dei diritti delle donne

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  • Stop border violence

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Campagne concluse

Dossier Afghanistan

Tra le azioni promosse dalla Coalizione vi è inoltre la creazione di un Dossier di controinformazione che consiste in un Documento di partenza e un’area del sito CISDA aperta alle realtà della Coalizione e a singoli esperti che vorranno proporre un proprio contributo all’azione comune, facendone uno strumento di scrittura e azione collettiva con il contributo di tutte le realtà e di singoli.

Come aderire alla Coalizione euro-afghana

Se volete essere contattati per ulteriori informazioni, aderire direttamente alla Coalizione euro-afghana o ricevere informazioni sulle attività della Coalizione compilate il modulo sottostante:

    Denominazione organizzazione*

    Nome e Cognome referente*

    Telefono*

    Email*

    Città o area territoriale nella quale opera l'organizzazione*

    Sito web o social*

    Con l'invio di questi dati desidero (indicare il numero relativo a una delle 3 scelte sottostanti)*:

    1 - Aderire alla coalizione

    2 - Essere contattato per avere maggiori informazioni

    3 - Ricevere informazioni sulle campagne della Coalizione

    Accetto la Privacy Policy

    In base alle disponibilità di ogni organizzazione, chiediamo agli aderenti di:

    • partecipare alle assemblee nazionali di Coalizione online (in genere una convocazione ogni due/tre mesi). Le comunicazioni e i report degli incontri verranno inviati al/ai referenti che avete indicato nell’adesione. Saremo felici anche di poter proporre alle nostre compagne e ai nostri compagni afghani degli arricchimenti al testo della piattaforma politica, in un’ottica intersezionale: saranno quindi benvenuti eventuali contributi derivanti dalla vostre specificità di azione e dall’esperienza da voi maturata;
    • mobilitarvi con noi per sostenere le azioni della Coalizione;
    • aiutarci a raccogliere ulteriori adesioni sul vostro territorio;
    • utilizzare per iniziative ed eventi che possano essere collegati alla Coalizione euro-afghana il banner comune a tutta la nostra rete Stand Up With Afghan Women!  da inserire nel vostro materiale promozionale per un maggiore impatto mediatico e nei confronti dei decisori politici. L’immagine è stata realizzata da una delle giovanissime ospiti dell’orfanotrofio sostenuto da Cisda a Kabul, evacuato per questioni di sicurezza in occasione dell’avanzata talebana nell’agosto 2021. Porteremo con noi quest’immagine in tutto il percorso della Coalizione. Il banner può essere richiesto a rete@cisda.it

    Cisda si impegna a prendersi cura della rete di Coalizione continuando ad organizzare incontri nazionali online di condivisione fra tutte le realtà coinvolte. Tali incontri si estenderanno successivamente alle realtà europee ed extra-europee che vorranno aggregarsi.

    Cisda, è disponibile a partecipare (in presenza o in remoto), compatibilmente con la disponibilità delle sue attiviste che sono tutte volontarie, agli eventi che verranno organizzati localmente dalle organizzazioni aderenti per presentare la Coalizione e le campagne da essa promosse e sostenute.

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    Can the Taliban Stop Being Fundamentalists?

    Can the Taliban stop being fundamentalists? Can they restore freedom and rights to Afghan women and girls?

    This is what the UN and the international community hoped for when they organized the second meeting of the 25 richest countries in the world on February 18-19 in Doha to discuss Afghanistan’s issues, as they had done a year ago. However, this time they invited the Taliban directly to participate, aiming to initiate a process of rapprochement and “normalization” that could circumvent the seemingly insurmountable obstacle of recognizing their government.

    In essence, it was a realpolitik move, a de facto recognition without making it official, so that public opinion wouldn’t notice—or at least wouldn’t feel guilty.

    This strategy began in April 2023 when the UN Special Coordinator for Afghanistan, Feridun Sinirlioğlu, was tasked with conducting an “independent” assessment of the relations between the democratic world and the de facto government of Afghanistan. This assessment focused on the conditions of women and the Afghan population after two years of economic and humanitarian crises following the Taliban’s return to Kabul.

    It was verified that economic and political sanctions imposed on Afghanistan to pressure the Taliban and force them to ease their grip on women’s human rights had not shaken their fundamentalist ideology or their political solidity. Despite billions in aid received directly and indirectly from international cooperation and the richest states, the situation for the people had not significantly improved, while the Taliban had continued to consolidate thanks to international aid and good relations with regional states, ignoring the ritual complaints about international law violations. Even the United Nations began discussing a strategy shift.

    No longer was the idea to pressure the Taliban directly to conform their government to international norms of democracy, women’s rights, and inclusivity in exchange for recognition. Instead, a rapprochement strategy was devised, engaging in dialogue with the Taliban. It was thought that engagement with the West might persuade them of the benefits of democracy and the drawbacks of their sharia, or at least show them the advantage of becoming more flexible.

    From this new conviction arose the idea of inviting the Taliban to the second Doha meeting—despite protests from civil society and women’s democratic organizations, who were silenced with a token invitation to a few of them—but how were they chosen? it was asked—for a side meeting apart from the official ones.

    Here comes the twist: the Taliban not only did not show gratitude for this opportunity to finally join the international community of respectable states but outright snubbed the meeting, refusing to participate unless they were the sole representatives of the Afghan people—no women, no other forces—in essence demanding immediate recognition… and without offering anything in return.

    Thus, in the controversial issue that has been debated for months between the UN, which defends state interests, and organizations that defend women and human rights—whether it’s more beneficial to democracy to tie recognition of the de facto government to concessions of rights or to engage in dialogue in hopes of gradually convincing them to change—the Taliban themselves resolved the problem by not showing up, uninterested in dialogue unless on their terms.

    In the final press conference, Guterres put on a brave face, not showing disappointment at the refusal, applauding the agreement among all present, acknowledging that bilateral or regional meetings work better with the Taliban, and hoping they would be more open in the future. A perfunctory comment that masked the meeting’s failure.

    But why didn’t the Taliban accept the West’s extended hand, the chance to finally emerge from isolation?

    Firstly, because they are not isolated. They already “dialogue” with the US and the European Union and receive money from Western countries. Increasingly, they make economic deals and agreements with China, Russia, Iran, and regional and Middle Eastern countries, which have already, to varying degrees, recognized them de facto without ideological difficulties despite formal statements.

    But most importantly, even if they were genuinely isolated, the Taliban could not open to an inclusive government or negotiate women’s rights because their integralist and fundamentalist ideology does not allow for the exchange of ideas and mediation. They want all or nothing—the complete application of their religious and political vision or complete isolation, awaiting a victorious return.

    Therefore, it is illusory to believe that granting recognition and concessions could secure any rights for women. The Taliban’s positions are unshakeable because if they were not misogynistic, uncompromising, and fundamentalist, they would not be the Taliban.

    They can make economic agreements with anyone and accept conditions, but what distinguishes and characterizes them is their intransigence in personal life and ideology, the absolute enslavement of body and mind to those “Muslim” religious principles they consider the only possible truth. If they became inclusive and democratic, they would lose their identity and reason for being.

    Hostility towards women’s freedoms and rights is part of the identity of fundamentalist groups, which cannot give it up without losing their identity. This is why it is not feasible to negotiate with the Taliban; they must simply be defeated, and their ideology eradicated.

    Religious fanaticism, the conviction of being the custodians of God’s word, compensates the people for their sacrifices and persuades them to accept their economic and cultural poverty: they have nothing but feel privileged for their relationship with God.

    For this mentality to change, a cultural battle is necessary, one that combats the ignorance prevalent especially in the most remote and isolated areas and makes people aware of their dignity and rights against an apparently inevitable slavery.

    This is what Rawa activists do, working for years mainly with women, who are the most oppressed by patriarchal ideology, resisting every day in the hope of creating popular consensus capable of rebelling against the Taliban and overthrowing them.

    Just as democracy cannot be exported—as the US and allies pretended to do with the invasion of Afghanistan that ended with the Taliban’s return—because only the people can conquer it enduringly by acting in person, now it is only the people who can decide to end this oppressive regime.

    We must support democratic forces within the country. International support should go to them, to women, to groups and organizations working there to create a culture and resistance that deeply contrasts the Taliban ideology. This support should not only be in political actions directly aimed at this but, first and foremost, with concrete aid to the population to meet the primary needs made urgent by the humanitarian crisis. As long as humanitarian support does not go through the Taliban’s hands, who would divert it for other purposes, but through independent channels.

    Appello di HAWCA per il Nuristan sferzato da forti nevicate

    Nei giorni scorsi l’Afghanistan è stato sferzato da forti nevicate che hanno provocato frane e devastazione in 12 province, in un paese che è tra i più vulnerabili al mondo agli impatti dei cambiamenti climatici.

    HAWCA, organizzazione afghana sostenuta da CISDA,  ci segnala che nella provincia del Nuristan un numero considerevole di case sono state distrutte, provocando oltre 40 morti e numerosi feriti e lancia un appello per sostenere la popolazione colpita.

    Appello di HAWCA per il Nuristan

    A causa della forte nevicata le strade sono chiuse, rendendo impossibile l’accesso alle zone residenziali. Molti uomini, donne e bambini sono intrappolati e hanno urgente bisogno di assistenza umanitaria.

    Purtroppo, tra le persone colpite ci sono diverse famiglie di amici e colleghi con cui abbiamo collaborato in passato. Richiedono aiuto e sostegno immediati.

    La popolazione del Nuristan sopporta sempre inverni rigidi e ha una difficile situazione economica, con trasporti limitati. Le donne sopportano un peso lavorativo maggiore in questi settori senza adeguati diritti umani o compensi.

    In tali circostanze, richiedono maggiore attenzione e aiuti umanitari, inclusi cibo, acqua, vestiti, articoli per l’igiene, medicinali e assistenza medica. Le persone, soprattutto donne e bambini hanno bisogno di assistenza ed empatia. L’attuale governo non ha alleviato le difficoltà affrontate dalle donne, e quelle senza tutori maschi hanno difficoltà ad accedere alla limitata assistenza disponibile. Il team HAWCA richiede il tuo aiuto per aiutarci a fornire aiuto alla nostra gente, in particolare donne e bambini, e ad alleviare le loro infinite sofferenze.

    DONA ORA PER SOSTENERE LA POPOLAZIONE DEL NURISTAN

    COORDINAMENTO ITALIANO SOSTEGNO DONNE AFGHANE ETS (C.I.S.D.A)

    BANCA POPOLARE ETICA – Filiale di Milano

    IBAN: IT74Y0501801600000011136660

     

     

    I fondi italiani a Fawzia Koofi, corrotta ex vicepresidente del parlamento afghano

    “L’Italia contribuisce a dare voce alle donne afghane – insieme al Women’s Peace Humanitarian Fund (WPHF)”. Con questo titolo l’Agenzia italiana per la cooperazione allo Sviluppo il 19/11/2023 presenta orgogliosamente sul suo sito il finanziamento dell’”Italia nel 2022 con 4,5 milioni di euro specificamente miranti a sostenere le donne afghane”.

    In particolare il sostegno è diretto, viene detto, a “Fawzia Koofi, la prima vicepresidentessa del Parlamento afghano, nonché ex-Presidentessa della Commissione per le questioni femminili e i diritti umani, che dopo la caduta di Kabul nelle mani dei Talebani, ha continuato a lottare per promuovere i diritti delle donne, ragazze e bambine afghane. Nel giugno del 2022, grazie al supporto del Women’s Peace Humanitarian Fund (WPHF) , Fawzia Koofi si è recata a Ginevra per chiedere al Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite di tenere un dibattito sulla crisi dei diritti delle donne e delle ragazze in Afghanistan. …L’attività di denuncia di Fawzia Koofi non sarebbe probabilmente stata possibile senza il contributo del WPHF delle Nazioni Unite”…

    La convinzione sull’importanza di contrastare la violenza di genere, sostenendo direttamente la capacità delle donne locali, al fine di liberarle dalla violenza e contribuire ai processi di pace, ha portato l’Italia a sostenere anche l’azione globale del Women Peace Humanitarian Fund, con un contributo ulteriore di 2 milioni di euro nel 2022 e di 3 milioni di euro nel 2023 – per sostenere la voce delle donne laddove è più necessario e contribuire insieme al contrasto della violenza”.

    Ma che fine hanno fatto o faranno i soldi stanziati a Fawzia Koofi dalla Cooperazione internazionale italiana? In che modo verranno utilizzati per sostenere le donne afghane?

    Per rispondere a questa domanda abbiamo cercato di seguire le tracce dei soldi erogati in questi giorni dall’Italia.

    Il percorso è stato abbastanza facile perché breve e agevole, tutto subito indicato nelle finalità stesse del Fondo internazionale, il WPHF che ha elargito i finanziamenti e che l’Italia ha contribuito a foraggiare. Sì, perché in realtà l’Italia non ha dato i soldi direttamente a Fawzia Koofi ma ha semplicemente contribuito al finanziamento del WPHF con 4,5 di euro.

    Il Fondo internazionale spiega nel suo sito a chi sono assegnati i soldi. La parte che ci interessa è dichiaratamente finita in mano a Fawzia Koofi attraverso il sostegno al “Programma 1000 donne leader”, la “Finestra di finanziamento WPHF per i WHRD” cioè i difensori dei diritti umani delle donne, perché il suo scopo è proprio quello di “fornire, in collaborazione con ONG, finanziamenti rapidi e flessibili e supporto logistico diretto ai WHRD provenienti o che lavorano in aree diverse colpite dai conflitti, … [donne o LGBTI  che] individualmente o in associazione con altri, formalmente o informalmente, agiscono per promuovere o proteggere i diritti umani, compresi i diritti delle donne, in modo pacifico a livello locale, nazionale, regionale e internazionale”.

    Il sostegno, è specificato, arriva attraverso due flussi:

    • Safety net (rete di protezione) in collaborazione con ONG partner con finanziamenti fino a 10.000 dollari per coprire costi urgenti, come spese di sostentamento e protezione a breve termine, comprese attrezzature (computer, telecamere di sicurezza), Internet, cura di sé, assistenza legale e trasferimento o ritorno a casa
    • supporto di advocacy, per organizzare e coprire le spese logistiche (trasporto, tasse per il visto, alloggio, indennità giornaliera, accessibilità per I DDU con disabilità) per partecipare a un incontro, evento o processo decisionale a livello nazionale, regionale o internazionale che contribuisce a promuovere i diritti umani e la pace.

    Con questa Finestra, viene spiegato, Fawzia Koofi si è recata a Ginevra nel giugno 2022  per chiedere al Consiglio per i diritti umani di tenere un dibattito urgente. Tre mesi dopo ha anche ricevuto assistenza di viaggio per informare il Consiglio delle Nazioni Unite a New York sulla situazione in Afghanistan.

    Evidentemente l’Onu, gli Stati Uniti, i governi europei e occidentali puntano fortemente su di lei come leader in un futuro Afghanistan normalizzato. Del resto il WPHF ha “un ambizioso obiettivo: sostenere “1000 donne leader in 1000 comunità colpite dalla crisi in tutto il mondo”. E come dice la stessa Agenzia italiana per la Cooperazione allo Sviluppo (AICS) nell’articolo, è grazie al supporto del WPHF che Fawzia Koofi ha potuto avere il ruolo e l’importanza internazionale che ha….

    C’è però un grosso stacco tra i 10.000 dollari regalati ufficialmente a Fawzia Koofi e i 4,5 milioni di euro dati dall’Italia “specificatamente mirati a sostenere le donne afghane”.

    Per chi, quali donne, quali progetti sono stati dati? E torniamo così al problema di partenza: come vengono dispensati e controllati i soldi italiani che vengono distribuiti?

    Nel sito della Cooperazione italiana non c’è nessuna risposta.

    Chi è Fawzia Koofi?

    Ma torniamo a Fawzia Kofi. Chi è davvero questa donna che gode di così tanta fiducia delle istituzioni internazionali? Si presenta e viene presentata ovunque come una difensora dei diritti delle donne afghane, ma è stata ed è davvero tale?

    Wikipedia riferisce che ha iniziato la sua carriera politica nel 2001, dopo la caduta dei talebani, lavorando con l’UNICEF. Dal 2005 al 15 agosto 2021 è stata membro del Parlamento (Wolesi Jirga) per il distretto di Badakhshan e prima donna Vicepresidente dell’Assemblea nazionale. Nel 2020 ha fatto parte della squadra di 21 membri che avrebbe dovuto rappresentare il governo afghano nei negoziati di pace con i talebani. Di lei dice anche che considera una priorità la difesa dei diritti delle donne e dei bambini, che ha sostenuto in Afghanistan con varie iniziative.

    Ma ad approfondire la ricerca si scopre che nel 2015 l’Associazione Rivoluzionaria delle Donne dell’Afghanistan, RAWA, aveva pubblicato sul suo sito un articolo che l’attacca violentemente svelando su di lei e la sua famiglia una serie di fatti che ce fanno conoscere come un personaggio politico molto noto e rilevante in Afghanistan, ma per gli abusi e la corruzione di cui si è resa responsabile!

    L’articolo racconta di come la sua famiglia si sia sempre interessata di politica, pur non avendo mai aderito a un partito o una parte specifica, sempre pronti ad appoggiare i politici al potere in quel momento che potevano agevolarli nei loro affari. Di come Fawzia Koofi e sua sorella abbiano sempre usato il loro potere politico per tirar fuori dai guai i fratelli spesso perseguiti per traffico di droga, stupri ecc. Di come lei stessa abbia sempre approfittato della sua posizione per trattenere per sè o dirottare sui propri affari una buona parte dei finanziamenti occidentali che riusciva ad ottenere in abbondanza per costruire scuole o case per i più bisognosi. Di come si sia spesso nascosta dietro la difesa dei diritti delle donne e dei bambini per dirottare i finanziamenti forniti attraverso le ONG… Il tutto denunciato dagli abitanti della remota regione di cui era rappresentante parlamentare e corredato di foto e documenti.

    Questa denuncia era stata a suo tempo ripresa dal Cisda per avvisare con una lettera il Sindaco di Torino Fassino e la sua Giunta, che avevano sovvenzionato attraverso fondi della Cooperazione italiana l’associazione afghana a sostegno dei diritti delle donne SSSPO di cui Fawzia Koofi era referente, dell’inopportunità di questa azione di finanziamento. Ma nessuna risposta ci era stata data.

    Anche guardando a tempi più recenti, non dobbiamo dimenticare che Fawzia Koofi negli ultimi anni del governo repubblicano era una parlamentare e vice presidente dell’Assemblea nazionale e quindi è stata responsabile, tanto quanto gli uomini, di aver sostenuto quel governo corrotto e incapace, voluto e sostenuto dagli Usa solo perché disponibile a non opporsi alla sua occupazione del paese, costituito da signori della guerra che spesso dovevano la loro notorietà e potenza non alle capacità politiche ma alle efferatezze compiute. E il ruolo puramente marginale e formale delle donne al suo interno non sminuisce la responsabilità di quelle che si sono prestate ad avallarlo per tornaconto personale o famigliare.

    Fawzia Koofi si è anche prestata ad avallare gli accordi degli Usa con i talebani nel 2020 per consentire il loro ritorno al potere, partecipando direttamente alle trattative di Doha e così fornendo una patina di democraticità a una manovra che è ricaduta tutta e pesantissimamente sulle spalle del popolo afghano, mentre i governanti di allora fuggivano dal paese come ha fatto lei.

    Quindi il suo attivismo di adesso fa più pensare a una ex leader politica interessata a rinnovare il ruolo perso con l’esilio che a fornire aiuti concreti alle donne e al popolo che soffrono in Afghanistan.

    Ma allora perché, nonostante il poco entusiasmante back ground che la caratterizza e che in patria l’ha resa invisa a molte e a molti, ora è ricercata da tutte le istituzioni internazionali e portata ad esempio come rappresentante e portavoce della libertà delle donne afghane, invece di essere messa da parte come tutti gli altri politici afghani, solleciti servitori del governo repubblicano voluto e sostenuto dagli USA ma poi gettati via una volta che gli Usa hanno passato il potere in mano ai talebani?

    Perché un personaggio simile – donna spendibile come un successo dell’Occidente, esperta di politica, disposta a tutto e capace di adattarsi agli interessi politici di chi la sostiene e a cavalcare l’obiettivo-simbolo della difesa dei diritti delle donne afghane – fa comodo in questo momento alla politica occidentale sia per tornare a sbandierare la democraticità dell’Occidente messa in crisi dalla lunga fallita guerra in Afghanistan e dalla fuga di Usa e alleati, sia per avere a disposizione donne manovrabili nel momento in cui i talebani dovessero, se non cadere, almeno accettare una qualche forma di apertura al femminile. Così l’opinione pubblica può credere che sia possibile l’apertura ai diritti delle donne anche con i talebani al potere, apertura che giustifichi l’avvio di trattative per l’auspicato reintegro dell’Afghanistan nei giochi economici e geopolitici mondiali pur con i talebani al potere.

    Le istituzioni internazionali, con le loro lunghe mani costituite dalle ONG e da tutti gli organismi da loro istituiti e foraggiati, dimostrano così di non avere a cuore i diritti delle donne afghane reali, quelle che vivono in Afghanistan e lottano e resistono quotidianamente contro i talebani e i loro provvedimenti restrittivi, repressivi, fondamentalisti e disumani.

    Quello che interessa loro sono le donne che fanno parte della classe che conta, la classe dirigente: preparare e avere a disposizione una classe dirigente che condivida gli interessi economici e politici occidentali, così da avere degli interlocutori che li realizzino.

    La ricaduta di queste politiche sulle popolazioni – povertà, fame, schiacciamento dei diritti… – non è affar loro, che se la vedano i loro governanti.

    Fotografia: Di Chatham House – Fawzia Koofi MP, Afghanistan, CC BY 2.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=21425457