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Autore: Patrizia Fabbri

“Sono i fucili ad avere potere nel mio Paese, l’Afghanistan. Noi resistiamo, oltre il silenzio”

È passato molto tempo dall’ultima volta che ho visto Shakiba. Tempo che ha lasciato tracce sul suo volto che, ancora, anche qui, deve nascondere per proteggere la sua vita. Un peso che si intravede dietro le sue parole sicure e appassionate.

La ritrovo, come sempre, coraggiosa, tenace e fragile. Fa parte dell’Associazione rivoluzionaria delle donne dell’Afghanistan (Revolutionary association of the women of Afghanistan, Rawa) fondata nel 1977 da Meena Keshwar Kamal, uccisa nel 1987. L’associazione, da sempre clandestina, combatte per i diritti delle donne, la giustizia sociale e la democrazia e continua a portare avanti, anche sotto i Talebani, progetti di istruzione e scuole segrete per ragazze, assistenza medica, formazione professionale, informazione, sostegno alimentare. 

La vita di una militante di Rawa è un impegno totale: continuare il proprio lavoro, proteggere dalla furia talebana se stesse, la propria famiglia, le proprie compagne e le donne coinvolte nei progetti.

Che cosa significa adesso, Shakiba, sotto il regime talebano, essere una militante di Rawa?
Shakiba: È già molto difficile essere donna. Ogni giorno ci sono nuovi divieti, nuove regole per impedirci di vivere. È molto duro, specialmente per le ragazze che hanno perso il loro futuro e la possibilità di imparare. Le donne sono imprigionate nelle case e nella propria mente, non possono andare nemmeno in un parco a respirare un po’ d’aria. Ma per noi attiviste di Rawa la vita è ancora più complicata. Non possiamo stare chiuse tra le mura domestiche, impegnate solo a sopravvivere nel nulla, dobbiamo continuare a portare avanti i nostri progetti. Siamo tornati all’età della pietra e dobbiamo ricominciare da zero. Ma siamo sempre a rischio. 

Come vi proteggete?
Shakiba: Quando usciamo di casa mettiamo l’hijab con la mascherina e anche gli occhiali scuri per non farci riconoscere. Non parliamo con nessuno fuori, nemmeno quando siamo in macchina. Cambiamo casa spesso. Per la città ci muoviamo da sole ma se dobbiamo andare fuori allora ci vuole il mahram (un accompagnatore di sesso maschile, ndr), anche più di uno. Sarebbe impossibile senza. Non facciamo mai la stessa strada né usciamo alla stessa ora. Controlliamo continuamente che nessuno ci segua, devi sempre pensare a quello che potrebbe succedere. 

Una condizione psicologica molto faticosa.
Shakiba: Sì è vero, la paura è sempre con noi ed è così che deve essere, bisogna stare all’erta. Per noi, per le compagne, per la nostra famiglia. 

Come vi spostate quando andate fuori città?
Shakiba: Affittiamo una macchina. Non possiamo usare le nostre, potrebbero seguirci fino a casa. Nei primi tempi c’erano molti posti di blocco, controllavano tutto, i cellulari, le macchine. Entravano anche nelle case, cercavano soprattutto armi. Ora meno, ma quando usciamo non portiamo mai il nostro cellulare, né i documenti.

Non è una novità per Rawa.
Shakiba: Infatti. Continuiamo a cercare modi per poter lavorare segretamente e non farci riconoscere. Sono i sistemi che Rawa ha sempre usato fin dalla sua nascita. Non ci mostriamo mai, nessuno sa chi fa parte di Rawa. Usiamo nomi falsi in modo da non poter essere mai identificate. Il nostro volto non deve mai essere registrato dalle telecamere. 

Dove sono queste telecamere? 
Shakiba: Dappertutto. In tutte le strade e nelle case. Lo hanno ordinato appena arrivati. Ogni immobile deve avere la sua, a spese dei condomini. La guardia, una specie di portiere, deve badare a tenerle sempre accese. Se vogliono sapere qualcosa è obbligato a mostragli i video. Per la strada le installano loro. Per questo dobbiamo essere assolutamente irriconoscibili. C’è di buono che spesso manca l’elettricità.

Quando andate nelle province, a seguire i vostri progetti, come siete accolte?
Shakiba: Nei villaggi i Talebani sono meno pressanti che nelle città. La gente ci accoglie a braccia aperte perché abbiamo progetti di scuola, di salute, di sostegno alimentare. Li conosciamo e ci conoscono. La gente nei villaggi ha un buon cuore. 

I Talebani hanno sostegno nelle province?
Shakiba: Non tutti la pensano allo stesso modo. I Talebani hanno, anche lì, i loro follower. Ma nei tre anni passati si è diffuso molto odio tra la popolazione verso di loro. Le persone hanno sofferto tanto, anche gli uomini. I militari dell’esercito sono stati licenziati e perseguitati, negli uffici pubblici hanno messo la loro gente, moltissimi hanno perso il lavoro.

L’odio per i Talebani potrebbe un giorno diventare una resistenza organizzata per combatterli?
Shakiba: In questo momento la povertà è enorme. Le persone non riescono nemmeno a pensare al futuro, il loro unico problema è quello di nutrire i propri figli, adesso. Ma forse, quando davvero non ne potranno più di questa vita di stenti, qualcosa faranno. 

Quindi è possibile, nel futuro?
Shakiba: Forse, ma ci vorrà molto, molto tempo. Per ora, uscire allo scoperto è molto pericoloso. I Talebani sparano sui manifestanti. Se sono donne, sparano in alto per spaventarle, se sono uomini li abbattono come animali. Quando te li trovi davanti con i fucili spianati e non hai nulla nelle mani è davvero difficile resistere. Sono i fucili ad avere potere nel mio Paese. 

Vedi altri ostacoli che impediscono il formarsi di un’opposizione ai Talebani.
Shakiba: Abbiamo bisogno di istruzione e di consapevolezza politica, di capire che cosa sta succedendo, di farsi delle domande. Oggi non è così. E sarà sempre peggio. Manca una leadership, un partito forte con un progetto potente che sia un punto di riferimento. Le persone istruite, gli intellettuali impegnati, i professori, i politici in gamba hanno tutti lasciato l’Afghanistan e non c’è più nessuna istruzione per le persone che possa formare dei futuri leader.

Infatti l’istruzione è un punto chiave del vostro lavoro.
Shakiba: Sì, per noi l’istruzione e la consapevolezza politica sono fondamentali, dobbiamo dare strumenti alle persone. Dare a qualunque donna, anche se analfabeta, la possibilità di capire che cosa le sta succedendo. Anche agli uomini. Dobbiamo salvare i giovani dall’educazione fondamentalista delle madrase (le scuole islamiche, ndr). Gli fanno il lavaggio del cervello. Non possiamo ritrovarci domani con un Paese fatto solo di Talebani. Sarebbe una catastrofe.

Che tracce ha lasciato il vostro lavoro di tutti questi anni?
Shakiba: Tracce profonde. Abbiamo educato e aiutato centinaia e centinaia di persone nel corso degli anni, dal Pakistan all’Afghanistan. Sono persone che, anche se non fanno politica, e hanno scelto altre vite, sono delle brave persone, affidabili. Sappiamo che vogliono fare qualcosa per il loro Paese, hanno una buona mente e buoni pensieri. Questo li aiuterà in questo tempo selvaggio.

Da dove viene questa ossessione dei Talebani di controllare le donne?
Shakiba: Se tu fai una qualsiasi operazione sulle donne, che sono le radici di tutta la società, lo fai su tutta la famiglia. Le donne trasmettono quello che sanno. Se tu dai istruzione a una donna la dai a tutta la famiglia e se le tieni nell’ignoranza tutta la famiglia sarà ignorante. Una popolazione ignorante, spaventata e senza mezzi per capire, si può controllare meglio. Le donne devono stare fuori dalla società così tutta la società futura sarà sottomessa.

Hanno paura delle donne?
Shakiba: Sì, certo, molta, della loro resistenza, perché sanno di non riuscire a controllarle. Pensano che se le donne fossero istruite toglierebbero loro il potere o parte di esso. Sanno che se le donne decidono di fare qualcosa non si fermano davanti a niente. E possono cambiare tutto. Si sentono minacciati e le schiacciano.

Dei crimini dei Talebani non si riesce a sapere molto.
Shakiba: C’è una fortissima repressione della stampa e controllo sui social. Per questo una delle nostre attività è quella di raccogliere testimonianze sui loro crimini e sulla depressione e la sofferenza delle donne. Abbiamo dei report da ogni provincia afghana, che ci mandano le nostre colleghe. Se un giorno riusciremo a portare i Talebani davanti a un tribunale dovremo avere tutte le prove documentate.

Di quali crimini parliamo?
Shakiba: Assassinii di donne, di gente comune, uccisioni di militari, persone hazara, violenza sessuale nelle prigioni, lapidazioni, fustigazioni pubbliche. O altre cose come tagliare una mano, appendere le persone nelle strade, come nel loro primo governo. Allora le attiviste di Rawa andavano allo stadio, dove venivano punite le donne, con queste piccole telecamere che nascondevano nei vestiti e filmavano quello che succedeva. I video poi sono arrivati ovunque. Ora ci sono i telefoni, la possibilità di fare foto, è più facile sapere. Specialmente nelle province, la gente è disposta a raccontare. Ma, naturalmente, le immagini sono tracce pericolose che devono restare segrete.

Anche una guerra tecnologica con i Talebani?
Shakiba: Anche, sì. Sono diventati bravi, hanno istruttori pakistani. Ma noi siamo più brave di loro e usiamo sistemi forti che ci aiutano a resistere. 

Organizzate ancora manifestazioni?
Shakiba: Al momento abbiamo scelto di non farlo. È troppo pericoloso. Molte donne sono state arrestate, hanno subito torture e alcune sono sparite. Noi siamo preparate al peggio ma abbiamo la responsabilità di tutte le altre, della nostra associazione.

L’inferno afghano è sotto gli occhi di tutti ma nessuna nazione va oltre qualche parola di disapprovazione. Perché li lasciano fare?
Shakiba: Per molto tempo gli americani hanno trattato dietro le quinte e alla fine hanno dato il Paese in mano ai più barbari tra i fondamentalisti. La presa di Kabul dei Talebani è stata una farsa, ai soldati era stato ordinato di lasciarli passare e gli aerei per i membri del governo erano già pronti. Gli Stati Uniti hanno sempre sostenuto i gruppi fondamentalisti e nessuno contrasta il loro progetto. Tutti ne beneficiano. Se avessimo una democrazia stabile, laica e progressista, come è nei nostri sogni, non permetterebbe agli Stati esteri di interferire con gli affari interni del Paese. Con i fondamentalisti invece, per soldi e armi si venderebbero anche la madre. È un contratto facile. Loro faranno qualsiasi cosa per te, per il tuo denaro, ti venderanno le miniere, produrranno oppio per te, ti daranno libertà di movimento sulle loro strade, in modo che tu possa controllare gli altri Paesi come Iran, Pakistan, Russia. E nelle guerre continue, nella precarietà dei popoli, si venderanno sempre più armi e si faranno affari giganteschi. Nessuno quindi ha interesse a toglierli di lì dopo che ce li hanno messi.  

La società civile dell’Occidente che cosa dovrebbe fare?
Shakiba: Dovete agire contro le politiche dei vostri governi, è la sola strada per cambiare qualcosa in Afghanistan. Fate pressione sui leader, perché non seguano le politiche sbagliate degli Usa che avete appoggiato per tanti anni. L’Occidente deve smetterla di sostenere i gruppi fondamentalisti, deve fermare questo gioco che sta distruggendo anche le radici del mio Paese. Senza sostegno i Talebani non sarebbero più in grado di gestire il Paese e crollerebbero. Non ci può essere vittoria finché questa gente verrà sostenuta e finanziata 

Su quale e quanto sostegno economico possono contare i Talebani?
Shakiba: I Talebani dicono apertamente che ricevono dagli americani 40 milioni di dollari ogni settimana, per il mantenimento dell’apparato statale. Se c’è una cosa che non manca loro sono proprio i soldi. Se una Ong vuole fare un progetto deve registrarsi e pagare delle consistenti tasse al governo. I Talebani hanno proprie Ong che sono finanziate dall’Onu. E poi hanno i proventi delle tasse, delle concessioni di miniere e altri sfruttamenti del nostro territorio. Molte nazioni hanno fatto accordi con loro: Cina soprattutto, ma anche Kazakistan, Iran e Pakistan che prende il nostro carbone. Gli accordi per affari promettenti portano a una pericolosa normalizzazione, adesso in atto, che è la base per un futuro riconoscimento del governo talebano. La schiavitù delle donne è un effetto collaterale e trascurabile. 

I Talebani hanno rivali sul territorio?
Shakiba: Ci sono diversi gruppi terroristici ma non sono una minaccia per i Talebani. Hanno il controllo dappertutto ormai. E l’Afghanistan sta diventando un “centro di servizi terroristici”, alimentati dall’Occidente. Si addestrano, raccolgono milizie, si armano. L’idea è questa: fai crescere diversi burattini, per poi poterli usare contro i tuoi rivali. Isis-K, ad esempio, è usata come minaccia contro la Russia. Gli americani si tengono buoni anche i warlords del governo precedente. Quando hanno visto che i warlords non erano più affidabili, si rivolgevano ad altri Stati, russi, pakistani, cinesi e si combattevano tra loro, hanno puntato sui Talebani che sono più stabili ma i warlords sono in attesa. Non si sa mai. 

Qual è il messaggio più forte per la vostra gente?
Shakiba: Noi siamo qui, siamo dietro di voi e non dovete perdere la speranza. Non siete soli e non vogliamo andarcene. Troppa gente è scappata in cerca di un’altra vita, ma noi restiamo al vostro fianco.  

A queste parole Shakiba si commuove e noi con lei.

Il crimine dell’apartheid di genere come crimine contro l’umanità

L’uguaglianza di genere è, prima di tutto, un diritto umano. Implica che donne, uomini, ragazzi e ragazze di tutte le classi e razze partecipino come pari e abbiano pari valore.

Da un punto di vista legale, è definita come il principio secondo cui tutte le persone, indipendentemente dal loro genere, devono avere gli stessi diritti, doveri, opportunità e accesso alle risorse.

Questo principio è sancito in varie convenzioni internazionali, tra cui:

  • La Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4/11/1950, che all’art 14 prevede il divieto di discriminazione anche fondata sul sesso , sulla “ nascita o ogni altra condizione” e prevede che il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella convenzione debbano essere garantiti ad ogni persona senza distinzione alcuna.
  • La Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (CEDAW), adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1979. La CEDAW è considerata uno dei trattati fondamentali per la protezione e la promozione dei diritti delle donne. L’articolo 1 definisce “discriminazione contro le donne” come qualsiasi distinzione, esclusione o restrizione basata sul sesso che abbia l’effetto o lo scopo di compromettere o annullare il riconoscimento, il godimento o l’esercizio da parte delle donne, indipendentemente dal loro stato civile, sulla base dell’uguaglianza con gli uomini, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale, culturale, civile o in qualsiasi altro campo.
  • La Convenzione sulla parità di retribuzione (OIL – Convenzione n. 100), adottata dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) nel 1951, che richiede agli Stati membri di garantire la parità di retribuzione per un lavoro di pari valore, senza discriminazioni basate sul genere.

Le convenzioni internazionali attribuiscono agli Stati una chiara responsabilità non solo di legiferare a favore dell’uguaglianza di genere, ma anche di adottare tutte le misure necessarie per eliminare la discriminazione di fatto. Ciò include l’accesso alla giustizia, la disponibilità di rimedi efficaci e la possibilità di ottenere adeguate riparazioni e garanzie di non ripetizione.

Perché è necessaria la codificazione del crimine di apartheid di genere?

Il concetto di “apartheid di genere” non è ancora codificato nel diritto internazionale come crimine e il riconoscimento legale di tale crimine affronterà quella che è una lacuna importante nel diritto internazionale.

L’importanza di riconoscere e definire “apartheid di genere” come uno specifico crimine contro l’umanità, distinto dal crimine di apartheid sancito nello Statuto di Roma, risiede in diverse considerazioni fondamentali relative alla protezione dei diritti umani, alla giustizia internazionale e alla lotta contro la discriminazione sistematica.

Il crimine di apartheid, come definito nello Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale (articolo 7 (1) (j)), si concentra sulla discriminazione razziale. Tuttavia, le dinamiche della discriminazione di genere hanno caratteristiche uniche che richiedono un’attenzione legale specifica. Le violazioni dei diritti umani basate sul genere, come la violenza sessuale, lo stupro, la negazione dei diritti riproduttivi e la segregazione di genere, non sono sempre adeguatamente affrontate sotto la semplice nozione di apartheid razziale.

Un crimine di “apartheid di genere” riconoscerebbe l’entità e la gravità della discriminazione di genere, affrontando specificamente le violazioni sistematiche che colpiscono ragazze, donne e individui non conformi al genere, in particolare le persone LGBTQI+.

Incorporare “apartheid di genere” nel corpus dei crimini contro l’umanità rafforzerebbe il quadro giuridico internazionale, consentendo indagini e azioni penali più efficaci per i crimini basati sulla discriminazione di genere. Aumenterà gli sforzi per combattere i regimi istituzionalizzati di oppressione e dominio sistematici imposti per motivi di genere. In effetti, il riconoscimento legale riconoscerebbe il tipo unico di vittimizzazione e amplierebbe le opportunità per le vittime di cercare giustizia e per le istituzioni internazionali di intraprendere azioni contro Stati, governi o entità che utilizzano e perpetuano tali sistemi di oppressione. Inoltre, creerebbe un precedente legale che potrebbe essere utilizzato per costruire giurisprudenza e fornire mezzi per affrontare le nuove forme di discriminazione di genere emergenti nel mondo contemporaneo.

Ad esempio, in Afghanistan il contesto storico della discriminazione di genere e la continuazione delle pratiche oppressive sotto i regimi recenti illustrano come le azioni attuali facciano parte di un sistema prolungato di apartheid di genere.

Definizione proposta per il crimine di apartheid di genere come crimine contro l’umanità

“Apartheid di genere significa qualsiasi atto, politica, pratica o omissione che, in modo sistematico e istituzionalizzato, è commesso da un individuo, uno stato, un’organizzazione, un’entità o un gruppo, con lo scopo o l’effetto di stabilire, mantenere o perpetuare il dominio di un genere sull’altro, attraverso la segregazione istituzionalizzata, l’oppressione o la discriminazione in ambito politico, economico, sociale, culturale, educativo, professionale o in qualsiasi altro ambito della vita pubblica e privata”.

Questi atti includono, ma non sono limitati a:

  • a) L’emanazione di leggi o politiche che negano, limitano o riducono i diritti fondamentali degli individui in base al loro genere;
  • b) L’uso di violenza fisica o psicologica, detenzione arbitraria o qualsiasi altra forma di coercizione per imporre il controllo di un genere sull’altro;
  • c) La segregazione sistematica e la limitazione dell’accesso alle risorse, all’istruzione, all’occupazione o alla partecipazione politica in base al genere;
  • d) La promozione di ideologie o pratiche che giustificano o legittimano il dominio e/o l’oppressione di un genere sull’altro”.

Spiegazione della proposta

La definizione di apartheid di genere nella formula proposta (atti, politiche o pratiche volte a perpetuare il dominio di un genere sull’altro) è coerente con la comprensione giuridica dell’apartheid come definita dalla Convenzione internazionale sulla repressione e la punizione del crimine di apartheid (1973) e ampliata nello Statuto di Roma (1998), che include il crimine di apartheid come crimine contro l’umanità. Questi quadri giuridici definiscono l’apartheid come dominio istituzionalizzato e oppressione sistematica, in genere basata sulla razza. La proposta di ampliamento basato sul genere di questo principio è giustificata, poiché la discriminazione di genere è stata storicamente una forma di oppressione pervasiva e istituzionalizzata.

Gli elementi chiave di questa definizione sono la segregazione istituzionalizzata, l’oppressione e la discriminazione, che sono state caratteristiche fondamentali dei regimi storici di apartheid. In questo contesto, l’apartheid di genere riflette politiche che escludono sistematicamente gli individui in base al genere dalla piena partecipazione alla vita sociale, economica e politica, rafforzando le strutture di dominio. Gli atti elencati, come le leggi discriminatorie, l’uso della violenza per imporre il controllo e la segregazione sistematica nell’accesso alle risorse, corrispondono a pratiche simili riconosciute nei sistemi di apartheid razziale. Ognuna di queste pratiche può essere osservata in regimi di discriminazione di genere, sia storicamente che attualmente, come il regime talebano in Afghanistan, dove alle donne è stato negato l’accesso all’istruzione, all’occupazione e alla libertà di movimento. Tali azioni, quando commesse in modo sistematico e istituzionalizzato, presentano sorprendenti somiglianze con le pratiche dell’apartheid. La proposta sottolinea che tali atti possono essere commessi non solo da attori statali, ma anche da attori non statali, come gruppi organizzati, il che riflette un crescente riconoscimento nel diritto internazionale del ruolo che gli attori non statali possono svolgere nel commettere e perpetuare gravi violazioni dei diritti umani. L’inclusione delle omissioni come forma di condotta criminale, in cui le autorità non agiscono per prevenire o punire la discriminazione o la violenza di genere, amplia ulteriormente l’ambito della responsabilità. Ciò è in linea con la giurisprudenza di casi come Opuz contro Turchia (2009) e Talpis contro Italia (2017) , in cui la Corte europea dei diritti dell’uomo ha stabilito che l’incapacità di uno Stato di proteggere le donne dalla violenza domestica violava i diritti umani.

Il concetto di apartheid di genere può essere situato nel quadro più ampio dell’intersezionalità, che esamina come varie forme di oppressione, come razza, classe e genere, interagiscono e si aggravano a vicenda. Gli studiosi del diritto come Catharine MacKinnon hanno a lungo sostenuto che l’oppressione delle donne è sistematica e dovrebbe essere intesa come una forma di subordinazione politica simile all’apartheid. In questo senso, la formula proposta si basa sulla teoria giuridica femminista, che vede la discriminazione di genere come una forma di stratificazione sociale e legale.

Inoltre, la proposta è in linea con le tendenze legali internazionali verso l’ampliamento della portata dei crimini contro l’umanità per includere i crimini di genere. Ad esempio, il Tribunale penale internazionale per il Ruanda (ICTR) e il Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia (ICTY) hanno riconosciuto la violenza sessuale come crimine contro l’umanità e atto di genocidio quando viene sistematicamente utilizzata come strumento di oppressione. Questi precedenti supportano l’inclusione della discriminazione sistematica basata sul genere come forma di apartheid.

1. SOGGETTI DEL REATO

  • Soggetto attivo

L’inclusione sia di individui che di entità collettive, come Stati e gruppi organizzati, è in linea con gli sviluppi del diritto penale internazionale, che riconosce la responsabilità degli individui per crimini contro l’umanità, riconoscendo anche il ruolo che istituzioni o entità possono svolgere nel consentire e far rispettare tali crimini. Questo duplice riconoscimento consente la responsabilità sia a livello individuale che sistematico. Nell’apartheid di genere, sia i regimi politici che i gruppi culturali o religiosi possono esercitare un controllo significativo sulle norme sociali e questa proposta consente un approccio sfumato per perseguire i crimini commessi da tali entità.

  • Soggetto passivo

La definizione di soggetto passivo come qualsiasi gruppo di persone identificate dal loro genere, comprese le donne e gli individui non conformi al genere, riflette la moderna comprensione del genere come costrutto sociale. Ciò è particolarmente importante in quanto amplia le protezioni oltre il tradizionale binario di uomini e donne, affrontando la discriminazione e l’oppressione affrontate dalla comunità LGBTQI+, che è stata sistematicamente oppressa in vari contesti, dalle leggi restrittive sull’espressione di genere agli attacchi violenti. Il riconoscimento della costruzione sociale del genere in questi termini implica la necessaria abrogazione dell’art. 7 co 3 del trattato di Roma.

2. CONDOTTA

La condotta si riferisce ad azioni, politiche, pratiche o omissioni deliberate che istituzionalizzano e perpetuano la discriminazione e l’oppressione sistematiche basate sul genere. La condotta dovrebbe mirare a creare, mantenere o rafforzare un sistema di dominio e/o oppressione di un genere sull’altro.

a) Elemento della condotta

La condotta dovrebbe essere parte di un sistema continuo di discriminazione e/o oppressione. Tale condotta può manifestarsi attraverso i seguenti atti:

1. Leggi e politiche discriminatorie:

  • Leggi e decreti che limitano i diritti civili e politici, come negare alle donne o ad altri gruppi di genere il diritto di voto, candidarsi o partecipare alla vita pubblica. Ad esempio, leggi che impediscono alle donne o agli individui non conformi al genere di ricoprire determinate posizioni o di accedere a professioni specifiche.
  • Politiche che limitano l’accesso all’istruzione e alla formazione, comprese pratiche educative che discriminano in base al genere, impedendo alle donne o agli individui non conformi al genere di accedere all’istruzione o a specifici campi di studio. o Leggi che impongono codici di abbigliamento o norme comportamentali basate sul genere, come l’obbligo per le donne di coprire parti del corpo o il divieto di guidare o viaggiare senza un accompagnatore maschile.

L’adozione di leggi e politiche discriminatorie sono chiari esempi di forme sistematiche e istituzionalizzate di apartheid di genere, volte a controllare, segregare e opprimere gli individui in base al genere. Queste leggi e politiche spesso riflettono norme e valori sociali radicati, rafforzando ulteriormente le disuguaglianze di genere sia nella vita pubblica che in quella privata.

2. Pratiche economiche e lavorative discriminatorie:

  • Pratiche che limitano l’accesso all’occupazione e alle risorse economiche, come divari salariali tra i sessi per lavori di pari valore o l’esclusione sistematica di donne o individui non conformi al genere da settori specifici.
  • Leggi e pratiche che impediscono alle donne o ad altri gruppi di genere di possedere, ereditare o controllare proprietà e risorse economiche.
  • Segregazione del lavoro basata sul genere, che relega un genere a lavori meno retribuiti o meno rispettati.

3. Controllo sociale e culturale:

  • Applicazione dei ruoli di genere tradizionali, limitazione  della autonomia e autodeterminazione le donne o altri gruppi di genere a ruoli domestici, ciò potrebbe includere la pressione sociale per il matrimonio forzato o la maternità.
  • Violenza di genere come strumento di controllo, come tolleranza o promozione della violenza domestica, mutilazione genitale femminile o “correzione” violenta di individui non conformi al genere.
    • La violenza di genere è un potente strumento utilizzato per far rispettare le gerarchie di genere e controllare le donne e gli individui non conformi al genere. Questa violenza può assumere molte forme, tra cui violenza domestica, violenza sessuale, mutilazione genitale femminile (MGF) e la cosiddetta violenza “correttiva” contro coloro che non si conformano ai ruoli di genere tradizionali. In molti casi, questi atti di violenza sono tollerati, normalizzati o persino promossi all’interno della società, rafforzando ulteriormente la subordinazione di un genere rispetto a un altro. Questo tipo di violenza non è solo un’espressione di aggressione individuale, ma è spesso tollerata da norme o pratiche sociali che considerano le donne e le minoranze di genere inferiori o bisognose di controllo. Rappresenta una grave forma di apartheid di genere, in cui la violenza è sistematicamente utilizzata per imporre la subordinazione di genere e negare agli individui il loro diritto alla sicurezza, all’autonomia e all’uguaglianza.

4. Esclusione sistemica dai diritti e dai servizi:

  • Negazione dell’accesso ai servizi sanitari essenziali, tra cui la salute riproduttiva, la prevenzione delle malattie sessualmente trasmissibili e i servizi di salute mentale. o Esclusione dai sistemi giudiziari che negano alle donne o agli individui non conformi al genere l’opportunità di cercare un risarcimento legale per crimini o violazioni dei diritti, come i tribunali che non riconoscono la loro testimonianza o applicano standard di prova più severi per i crimini basati sul genere.
  • Privazione della libertà personale, comprese restrizioni alla circolazione, all’organizzazione politica e alla partecipazione alle proteste.

L’esclusione sistemica dai diritti e dai servizi essenziali è un pilastro fondamentale dell’apartheid di genere, in cui agli individui, in particolare alle donne e alle persone non conformi al genere, viene deliberatamente negato l’accesso a servizi essenziali e protezioni legali. Queste esclusioni rafforzano e sostengono la disuguaglianza di genere rendendo difficile o impossibile per i gruppi emarginati vivere liberamente, accedere all’assistenza sanitaria, cercare giustizia e partecipare pienamente alla società.

5. Propaganda e incitamento all’odio:

  • Promozione di ideologie che affermano l’inferiorità di genere attraverso i media, la propaganda o la retorica politica, giustificando la discriminazione, il dominio e/o l’oppressione e diffondendo stereotipi dannosi.
  • Normalizzazione della discriminazione di genere, del dominio e/o dell’oppressione attraverso l’istruzione, la cultura popolare o dichiarazioni ufficiali di leader politici o religiosi.

La propaganda e l’incitamento all’odio sono potenti strumenti utilizzati per sostenere l’apartheid di genere promuovendo ideologie che giustificano la subordinazione di un genere all’altro. Attraverso la deliberata diffusione di stereotipi dannosi, queste tattiche rafforzano le norme sociali che legittimano la discriminazione e l’oppressione basate sul genere. Tali ideologie sono spesso radicate nei media, nella retorica politica, nei sistemi educativi e nella cultura popolare, favorendo un ambiente in cui la disuguaglianza è normalizzata e persino celebrata. La propaganda e l’incitamento all’odio mantengono l’apartheid di genere attraverso la promozione dell’inferiorità di genere e la normalizzazione della discriminazione di genere. In particolare,

b) Forme di condotta

  • Imposizione diretta: la condotta può essere imposta direttamente tramite minaccia o forza legale o fisica, come l’applicazione di leggi discriminatorie o l’uso della violenza per sostenere le norme di genere.
  • Supporto o tolleranza istituzionale: la mancanza di azioni per reprimere pratiche o politiche discriminatorie può anche integrare la condotta quando uno stato, un governo o un’istituzione sostiene indirettamente la discriminazione, il dominio e/o l’oppressione di genere.
  • Controllo sistemico: la condotta può essere parte di un quadro di controllo sistemico che include non solo leggi e politiche, ma anche applicazione selettiva, controllo dei media ed educazione per mantenere la superiorità di genere, il dominio e/o l’oppressione.

c) Impatto della condotta

L’obiettivo dell’apartheid di genere è quello di mantenere e rafforzare una gerarchia di genere che perpetua la disuguaglianza e l’oppressione in modo che gli individui di un certo genere rimangano svantaggiati in tutti gli aspetti della vita sociale, politica ed economica. Gli effetti degli atti includono:

  • Creazione di un sistema di disuguaglianza strutturale cronica, che causa danni psicologici, fisici, economici e sociali al gruppo oppresso.
  • Perpetuazione di stereotipi di genere, che giustificano la subordinazione e la discriminazione, causando un ciclo a lungo termine di privazione di potere ed esclusione.

La condotta dell’apartheid di genere ha conseguenze profonde e di vasta portata sulla società, con il suo scopo finale di rafforzare e mantenere una rigida gerarchia di genere. Questo sistema garantisce che determinati generi, in genere donne e individui non conformi al genere, rimangano svantaggiati in tutti gli ambiti della vita, socialmente, politicamente ed economicamente. Gli impatti di questa condotta sono devastanti, radicano la disuguaglianza e perpetuano cicli di oppressione e privazione di potere. In particolare:

1. Disuguaglianza strutturale cronica

L’apartheid di genere crea un sistema di disuguaglianza strutturale cronica che si manifesta in varie forme di danno, psicologico, fisico, economico e sociale. Questa disuguaglianza strutturale è intessuta nel tessuto della società, assicurando che le donne e le minoranze di genere affrontino barriere sistemiche alle opportunità e alle risorse, mentre il gruppo di genere dominante (in genere gli uomini) beneficia di privilegi e potere duraturi.

  • Danno psicologico: il costante rafforzamento dell’inferiorità e della subordinazione causa danni psicologici a lungo termine.
  • Danni fisici: l’apartheid di genere provoca anche danni fisici diretti, in particolare attraverso l’uso della violenza per far rispettare le norme di genere e mantenere il controllo. Ciò può includere violenza domestica, omicidi d’onore, matrimoni forzati, mutilazioni genitali femminili e punizioni fisiche per non conformità di genere.
  • Danni economici: l’impotenza economica è una componente critica dell’apartheid di genere, in cui alle donne e alle minoranze di genere viene sistematicamente negato l’accesso all’istruzione, all’occupazione e alle risorse economiche.
  • Danno sociale: l’apartheid di genere favorisce l’esclusione dalla vita pubblica, con donne e minoranze di genere spesso escluse dalla partecipazione politica, dai ruoli decisionali e dalle posizioni di leadership. Questa esclusione porta all’emarginazione di interi gruppi dal progresso e dallo sviluppo della società.

2. Ciclo a lungo termine di privazione del potere ed esclusione

La condotta dell’apartheid di genere stabilisce un ciclo a lungo termine di privazione del potere ed esclusione, in cui ai generi emarginati vengono sistematicamente negate le opportunità di sfuggire all’oppressione. Ogni generazione eredita e perpetua la disuguaglianza e gli stereotipi della precedente, rafforzando l’idea che l’attuale gerarchia di genere sia naturale o immutabile.

  • Impatto intergenerazionale: l’apartheid di genere non colpisce solo coloro che vivono sotto di essa, ma anche le generazioni future.
  • Sviluppo sociale ed economico: l’esclusione a lungo termine delle donne e delle minoranze di genere dai ruoli critici nella società impedisce anche lo sviluppo sociale ed economico generale.. Gli studi hanno dimostrato che una maggiore uguaglianza di genere porta a una maggiore prosperità economica, poiché più individui sono in grado di partecipare pienamente alla forza lavoro e contribuire al progresso sociale.

 3. ELEMENTO SOGGETTIVO: INTENZIONE E CONSAPEVOLEZZA

a) Mens Rea (Intenzione)

L’elemento soggettivo del crimine di apartheid di genere va oltre la semplice intenzione di discriminare. Comporta la consapevolezza e l’accettazione della gravità e della natura sistematica della discriminazione, con l’intenzione di mantenere o rafforzare la subordinazione di un gruppo di persone in base al loro genere. Ciò significa una volontà consapevole di dominare, controllare o soggiogare un gruppo specifico in base al genere. In genere, ciò comporta il mantenimento di una struttura sociale e politica che perpetua la superiorità di un genere, spesso maschile rispetto a quello femminile, attraverso leggi, politiche o pratiche che pongono un genere in una posizione subordinata o emarginata, privandolo di diritti e opportunità fondamentali.

Gli autori devono essere consapevoli che le loro azioni o politiche si tradurranno in discriminazione, dominazione o oppressione e sofferenza di un gruppo di persone in base al genere. Anche se non è l’intento primario, gli autori devono accettare la discriminazione e la disuguaglianza risultanti come inevitabili o accettabili.

Pertanto, la mens rea, o elemento soggettivo, implica una consapevolezza e un’accettazione specifiche della gravità e della natura sistemica della discriminazione, con l’intenzione di mantenere o rafforzare la subordinazione di un gruppo basato sul genere.

b) Prova dell’elemento soggettivo

Per stabilire l’elemento soggettivo in un contesto giudiziario, possono essere utilizzate varie forme di prova, tra cui:

  • Documentazione ufficiale: leggi, regolamenti, decreti e politiche ufficiali che dimostrano esplicitamente o implicitamente l’intenzione di perpetuare la discriminazione di genere. Questi documenti possono servire come prova diretta dell’intenzione di creare e/o mantenere un sistema discriminatorio.
  • Dichiarazioni pubbliche: discorsi, dichiarazioni o altri atti comunicativi degli autori che esprimono l’intenzione di sostenere un sistema di supremazia di genere. Queste dichiarazioni possono evidenziare la consapevolezza dell’autore degli effetti delle proprie azioni e la sua deliberata intenzione di continuare tali pratiche.
  • Pratiche istituzionali: prova che le istituzioni statali o altre organizzazioni implementano costantemente pratiche discriminatorie contro uno specifico gruppo di genere. Ciò può includere registrazioni di come le politiche vengono applicate nella pratica, dimostrando un approccio sistematico all’esclusione e alla disuguaglianza basate sul genere.

 

Proposta del C.I.S.D.A. (Coordinamento Italiano di Sostegno alle Donne Afgane) inviata Sesta Commissione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite con la lettera che puoi leggere qui, redatta con la collaborazione giuridica della Dot.ssa Laura Guercio, (avvocato e professoressa, attualmente SG Universities Network for Children in Armed Conflict, membro del Consiglio dell’European Law Institute, esperta OSCE) e della Dot.tssa Paolina Massidda, (avvocato penalista internazionale specializzata in crimini di genere e crimini che colpiscono i bambini. Avvocato principale dell’Office of Public Counsel for Victims (OPCV) indipendente presso la CPI. Membro del comitato consultivo dell’UNETCHAC)

Lettera all’ONU per il riconoscimento dell’apartheid di genere come crimine contro l’umanità

Alla Sesta Commissione

Assemblea Generale delle Nazioni Unite

 

l’Associazione C.I.S.D.A. (Coordinamento Italiano a Sostegno delle Donne Afghane) con la presente nota intende fornire un contributo ai lavori in corso nell’ambito della Sesta Commissione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite sulla Convenzione dei Crimini contro L’Umanità, per chiedere che venga presa in esame l’introduzione del crimine di “apartheid di genere” nella proposta di Convenzione sulla prevenzione e la punizione dei crimini contro l’Umanità.

Vi inviamo pertanto in allegato la nostra analisi e proposta di definizione del reato di “apartheid di genere”, affinché la stessa possa essere presa in considerazione nelle modalità ritenute più opportune. Tale proposta, che vuole avere una valenza generale per ogni situazione che in essa vi rientri, trova però la sua origine nella crescente consapevolezza di governi, istituzioni internazionali, Associazioni della società civile ed attiviste per i diritti umani che ciò che si sta compiendo in Afghanistan è un crimine contro l’umanità la cui tipologia non è ancora pienamente riconosciuta dai Trattati esistenti e dalle Convenzioni internazionali.

Come emerge dal più recente Report dello Special Rapporteur sull’Afghanistan del Human Rights Council del giugno 2024, il Paese rappresenta il caso più emblematico di applicazione di un sistema pervasivo, metodico ed istituzionalizzato di oppressione e segregazione delle donne e delle ragazze, rafforzato da editti e politiche che le sanzionano violentemente e impongono privazioni dei diritti fondamentali. Le testimonianze delle attiviste per i diritti umani che operano nel Paese e con le quali CISDA è in contatto ci riportano lo stato di grave depressione mentale e il maggior numero di suicidi delle donne come unica possibilità di fuga da una vita condannata alla paura e alla reclusione.

Uniamo la nostra voce a quella del Relatore Speciale nel ritenere che l’inclusione del crimine di apartheid di genere nel “Trattato sulla prevenzione e la punizione dei crimini contro l’Umanità” possa sostenere la comunità internazionale in una vigorosa azione di condanna e messa al bando di coloro – individui, governi di fatto, stati e regimi politici – che applicano violazioni sistematiche e istituzionalizzate di genere.

Il C.I.S.D.A. opera dal 1999 a stretto contatto con Associazioni di attiviste tra le quali la principale è R.A.W.A. (Associazione Rivoluzionaria delle Donne Afghane) che, nel proprio Paese, attiva da decenni, in clandestinità, progetti umanitari a sostegno di donne, bambini e della popolazione civile in stato di necessità. Le attiviste di R.A.W.A. affiancano al lavoro umanitario la denuncia politica sulle gravi violazioni dei diritti umani e sui crimini commessi non solo dall’attuale regime dei talebani ma, a partire dalla fine degli anni ‘70, anche dai fondamentalisti e dai signori della guerra che hanno ricoperto incarichi di rilievo nei precedenti governi della Repubblica Islamica. E’ a partire da quel periodo che sono iniziati, e continuano tuttora, i finanziamenti e il sostegno da parte di potenze regionali e internazionali a criminali che hanno preso il controllo dell’intera società afghana per più di quaranta anni rendendo impossibile lo sviluppo di una società laica e democratica e un processo di reale autodeterminazione per il popolo afghano.

Per C.I.S.D.A. e per le donne di RAWA, l’apartheid di genere si sviluppa in Afghanistan proprio da questi fatti drammatici ed è frutto di una violenza sistemica che scaturisce dalla drammatica sinergia tra fondamentalismo religioso, conflitti armati, corruzione dilagante negli organi preposti al governo di fatto del Paese, traffico di armi, droghe ed esseri umani, cambiamento climatico, crisi umanitarie, migrazioni forzate e terrorismo.

Ciò che avviene oggi nell’Afghanistan governato dal regime talebano è ancor più grave per la comunità internazionale in quanto si assiste ad una normalizzazione in atto della condizione di totale negazione dei diritti umani nei confronti del popolo afghano e in particolare delle donne, delle bambine e degli individui LGBTQI+.

Per questi motivi, plaudiamo all’impegno e alla leadership del Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite nel riconoscimento e la condanna a livello internazionale del grave crimine di apartheid in un’ottica di genere, consolidando così per tutti gli individui nel mondo, indipendentemente dal genere, il principio di eguali diritti tra donne e uomini sancito dalla Dichiarazione Universale dei diritti Umani delle Nazioni Unite.

In conformità alle raccomandazioni dello Special Rapporteur sull’Afghanistan del Human Rights Council, riteniamo però che tale processo non possa essere disgiunto dalla necessità che gli Stati membri delle Nazioni Unite non riconoscano in nessun modo il governo di fatto dell’Afghanistan, mettano al bando il fondamentalismo talebano con provvedimenti urgenti, impediscano finanziamenti e rifornimenti militari da parte di Paesi amici, estromettano rappresentanti del governo di fatto da incontri della diplomazia internazionale e non li convochino alle riunioni delle Nazioni Unite. Azioni queste che legittimano un regime che continua a violare i diritti umani delle donne e gli obblighi legali internazionali dell’Afghanistan.

La proposta che presentiamo in allegato è stata redatta con la collaborazione giuridica della Dot.ssa Laura Guercio, (avvocato e professoressa, attualmente SG Universities Network for Children in Armed Conflict, membro del Consiglio dell’European Law Institute, esperta OSCE) e della Dot.tssa Paolina Massidda, (avvocato penalista internazionale specializzata in crimini di genere e crimini che colpiscono i bambini. Avvocato principale dell’Office of Public Counsel for Victims (OPCV) indipendente presso la CPI. Membro del comitato consultivo dell’UNETCHAC)

Distinti saluti

 

C.I.S.D.A. (Coordinamento Italiano a Sostegno delle Donne Afghane)

The Taliban do not live on fundamentalism alone: among oppression, corruption, and a flood of money

It is well known: the Taliban government is sustained by aid from donor countries, particularly the United States, sent to Afghanistan.

Reports from the Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction (Sigar) have shown this multiple times. Most of the aid arriving in the country is intercepted by the Taliban in various ways and retained, either peacefully or through coercion, for the direct support of the state apparatus and to foster loyalty and support among the officials who administer, maintain, and uphold the regime at various levels, especially in the most remote regions. The organizations responsible for distributing the aid lack either the capacity or the will to monitor or reject this diversion.

But how did the Taliban manage to establish this model of governance so quickly? In reality, the apparatus was already in place: the Afghan economy was already accustomed to surviving on external funding and corruption. During twenty years of U.S. dominance, the Islamic Republic had not developed an independent and self-sufficient economy because the U.S. policy had been to use “money as a weapon,” meaning flooding Afghanistan with enormous amounts of money to “keep terrorists and potential rebellions in check” without having to intervene directly with troops and weapons.

U.S. money and economic contracts enriched and empowered warlords and militia commanders, including the Taliban—some estimates suggest they received 10% of the funds—to discourage attacks on NATO convoys. U.S. money had thus permeated all levels of Afghan politics and society, perpetuating an environment conducive to embezzlement, fraud, and favoritism. Every government official, from the president to the low-ranking functionaries, took advantage of this to enrich themselves, and the entire system was sustained by corruption and bribes.

When the United States and the coalition left the country, everyone who had sustained themselves and grown rich through this system of corruption either fled Afghanistan or went into hiding, but nothing changed: only the beneficiaries shifted, replaced by the Taliban, their militants, and their supporters, who inserted themselves wherever they could to seize sources of income and wealth.

Thus, the taxes, bribes, and levies systematically and in large quantities demanded not only from wealthy NGOs and international institutions providing aid but also from the poorest strata of the hungry population and even the poorest women—those without husbands and jobs—enrich not so much the state coffers but the personal wealth of Taliban ministers and their affiliates, turning Afghanistan into a full-fledged kleptocratic state.

How do the Taliban generate their wealth? Primarily through taxes, “a tax system so rigorous and efficient that it has received praise from international agencies, but which is in reality a system of extortion carried out under their authority to consolidate their power, support the repressive machine, build madrasas and mosques, and promote the Talibanization of society, without providing any services to the population. It’s effectively an extortion system aimed at one of the most unfortunate populations on the planet,” explains Zan Times.

They also collect income through the issuance of various licenses and services for which they can charge official fees and unofficial bribes, such as for passports and ID cards. In 2022, between $800 and $3,000 was charged for a passport, bringing in a total of about $50 million in issuance fees. The cost of ID cards reached $5, a significant amount for more than half of Afghan citizens who live on less than $1.90 a day, and so far, the Taliban have issued around four million of them.

Taxes are also collected informally, through door-to-door visits, with imprisonment, threats, and acts of violence for non-payment of customs and tax duties, as well as new exorbitant taxes imposed on the private sector, which are unaffordable even for entrepreneurs.

And then there are the bribes demanded from women and their families. Thanks to laws restricting women’s freedoms, those in power can profit from the permits issued on a case-by-case basis. Restrictions on women traveling alone or abroad, the requirement to wear the hijab, and the ban on working have become sources of income for those in power, no matter how small. Many women have testified that they were only able to cross borders or travel by paying bribes or fines.

It becomes clear that the restrictions imposed on the population, particularly on women, are not only driven by the fundamentalist zeal of Taliban religious leaders who want to spread sharia but also by the economic opportunities these restrictions offer to officials who apply them, in the form of bribes and taxes for any essential service required for survival.

The absolute subjugation women are forced into, which makes them work in conditions akin to slavery and renders them the poorest stratum of society—humanitarian aid reaches women and children last or not at all—allows the Taliban to profit by exploiting their labor.

Where taxes are insufficient, corruption takes over. Witnesses have told 8AM Media that corruption has increased significantly compared to the first emirate. “Officials are involved in business ventures, buying land and houses, building oil reservoirs, and conducting trade. Additionally, there are cases of drug trafficking, and most local commanders, once in power, take a second, third, and fourth wife, organize lavish weddings, and buy expensive cars. The same officials admit that corruption, particularly rampant in customs, is uncontrollable because every commander or Taliban member has ties to the regime and is untouchable.”

In the Taliban power structure, where wives are seen as status symbols, leaders, officials, and fighters are fueling the practice of offering “bride prices” higher than the market rate, exploiting both the desire to curry favor with the Taliban through blood ties and the fear of reprisals in the event of refusal.

Government employment is also a means of rewarding fighters and loyalists while punishing dissenters. It has therefore been an immediate focus of Taliban attention to ensure control through various absurd decrees, such as replacing female public servants at the Ministry of Finance with male family members, regardless of their qualifications, or introducing a religious test, arbitrarily used to fire workers in public hospitals and at all levels of the Ministry of Education.

Unsurprisingly, power positions have been entrusted to relatives: the accusations against Taliban leaders for appointing their sons and other male relatives to government positions have become so serious that Supreme Leader Akhundzada issued a decree in March 2023 ordering officials to stop.

But while the privileges granted to low-ranking officials serve to ensure their unwavering loyalty, the more powerful leaders have more significant sources of income and, above all, are organizing to safeguard their wealth abroad, following well-established paths from the previous government—namely, through travel.

“Health reasons” is the excuse used to circumvent international sanctions that prohibit Taliban government officials—all of whom have been accused of international terrorism for many years—from traveling. In reality, Qatar, the United Arab Emirates, Pakistan, and Turkey have always been willing to offer individual Taliban leaders a safe haven for their assets or families, allowing them to move personal financial resources abroad.

Though the government publishes budgets, it is reluctant to explain how economic resources are used. There is no public accounting or criteria for awarding government contracts, property sales, licenses, or other concessions, nor are there external accountability mechanisms. According to the president of Afghan Peace Watch, close relatives of at least two current interim Taliban ministers have private offices through which Afghan and foreign contractors can obtain government contracts and other favors for an additional fee.

Rather than concern themselves with international recognition, the Taliban seem more interested in increasing their access to cash, and customs revenues are a significant source of foreign currency, given that the international community has cut off access to foreign reserves.

Exports and customs duties related to natural resources have significantly increased their income. Taliban leaders exert virtually unchecked control over the rights, extraction, and export of Afghanistan’s mineral wealth. Especially coal—relying on child labor—but a United Nations report has indicated they also smuggle precious stones and semi-precious metals to Central Asia, Europe, and the Persian Gulf. Similarly, illegal logging and timber exports have become very profitable.

Smuggling is also a source of wealth. A major route for illicit trade, drug trafficking, and other corrupt practices is the Afghanistan-Pakistan Transit Trade Agreement (APTTA), which sees a vast quantity of products diverted to Pakistan’s black market, circumventing tariffs and duties, estimated at billions of dollars, without any checks being imposed: officials and border agents are either bribed or coerced into not intervening.

The Taliban have also been identified as directly involved in arms trafficking. With their permission, arms dealers have set up bazaars in the Helmand, Kandahar, and Nangarhar regions, with weapons imported from Austria, China, Pakistan, Russia, and Turkey.

Human trafficking by smuggling networks is another source of income: while senior Taliban leaders have publicly declared a ban on it, individual guards do not hesitate to accept bribes in exchange for turning a blind eye at border crossings, according to reports.

Then there is the opium trade, which has always been the main source of wealth for the Taliban. The government has banned its cultivation, causing heroin prices to rise significantly, benefiting the wealthier individuals who can profit from the stockpiled opium. The Taliban leaders banned opium cultivation because they want to impose their authority, deciding where and whether it can be cultivated and who the authorized traffickers are to manage, cultivate, and process narcotics.

Finally, there are humanitarian organizations operating in Afghanistan: they are often forced to pay taxes, presumably to ensure their security. The Taliban even demand 15% of U.N. aid. But that’s not all: they have infiltrated many organizations with their affiliates, occupying strategic positions to manipulate aid and direct funds toward their supporters, family members, disabled soldiers, veterans, and madrasas, sometimes with the mediation of mullahs who serve as community leaders in exchange for a bribe. And those who manage to receive aid are taxed up to 66% of what they get.

They have also established and registered their own NGOs, which they control directly, and through which they can receive humanitarian aid from international organizations and distribute it in areas with greater political, ethnic, regional, and religious affinities.

But how much money have they managed to obtain this way? If we look, for example, at aid sent by the United States, which is by far the largest donor, SIGAR reveals that since August 2021, U.S. implementing partners have paid at least $10.9 million to the Taliban government in taxes, fees, and services. However, SIGAR believes that, since payments made by UN agencies receiving U.S. funds are not subject to scrutiny, the actual amount could be much higher, considering that from October 2021 to September 2023, the United Nations received $1.6 billion from the United States, out of a total of $2.9 billion in U.S. aid over the three-year period. All this money helps keep the Taliban in power because it pays the privileges and corruption of their loyal corrupt officials and supporters, ensuring their backing.

What would happen if this aid stopped flowing?

A significant part of the documentation supporting this article comes from the George W. Bush Presidential Center report ‘Corruption and Kleptocracy in Afghanistan under the Taliban.’

Beatrice Biliato is part of the Italian Coordination in Support of Afghan Women (CISDA)

Non di solo fondamentalismo vivono i Talebani: tra oppressione, corruzione e un fiume di denaro

È risaputo: il governo talebano si sostiene con gli aiuti che i Paesi occidentali donatori, e gli Stati Uniti in particolate, inviano in Afghanistan.

I rapporti dell’Ispettore generale speciale per la ricostruzione dell’Afghanistan (Sigar) l’hanno mostrato più volte. La gran parte degli aiuti che arrivano nel Paese vengono intercettati dai Talebani in vario modo e trattenuti, con le buone o le cattive, per il sostegno diretto dell’apparato statale e per foraggiare il consenso e la fedeltà dei funzionari che amministrano, mantengono e sostengono il regime ai vari livelli e nelle regioni più remote, senza che le organizzazioni preposte alla distribuzione abbiano la capacità o la volontà di controllo o rifiuto.

Ma come hanno fatto i Talebani a mettere in piedi in così breve tempo questo modello di governanceIn realtà, l’apparato era già pronto: l’economia afghana era già abituata a mantenersi grazie ai finanziamenti esterni e alla corruzione. Nei vent’anni di dominio statunitense la Repubblica islamica non aveva sviluppato un’economia indipendente e autosufficiente perché la politica Usa era stata quella di usare i “soldi come arma”, inondare cioè l’Afghanistan con un’enorme quantità di denaro per “tenere buoni” i terroristi e le possibili ribellioni senza dover intervenire direttamente con soldati e armi.

Quando gli Stati Uniti e la coalizione hanno lasciato il Paese, tutti coloro che si erano mantenuti e arricchiti grazie a questo sistema di corruzione sono scappati dall’Afghanistan o si sono nascosti ma nulla è mutato: sono semplicemente cambiati i destinatari, sono stati sostituiti dai Talebani, dai loro miliziani e sostenitori, che si sono infilati ovunque hanno potuto per accaparrarsi le fonti di reddito e di ricchezza. 

Quindi le tasse, le tangenti, i balzelli che sistematicamente e in grande quantità vengono richiesti non solo alle ricche Ong e alle istituzioni internazionali che forniscono gli aiuti ma finanche agli strati più poveri della popolazione affamata e alle più povere fra le donne, quelle senza marito e senza lavoro, vanno ad arricchire non tanto le tasche dello Stato quanto quelle personali dei ministri talebani, il loro patrimonio personale e quello dei loro affiliati, così facendo dell’Afghanistan uno Stato cleptocratico in piena regola. 

In che modo i Talebani producono la loro ricchezza? Innanzitutto attraverso le tasse, “un sistema fiscale tanto rigoroso ed efficiente da aver ricevuto gli elogi delle agenzie internazionali, che è in realtà un sistema di estorsione che mettono in atto con la loro autorità per consolidare il loro potere, sostenere la macchina repressiva, costruire madrase e moschee, promuovere la talebanizzazione della società, senza fornire alcun servizio alla popolazione. Di fatto di un sistema di estorsione rivolto a una delle popolazioni più disgraziate del Pianeta”, spiega Zan times.

Ma raccolgono le loro entrate anche attraverso la distribuzione di varie licenze e servizi per i quali possono addebitare tariffe ufficiali e tangenti non ufficiali, come per i passaporti e le carte d’identità. Nel 2022 per un passaporto venivano chiesti tra gli 800 e i tremila dollari, così raccogliendo in spese di emissione un totale di circa 50 milioni di dollari. Il prezzo delle carte d’identità è arrivato a cinque dollari, un costo significativo per più della metà dei cittadini afghani che vivono con meno di 1,90 dollari al giorno, e finora i Talebani ne hanno distribuito circa quattro milioni. 

Le tasse vengono riscosse anche in modo informale, attraverso visite porta a porta, con incarcerazioni, minacce e atti di violenza in caso di mancato pagamento dei dazi doganali e fiscali e delle sempre nuove tasse richieste al settore privato, esorbitanti anche per gli imprenditori. 

E poi ci sono le tangenti che vengono richieste alle donne e ai loro famigliari. Grazie alle leggi che tolgono le libertà alle donne, chi ha in mano il potere può lucrare sulle concessioni rilasciate di volta in volta. Le restrizioni per le donne a viaggiare da sole o all’estero, l’imposizione di indossare l’hijab, il divieto di lavorare sono state trasformate in fonti di guadagno per chi gestisce il potere, per quanto piccolo: molte donne hanno testimoniato che sono riuscite a passare la frontiera o a viaggiare solo grazie alle tangenti o alle multe che hanno dovuto pagare. 

Si scopre così che tutte le limitazioni imposte alla popolazione e in particolare alle donne non sono dettate solo dal furore fondamentalista dei religiosi talebani che vogliono diffondere la sharia ma di più dalla ricaduta economica che i funzionari che le applicano possono trarne in termini di tangenti, imposte per qualsiasi servizio indispensabile alla sopravvivenza della popolazione. 

Anche l’assoluta subordinazione cui sono costrette le donne e che le costringe a lavorare in condizioni di schiavitù, mentre le rende lo strato più povero della popolazione -gli aiuti umanitari arrivano per ultimi o mai alle donne e ai bambini- permette ai Talebani di arricchirsi sfruttando il loro lavoro.

Dove non bastano le tasse arriva la corruzione. Alcuni testimoni hanno raccontato a 8AM Media che la corruzione è aumentata enormemente rispetto al primo emirato. “I funzionari sono coinvolti in iniziative commerciali, nell’acquisto di terreni e case, nella costruzione di serbatoi petroliferi e nella conduzione di scambi commerciali. Inoltre si vedono casi di traffico di droga e la maggior parte dei comandanti locali, una volta insediati, prendono la seconda, la terza e la quarta moglie, organizzano nozze sontuose e comprano auto costose. Gli stessi funzionari ammettono che la corruzione, particolarmente dilagante nelle dogane, è incontrollabile, perché ogni comandante o membro talebano ha affiliazioni con il regime ed è intoccabile”. 

Nella struttura di potere talebana, dove le mogli sono considerate uno status symbol, leader, funzionari e combattenti stanno alimentando la pratica di offrire “prezzi per la sposa” superiori a quelli di mercato, sfruttando il desiderio di ingraziarsi i Talebani con un legame di sangue o la paura di ritorsioni in caso di rifiuto. 

Anche l’impiego nel governo è un mezzo con cui premiano combattenti e lealisti e allo stesso tempo puniscono chiunque non sia d’accordo con loro, perciò è stato fin da subito oggetto delle loro “attenzioni” per assicurarsene il controllo attraverso diversi assurdi decreti, come la sostituzione delle dipendenti pubbliche del ministero delle Finanze con i membri maschi della famiglia, indipendentemente dalla qualifica, o l’introduzione di un test religioso, arbitrariamente utilizzato per licenziare i lavoratori negli ospedali pubblici e a tutti i livelli del ministero dell’Istruzione.

A maggior ragione, le posizioni di potere sono state affidate ai parenti: le accuse ai leader talebani di aver nominato i propri figli e altri parenti maschi a posizioni governative sono diventate così gravi che il leader supremo Akhundzada ha emesso un decreto nel marzo 2023 che ordinava ai funzionari di smettere.

Ma se i privilegi dei piccoli funzionari servono ai Talebani per garantirsi la loro indiscussa fedeltà, i leader più potenti hanno fonti di reddito più consistenti e soprattutto si organizzano per mettere al sicuro, all’estero, le ricchezze ottenute, seguendo strade già ben consolidate dal precedente governo, cioè attraverso i viaggi.

Motivi di salute” è la scusa per aggirare le sanzioni internazionali che vietano ai Talebani al governo -tutti accusati di terrorismo internazionale già da molti anni- di viaggiare. Ma in realtà il Qatar, gli Emirati Arabi Uniti, il Pakistan e la Turchia sono sempre stati disposti a fornire ai singoli leader talebani un rifugio sicuro per i loro beni o per le loro famiglie, per spostare risorse finanziarie personali all’estero.

Pur facendo bilanci pubblici, il governo è riluttante a spiegare come le risorse economiche vengono usate. Per i contratti governativi, le vendite di proprietà, le licenze e le varie concessioni non esistono una contabilità e criteri per l’assegnazione pubblici, nè meccanismi di responsabilità esterna. Secondo il presidente dell’Afghan peace watch, i familiari stretti di almeno due attuali ministri ad interim talebani hanno uffici privati attraverso i quali i firmatari afghani e stranieri possono ottenere contratti governativi e altri favori per una tariffa extra.

Più che preoccuparsi per il riconoscimento internazionale, i Talebani sembrano interessati ad aumentare il loro accesso al denaro contante, e le entrate doganali sono una fonte importante di valuta, dato che la comunità internazionale ha tagliato l’accesso alle riserve di valuta estera. 

Le esportazioni e i dazi doganali legati alle risorse naturali hanno aumentato notevolmente le loro entrate. I leader talebani hanno un’influenza praticamente incontrollata sui diritti, sull’estrazione e sull’esportazione delle ricchezze minerarie dell’Afghanistan. Specialmente il carbone -che si basa sul lavoro dei bambini -, ma un rapporto delle Nazioni Unite ha indicato che contrabbandano anche pietre preziose e metalli semipreziosi verso l’Asia centrale, l’Europa e il Golfo Persico. Allo stesso modo, il disboscamento illegale e le esportazioni di legname sono diventati molto redditizi.

Anche il contrabbando è una fonte di ricchezza. Un’importante via per il commercio illecito, il traffico di droga e altre pratiche corrotte è l’Accordo commerciale di transito tra il Pakistan e l’Afghanistan (Aptta) che vede dirottare nel mercato nero del Pakistan un’immensa quantità di prodotti aggirando tariffe e dazi, secondo alcune stime per miliardi di dollari, senza che vengano imposti controlli: funzionari e agenti di frontiera vengono corrotti o costretti a non intervenire.

Ma i Talebani sono stati identificati anche come direttamente coinvolti nel traffico di armi. Con il loro permesso, i trafficanti di armi hanno fondato bazar nelle regioni di Helmand, Kandahar e Nangarhar, con armi importate da Austria, Cina, Pakistan, Russia e Turchia. 

Anche il traffico degli esseri umani a opera delle reti di trafficanti è fonte di guadagni: mentre gli alti leader talebani ne hanno annunciato il divieto, le singole guardie non disdegnano di accettare tangenti pur di guardare dall’altra parte ai posti di frontiera, secondo quanto riferito. 

E poi c’è il commercio dell’oppio, da sempre la principale fonte di ricchezza per i Talebani. Il governo ne ha proibito la coltivazione, così i prezzi dell’eroina sono aumentati in modo significativo a tutto vantaggio dei più ricchi che possono trarre profitto dalla pasta di oppio accumulata. I leader hanno vietato la coltivazione dell’oppio perché vogliono imporre la loro autorità, decidere se può essere coltivato o meno e dove farlo, cioè quali sono i trafficanti autorizzati a gestire, coltivare e trattare i narcotici. 

Infine ci sono le organizzazioni umanitarie che operano in Afghanistan: sono spesso costrette a pagare tasse, presumibilmente per garantirsi la sicurezza. I Talebani arrivano a pretendere il 15% degli aiuti delle Nazioni Unite. Ma non basta: si sono inseriti con loro affiliati in molte organizzazioni occupando posizioni strategiche così da manovrare l’assistenza indirizzando i fondi verso loro sostenitori, membri della famiglia, soldati disabili, veterani e madrasse, a volte con la mediazione dei mullah che ricoprono il ruolo di leader comunitari in cambio di una tangente. E chi riesce a ottenere gli aiuti viene tassato anche fino al 66% di quanto ricevuto. Inoltre hanno costituito e registrato Ong proprie, che controllano direttamente e attraverso le quali possono ricevere gli aiuti umanitari dalle organizzazioni internazionali e distribuirli nelle località con maggiori affinità politiche, etniche, regionali e religiose.

Ma quanti soldi sono riusciti a ottenere in questo modo? Se guardiamo ad esempio agli aiuti inviati dagli Stati Uniti, che sono di gran lunga il principale donatore, il Sigar rivela che dall’agosto 2021 i partner attuatori statunitensi hanno pagato al governo talebano in tasse, commissioni, servizi almeno 10,9 milioni di dollari. Ma il Sigar ritiene che, poiché i pagamenti delle agenzie Onu che ricevono fondi statunitensi non sono soggetti a controlli, l’importo effettivo potrebbe essere molto più alto, se consideriamo che dall’ottobre 2021 al settembre 2023 le Nazioni unite hanno ricevuto 1,6 miliardi di dollari dagli Stati Uniti, su un totale di aiuti statunitensi di 2,9 miliardi di dollari nel triennio. Tutti soldi che mantengono i Talebani al potere perché pagano i privilegi e la corruzione dei loro fedeli funzionari corrotti e dei loro sostenitori per assicurandosi il loro appoggio.

Che cosa accadrebbe se questi aiuti smettessero di arrivare? 

Buona parte della documentazione a supporto di questo articolo è tratta dal Report del George W. Bush presidential center “Corruption and kleptocracy in Afghanistan under the Taliban”.

Beatrice Biliato è un’attivista di CISDA

L’articolo è uscito il 22 ottobre 2024 su Altreconomia.it